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Se Londra compra le lacrime

Oltre mezzo secolo per ammettere di aver massacrato i Mau Mau. E ora la Gran Bretagna si è (auto) riabilitata con pochi spiccioli.

Dopo oltre sessant’anni gli inglesi hanno ammesso le atrocità compiute in Kenya durante la ribellione dei Mau Mau, e lo scorso 6 giugno William Hague, segretario di stato per gli affari esteri, ha dichiarato che Londra ha raggiunto una composizione amichevole con i rappresentanti dei circa cinquemila sopravvissuti ai campi di prigionia, sborsando un totale di circa 23 milioni di euro, che saranno usati anche per costruire un memoriale per le vittime di torture e maltrattamenti durante il periodo coloniale.

È più che altro una vittoria morale, come ha sottolineato il portavoce dei veterani del movimento nazionalista Mau Mau, Gitu wa Kahengeri, notando che nessuno potrà mai ripagare le sofferenze e la morte di migliaia di persone, e che, a conti fatti, ogni sopravvissuto riceverà la non esaltante cifra di circa tremila euro.
Vittoria comunque importante, considerando che ancora nel 2005 il primo ministro Gordon Brown, dopo un breve viaggio in Kenya, affermava che la Gran Bretagna avrebbe dovuto smettere di chiedere scusa per il colonialismo, e, anzi, dovrebbe essere orgogliosa della storia coloniale in Africa, elogiando i «valori britannici», come la libertà, la tolleranza e la virtù civica.

Affermazioni tanto più assurde perché proprio in quei mesi erano stati pubblicati due libri Histories of the Hanged di David Anderson, e Britain’s Gulag di Caroline Elkins, entrambi storici di indubbia fama, che ricostruivano come la Gran Bretagna avesse utilizzato in Kenya feroci metodi di repressione coloniale. Le loro ricerche avevano portato alla luce documenti che l’amministrazione coloniale aveva scientemente cercato di occultare, e dimostrato come per otto anni le truppe coloniali avessero agito al di là della legalità e ogni valore morale, torturando impunemente civili e commettendo omicidi di massa.

In uno dei tantissimi episodi citati e documentati da Anderson un ufficiale inglese racconta, con cinica indifferenza, che mentre sta interrogando tre sospetti “uno di loro, un bastardo, alto e nero come il carbone, continuava a sorridere insolentemente, allora l’ho schiaffeggiato, ma lui continuava a sorridere. L’ho colpito nei testicoli con tutte le mie forze… Quando finalmente riusci a rialzarsi, mi sorrise di nuovo e mi son saltati i nervi. Ho messo la pistola in quella bocca ghignante, e ho tirato il grilletto. Il muro retrostante si copri di pezzi di cervello. Gli altri due indagati guardavano nel vuoto…così ho sparato anche a quei due. Quando e arrivato il commissario gli ho detto che i tre sospetti avevano cercato di fuggire. Non mi credette, ma tutto quello che disse fu: seppelliteli e ripulite il muro.”

Nessun funzionario britannico, militare o civile, è stato mai indagato o processato per quello che è successo nella repressione dei Mau Mau. I documenti venuti alla luce in questi ultimi anni forniscono una documentazione che fa pensare al genocidio. Nel 1952, venne ufficialmente decretato lo stato di emergenza, con conseguente “villaggizzazione”: quasi un milione di indigeni arrestati e costretti a vivere in recinti di filo spinato sotto il controllo armato di agenti di sicurezza.

Il numero di morti causati dalla rivolta e dalla repressione durata dal 1952 al 1963 rimane un mistero. Di certo si sa che i civili inglesi vittime dei Mau Mau non furono più di 40. I civili keniani sono stimati (a seconda di chi fa la stima) tra 25mila e 300mila, quest’ultima cifra è considerata dalla Elkins minimalista, potrebbero essere stati anche 400mila. La Commissione dei diritti umani del Kenya sostiene che circa 90mila furono assassinati e oltre 160mila detenuti in condizioni spaventose. Molti hanno subito castrazione, stupro e violenze della peggior specie. Oggi non c’è nessun dubbio che queste pratiche e i sistematici abusi di diritti umani fossero stati autorizzati ai più alti livelli del governo britannico.

La mossa del governo britannico sembra ispirata dal desiderio di rafforzare i legami politici ed economici con l’ex colonia. Ma ha indotto anche in altri perseguitati politici il desiderio di chiedere compensi per danni subiti. Alcuni Mau Mau non escludono di fare causa al governo del Kenya per averli completamente trascurati dopo l’indipendenza. Inoltre i tribunali stanno ordinando al governo keniano di compensare uomini politici che negli anni del presidente Daniel arap Moi, 1978-2002, sono stati detenuti e torturati.

Dieci giorni dopo l’annuncio di William Hague, due personaggi politici, Gitobu Imanyara e Njehu Gatabaki, e un giornalista, Bedan Mbugua, hanno ricevuto complessivamente circa 300mila euro in compenso delle torture e dei danni subiti. Mbugua, che lavorava per un giornale protestante e sempre sostenne di agire solo in base alle sue convinzioni etiche, fu l’unico giornalista a denunciare le intimidazione e truffe che avvennero durante le elezioni del 1988. Non solo fece tre anni di prigione senza essere accusato di niente, ma la sua carriera e la sua vita furono distrutte da continue interferenze dei servizi segreti. La cifre che i tre hanno ricevuto è ben più alta di quella accettata dai Mau Mau, e si riferisce a violenze pericolosamente molto più vicine nel tempo. Non si può non pensare cosa potrebbe succedere se le vittime delle violenze post-elettorali di cinque anni fa, per le quali sono indiziati alla Corte penale internazionale gli attuali presidente e vice-presidente, decidessero di far causa al governo keniano per non averle protette e compensate per le proprietà terriere perdute e per le vite stroncate dei familiari. Migliaia di loro vivono ancora in situazione di precarietà.

La delusione Obama

I miei amici kenyani sono profondamente delusi, anche se preferiscono non darlo a vedere. Il presidente degli Stati Uniti d’America ha iniziato ieri la sua seconda visita in Africa, e anche questa volta si guarderà bene dal mettere piede in Kenya, il paese di suo padre. Per rendere ancora peggiore lo smacco, si recherà in visita alla vicina Tanzania.

L’elezione di Obama aveva suscitato un’enorme euforia in Kenya perché da senatore prima e da candidato in campagna elettorale poi, aveva esaltato la sua origine kenyana e il suo attaccamento alla memoria del papà. Fresco di nomina al senato degli Stati Uniti, Barack Obama aveva proclamato in un gremito auditorium di Nairobi: «Voglio che tutti voi sappiate che come vostro alleato, vostro amico e vostro fratello, sarò sempre con voi». Non sorprende quindi che tanti kenyani, in quel novembre 2008, si fossero convinti che un kenyano (“one of our sons” uno dei nostri figli, dicevano) fosse diventato presidente degli Stati Uniti. Si farneticava sulle facilitazioni che sarebbero state introdotte per i kenyani desiderosi di acquisire la cittadinanza americana, e non mancarono nemmeno i pronostici sulla possibilità che il Kenya potesse diventare… il cinquantunesimo stato degli Stati Uniti d’America! Raila Odinga, allora prima ministro, si era affrettato a far sapere di essere cugino di Obama, negandolo solo in un secondo momento, probabilmente su cortese invito dell’ambasciata americana in Kenya, che non desiderava proprio che Obama si ritrovasse con un cugino potenzialmente indiziato di crimini contro l’umanità. Erano già sufficientemente imbarazzanti i fratellastri alcolizzati e senza fissa dimora!

Ma non erano solo i kenyani a sperare che stesse per iniziare una nuova era. Imprese internazionali erano pronte a partecipare a bandi di gara per nuovi progetti. Io stesso ero stato avvicinato da un paio di imprese che, credendomi in contatto con potentati locali, mi proponevano di facilitare il loro inserimento nel mercato in vista di lucrosi contratti che, si diceva, sarebbero stati certamente finanziati da Obama. E si sognava la riabilitazione di tutti gli ospedali e delle scuole superiori statali del Kenya. Sarebbero stati necessari apparecchiature mediche e laboratori di fisica, chimica e di informatica.

Come tutti sanno, nulla di tutto questo è ovviamente successo. Obama non solo non si è lasciato intrappolare dalla sua origine etnica, ma per il Kenya, e per l’Africa tutta, ha fatto ancor meno del poco dei suoi immediati predecessori. I successi di cui si può vantare, all’inizio di questo suo secondo viaggio in Africa da presidente degli USA – dal 26 giugno al 3 luglio, toccando Senegal, Sudafrica e Tanzania – non sono molti. Anzi, gli aiuti americani all’Africa che col presidente George W. Bush erano schizzati in alto da 1.1 miliardi di dollari del 2006 agli 8.2 del 2009, sono scesi ai 6.9 del 2011. E poi, le iniziative per promuovere sicurezza alimentare e salute e per contrastare i cambiamenti climatici sono passate in seconda linea rispetto all’impegno per la sicurezza e le operazioni militari. La presenza americana, a volte problematicamente indecisa, è stata molto più visibile sui campi di battaglia, con il lancio di missili, ma anche l’invio di militari kenyani ed etiopici all’assolto della Somalia, con il sostegno ai ribelli libici contro Muammar Gaddafi, la spesa di milioni di dollari per addestrare gli eserciti africani a combattere gli estremisti islamici e la costruzione di una base per i drone nel deserto del Niger. Ttto questo mentre altri paesi come India e Brasile, ma sopratutto la Cina, hanno enormemente accresciuto i loro investimenti e gli scambi commerciali con l’Africa.

Questo viaggio intende forse spostare l’accento. Ma lo scarso entusiasmo con cui Obama è stato accolto lascia immaginare che non ci riuscirà. Senza contare il rischio enorme rappresentato dalla possibilità che Nelson Mandela venga a mancare proprio durante la visita di Obama in Sudafrica. Il che non solo farebbe passare la visita assolutamente in secondo piano, ma potrebbe richiedere addirittura che l’agenda del presidente venga completamente modificata. In Africa, infatti, si partecipa al lutto ed è inimmaginabile che si abbandoni la famiglia in difficoltà per andarsene ad altri impegni. Sarebbe uno sgarbo imperdonabile.

Per i kenyani la realizzazione che Obama non è “one of our sons” che solo per caso è nato in America, è avvenuto durante il suo primo viaggio in Africa, di sole 20 ore, in Ghana, nel 2009. Ogni passaggio del discorso che pronunciò in quell’occasione, lodando i progressi di quel paese, sembrava essere stato scritto apposta per denunciare i corrispondenti fallimenti del Kenya.

Oggi i segnali che Obama è ormai un personaggio distante e poco amato non mancano. Pochi giorni fa l’editoriale del più importante quotidiano kenyano ammetteva malinconicamente che, dopotutto Obama, «è il presidente degli Stati Uniti che è in visita in Africa, non un kenyano moralmente obbligato a ritornare a casa”. In realtà, nonostante alcune analisi apparentemente distaccate e neutrali sull’inizio del secondo mandato di Obama, per molti kenyani si tratta di poco meno di un traditore.

Il senatore Barak Obama in visita a Kibera, Nairobi, nel 2006.

Parliamo di Pace

La pubblicazione lo scorso 11 giungo del Global Peace Index (Gpi, indice globale di pace) è l’ultima autorevole constatazione che l’Africa sub-sahariana non ha più il primato delle guerre, del sottosviluppo e dell’instabilità politica. Ci vorranno molti anni perché questo cambiamento venga registrato dall’opinione pubblica internazionale, sopratutto in Italia dove le notizie sull’Africa sono cosi scarse ed approssimative, ma ormai è un fatto assodato. Di Gpi si parlerà il prossimo 26 giugno all’università Cattolica di Milano, con la partecipazione di oltre settanta studiosi di fama mondiale, alcuni dei quali sono stati fra gli iniziatori del Gpi, che viene ormai pubblicato annualmente dal 2007. Secondi i dati che saranno commentati a Milano, l’Africa sub-sahariana nel suo insieme ha un indice di pace più alto che non il Medio Oriente, il Nord Africa, l’ Asia meridionale, la Russia e l’Eurasia

E’ difficile misurare la pace. La pace ha dimensioni interiori, individuali e collettive, che sfuggono a misurazioni quantitative. Fra gli indici che il Gpi usa per misurare le pace c’è la percentuale di carcerati sulla popolazione totale. Un carcerato come lo è stato Nelson Mandela è un segno negativo o una grande speranza di pace per il futuro? Il cuore è in pace quando ci sono determinate condizioni esterne, o la pace nasce dal cuore? Veramente, la dimensione spirituale della pace sembra impossibile da catturare. Comunque l’uomo moderno vuole misurare tutto e ci prova anche con la pace. Lo sforzo è encomiabile. Per arrivare ai risultati della ricerca, l’Institute for Economics and Peace – un’istituzione nata in Australia, a Sidney, per iniziativa di Steve Killelea che sarà presente e Milano – esamina 158 paesi in base a 23 criteri fondamentali. Tali criteri comprendono la partecipazione a conflitti internazionali, il livello dei conflitti interni, di criminalità violenta, il numerico di carcerati, il rispetto dei diritti umani, le spese militari ecc.

In parte, il risultato positivo per l’Africa sub-sahariana commentano gli estensori del rapporto, riflette l’aumento della prosperità economica in tutta la regione, dove la crescita ha superato quello di ogni altra regione del mondo nel corso degli ultimi due anni, e, ironia della sorte, la tradizionale emarginazione dell’Africa dall’economia globale ha aiutato ad isolarla dall’impatto della crisi finanziaria globale.

Tuttavia “è chiaro che rischi possono sorgere dove c’è la percezione pubblica che i vantaggi di una rapida crescita economica nazionale non sono equamente condivisi. Per esempio, l’abbassamento in graduatoria del Burkina Faso è dovuto all’aumento della probabilità di manifestazioni violente, del numero di omicidi e di crimini violenti. La rabbia dell’opinione pubblica per l’alto costo dei vita e l’inadeguatezza dei servizi statali, nonostante forte crescita economica globale, ha già portato a un’ondata di violente proteste e scioperi, e il potenziale per ulteriori disordini rimane alto”.

“Frustrazione per l’ingiusta divisione dei profitti può anche portare a un aumento dei crimini violenti, o la percezione degli stessi, come emerge in Repubblica Centrafricana (CAR), Gambia, Mozambico, Niger, Tanzania e Togo.”

“Ciò che un certo numero di questi stati hanno pure in comune è l’aumento della longevità politica dei loro leader. Leader che sono al potere troppo a lungo sono spesso accompagnati da una marginalizzazione dei partiti di opposizione. Privata della possibilità di cambiare attraverso le urne, la popolazione cercherà il cambiamento con mezzi più violenti, come è stato nel caso del CAR”.

“Gli altri stati che hanno notevolmente contribuito alla posizione in classifica di questa regione dimostrano come i conflitti abbiano un impatto duraturo: La posizione della Costa d’Avorio nel 2013 è stata condizionata da un’ondata di violenze nella seconda metà del 2012, con una serie di attacchi nel sud del paese di cui il governo ha accusato le forze fedeli all’ex presidente, Laurent Gbagbo. La Repubblica Democratica del Congo continua ad essere colpita da un conflitto armato nelle province orientali del paese, che a sua volta è alimentato da un ampio spostamenti della popolazione che dura da decenni, come pure dalla una mancanza di controllo del governo centrale, dalla competizione per il controllo delle vaste risorse naturali della regione, e dalle tensioni tra le diverse comunità e gruppi etnici. La posizione in classifica del Sudan è il riflesso delle tensioni di lunga data che ha portato alla secessione del Sud Sudan nel luglio 2011. Questo non ha risolto i problemi nell’area confinante che il nuovo stato del Sud Sudan, mentre la Somalia non ha veramente recuperato sin dall’inizio del conflitto civile nei primi anni novanta.”

Che l’ingiusta divisone delle risorse e dei profitti, la concentrazione di potere politico in poche mani aumentino la possibilità di conflitto e che per superare conflitti lunghi e sanguinosi come quello del Congo ci voglia molto tempo non sono cose nuove, e qualche scettico potrebbe dubitare dell’utilità di simili ricerche e del Cpi. Ma la pace è cosi importante che non possiamo permetterci di non usare tutti gli strumenti possibili per capire come farla crescere.

Gesù? E’ in Danimarca.

Una sera a Nairobi, intorno al grande tavolo di Kivuli, c’erano alcuni dei nostri acrobati adulti e numerosi ospiti: si trattava di una ventina di persone, appartenenti ad un’associazione danese che propone attività circensi a scopi educativi. Dopo minestrone e frittata con contorno di sukuma wiki, ci stavamo scambiando esperienze e ricordi, quando i danesi ci hanno chiesto come avessimo cominciato. I keniani mi hanno delegato a rispondere e a raccontare come tutti si fossero aggregati ai Nafsi Africa, il nostro gruppo acrobatico “storico”, dopo che Hector ed io li avevamo spronati. Ma Hector ormai lavora a Dubai da tempo.

Nel 1998 avevo portato i primi bambini di Kivuli in un centro culturale, il Bomas of Kenya, ad assistere ad un’esibizione di cultura tradizionale keniana; in quell’occasione avevamo visto lo spettacolo di un gruppo acrobatico che li aveva incantati. Tornati a Kivuli, insistettero per settimane che li aiutassi ad imparare i rudimenti dell’arte acrobatica. Scatenai Hector, allora mio braccio destro a Kivuli, che alla fine non trovò altra soluzione che tornare al Bomas of Kenya e arruolare due acrobati, che venissero a Kivuli a dare lezioni di acrobatica due volte alla settimana, dietro piccolo compenso. Cosi i due istruttori, con le loro lezioni, diventarono un richiamo fisso per molti dei ragazzi di Kivuli e del circondario. Entrambi erano musulmani originari della costa e uno dei due aveva un nome assolutamente inusuale in Kenya. Tempo dopo, quando ormai i bambini di Kivuli avevano fatto notevoli progressi e si era stabilita una certa familiarità, mi permisi di chiedere al giovane la ragione del suo insolito nome. Egli allora mi raccontò, con la massima serietà, anzi direi compunzione, una di quelle storie che si sentono solo in Africa.

Quando nacqui, ero tutto coperto di peli. Mia mamma, disperata, consultò dottori, sceicchi, santoni, erboristi, perfino stregoni, ricevendo suggerimenti di soluzioni, le più diverse e più strane: da preghiere che dovevano essere recitate quotidianamente a creme preparate con bizzarri ingredienti, da applicare sulla pelle del neonato. Ma i peli resistevano ad ogni trattamento. Dopo qualche mese la mamma, che mi teneva sempre avvolto in un panno, vergognandosi di quel figlio che somigliava troppo ad una scimmietta, mi portò a Mtwapa, da un anziano con fama di santone e guaritore, percorrendo quasi cinquanta chilometri a piedi, perché i soldi per l’autobus non li aveva. Il vecchio le disse che la medicina era molto semplice e non costava niente: chiama tuo figlio Jesus e vedrai che i peli, prima della prossima luna nuova, saranno tutti caduti. Jesus, all’inglese, non Issa, che è il nome di Gesù in arabo. Ogni volta che la mamma mi chiamava con quel nome, i peli diminuivano, finché sparirono del tutto.

Cosi fu che quello che sarebbe diventato il nostro bravo e simpatico istruttore musulmano perse tutti i peli. Nel 1999, Jesus e il suo collega Nelson ebbero un’offerta di lavoro a Londra, l’accettarono, prepararono i ragazzi di Kivuli alla loro prima esibizione pubblica a Nairobi sotto la supervisione di Hector, se ne andarono e da allora non li abbiamo piu visti. Ma i Nafsi Africa erano nati ed oggi i Piccoli Acrobati di Koinonia continuano la tradizione.

Mentre raccontavo, vedevo che i nostri ospiti danesi sgranavano gli occhi increduli e si facevano sempre più attenti, inducendomi a pensare che questo atteggiamento fosse dovuto alla stranezza della storia di Jesus. Si, quella era una ragione, ma ce n’era un’altra ancor più incredibile: Jesus era stato anche il loro istruttore di acrobatica! A quel punto sono stati loro a raccontarci che Jesus aveva detto di essere originario della costa del Kenya, di aver lavorato per qualche anno a Londra, con occasionali tournée in nord Europa, e di aver deciso di fermarsi in Danimarca, mettendo su una scuola di acrobatica. A loro però non aveva mai raccontato né la storia dei primi mesi della sua vita né dell’origine del suo nome e neanche dell’attività a Kivuli.

Cosi, molto africanamente il Koinonia Children Team e i Nafsi Africa hanno scoperto di avere un antenato in comune con il Circo Sociale di Alborg, e sono diventati ancor più amici.

L’ultima generazione del Koinonia Children Team al lavoro.

Una normale settimana per i Nuba

Ormai da due anni sui Monti Nuba è tornata la normalità della guerra. Il conflitto armato fra ribelli nuba che affermano il proprio diritto all’autodeterminazione, iniziato nel 1983, sospeso dal cessate il fuoco del 2002, congelato con l’accordo di pace fra Nord e Sud Sudan del 2005, è ripreso nel giungo del 2011, poco prima che il Sud Sudan proclamasse la propria indipendenza. Da allora i Monti Nuba, rimasti intrappolati nel Sudan, ma rispetto agli anni precedenti con il grosso vantaggio di un lungo confine col Sud Sudan, sono di nuovo teatro di scontri. Il territorio è in mano allo SPLA-N (Esercito di liberazione del popolo sudanese- N), confluiti con i ribelli del Darfur e del Southern Blu Nile, nel SRF (Sudan Revolutionary Front, o Fronte rivoluzionario sudanese) mentre il governo di Khartoum mantiene la supremazia aerea bombardando campi e villaggi per provocare fame e la fuga delle popolazione verso il Sud.
Si calcola che ormai del circa un milione e mezzo di nuba residenti nella zona, trecentomila siano rifugiati in Sud Sudan e altri quattrocentomila siano IDP (Internally Displaced People – sfollati – , nel gergo delle agenzie umanitarie) nel loro stesso paese. Molti di loro vivono nascosti nelle grotte sulle montagne e scendono a valle solo per coltivare i campi, sempre pronti a rifugiarsi nelle buche che hanno scavato come protezione contro i bombardamenti. Una situazione ben descritta dal documentario RAI di Enzo Nucci, Silenzio sugli Innocenti, andato in onda lo scorso settembre.
Le notizie filtrano dai Monti Nuba con grande difficoltà. Quella che segue è un’arida cronaca di bombardamenti e sofferenze che si sono succeduti in una settimana come le altre.

Il 20 maggio 2013 alle 11.15 due caccia Sukhoi del Sudan Air Force (SAF) – la forza aerea sudanese – hanno sganciato una bomba sulla città di Buram. Alle 17.20 un Antonov della SAF ha sganciato altre 5 bombe su Buram. Non sono segnalati morti o feriti.

il 21 maggio 2013 alle 11.10 un Antonov (SAF) ha sganciato 4 bombe sulla città di Buram e 2 bombe sul villaggio di Tabanya. Non sono segnalati morti o feriti. In totale, nella settimana in questione, sono state sganciate 21 bombe nella zona di Buram.

Il 22 maggio 2013 alle 11.00 due caccia Sukhoi (SAF) hanno sganciato due bombe sul villaggio di Ngorbang. Le bombe sono cadute nei campi vicini, mentre i contadini stavano seminando, ma nessuno è rimasto ferito.

Il 23 maggio 2013 alle 9.30 un Antonov (SAF) ha sganciato 5 bombe sul villaggio di Jebel Kuwa ferendo leggermente due donne che sono state portate in una vicina postazione medica per essere curate.

Il 24 maggio 2013 alle 17.00 un aereo militare sudanese ha sganciato 9 bombe appena fuori dal villaggio di Kudi. Le bombe hanno colpito due case e mandato schegge di roccia nell’aria. Una scheggia ha colpito una bambina di un anno, uccidendola sul colpo. Altre schegge hanno ferito cinque bambini nascosti nello stesso rifugio antiaereo. Nell’attacco sono rimasti feriti sette civili adulti.

Il 25 maggio 2013 alle 10.00 un Antonov (SAF) ha sganciato 3 bombe sul villaggio di Abu Hashim. Non sono segnalati morti o feriti.

Il 27 maggio le forze armate sudanesi hanno ripreso il controllo di Abu Kershola, a seguito del ritiro dalla città delle forza del SRF, che avevano preso il controllo della città lo scorso 27 aprile. Gli scontri ad Abu Kershola e villaggi circostanti hanno provocato 63.000 rifugiati, o sfollati interni (IDP Internally Displaced People, nel gergo delle agenzie umanitarie), come annunciato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA).
Save the Children Svezia ha rimesso in funzione quattro pompe a mano per fornire acqua a circa 2.000 persone nella zona di Dibeakir. Lo stesso gruppo ha anche migliorato le infrastrutture idriche a El Rahad (Nord Kordofan), dove ci sono più di 18.000 sfollati da Abu Kershola.
I ribelli SRF dopo la loro partenza dalla zona orientale del Sud Kordofan hanno fatto sapere che intendono effettuare altri attacchi nei prossimi giorni, accrescendo i timori che il conflitto in corso si estenda al resto del Nord Kordofan, alla città di Kosti e nella regione del Nilo Blu.
«La situazione della sicurezza nella zona di Abu Kershola è ancora fragile», afferma una valutazione effettuata dalla Mezzaluna Rossa sudanese. Tuttavia, circa 27.000 persone potrebbero tornare nella zona di Abu Kershola e hanno bisogno urgente di assistenza umanitaria.

Non ci sono giornalisti professionisti in tutta l’area Nuba, vasta quasi un terzo dell’Italia. C’è, che io sappia, un solo collegamento internet per via satellitare, mobile e sempre accuratamente camuffato. I tre ragazzi che lo gestiscono sono tutti ex-allievi delle scuole che Koinonia ha tenuto aperte fra i nuba fino a poco tempo fa. Uno di loro ieri, via Facebook (!) mi ha scritto: “Padre, prega per noi. Il Signore ti guidi sulla strada per tornare tra noi, e nutra il tuo cuore con la Sua pace”.

Sembrano solo fagotti abbandonati. Sono donne e bambini nuba fuggiti dalla battaglia di Abu Kershola.

Soluzioni Africane a Problemi Africani

Tristemente, le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dell’Unione africana (Ua), all’insegna del “Rinascimento africano”, si sono trasformate in una vetrina del peggio della politica del continente.

L’Organizzazione dell’Unità Africana (Oua) ha la sua origine nella lotta per la decolonizzazione e prese forma definitiva ad Addis Abeba nel 1963. Dal 2002, dopo un forte intervento diplomatico e anche monetario di Gheddafi, è diventata Unione africana (Ua).

Per le celebrazioni, lo scorso fine settimana, erano presenti i leader di 54 paesi. Fra di loro il presidenti del Sudan Omar El-Bashir e del Kenya Uhuru Kenyatta, il primo condannato e il secondo indiziato dalla Corte penale internazionale (Cpi) per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. C’era una serie di altri personaggi poco appetibili, come Robert Mugabe, presidente dello Zimbabwe da oltre tren’anni al potere, e il presidente del Rwanda Paul Kagame, accusato dalle Nazioni Unite di aver sostenuto le attività criminali dei ribelli del M23 nella vicina Repubblica democratica del Congo. Le celebrazioni, con circa 15.000 ospiti, si sono tenute nella nuova grandiosa sede dell’Ua, che domina la capitale etiopica, costruita dal governo cinese al costo di duecento milioni di dollari.

In assemblea generale, il ministro degli esteri ugandese, Sam Kuteesa, ha presentato una mozione perché la Cpi chiuda i casi contro il presidente e il vicepresidente del Kenya, William Ruto, affermando che le accuse sono basate su falsità. Lo stesso presidente ugandese, Yoweri Museveni, ha chiesto garanzie affinché il presidente Kenyatta non sia umiliato quando si recherà all’Aia per l’apertura del suo processo prevista per il 9 luglio, affermando di essere a conoscenza che la Cpi ha programmato di arrestare Kenyatta quando giungerà all’Aia. Mentre Museveni fa queste denunce, in Uganda è in corso una feroce repressione contro l’opposizione che accusa il presidente, al potere ormai da quasi trent’anni, di manovrare per farsi succedere dal figlio, Muhoozi Kainerugaba.

Sull’onda della retorica del rispetto delle sovranità nazionali dei paesi africani, il presidente dello Zambia, Michael Sata, ha chiesto che siano i kenyani a risolvere i loro problemi, dicendo «Dov’era l’Aia, quando l’Africa lottava per la propria indipendenza? Se un presidente del Kenya o dello Zambia è colpevole, devono essere i popoli del Kenya o dello Zambia a giudicarlo, non l’Aia!». Dimenticando che, a suo tempo, fu proprio il popolo kenyano a chiedere che i responsabili della violenza post-elettorale fossero giudicati dalla Cpi, avendo poca fiducia nella giustizia locale.

Infine, il primo ministro etiopico Hailemariam Desalegn ha accusato la Corte penale internazionale di “discriminazione razziale” affermando che al momento della sua creazione lo scopo della Cpi era quello di evitare ogni forma d’impunità, ma che ora quelle buone intenzioni sono degenerate: «Il 99% degli imputati all’Aia sono africani, e questo è sufficiente a dimostrare che qualcosa non va», ha affermato.

Inevitabilmente, i commentatori politici hanno fatto notare che i problemi dell’Africa sono ben più seri dei problemi personali e di potere di alcuni presidenti e che i presidenti africani invece di proteggersi, dovrebbero mantenere l’impegno, assunto nell’ambito di un sistema volontario di “peer review”, di garantire che le rispettive amministrazioni aderiscano a principi democratici e di buona governance.

“Soluzioni africane a problemi africani” è il mantra continuamente ripetuto dai membri della elefantiaca burocrazia dell’Ua, ma i problemi risolti sono proprio pochini. L’Ua appare piuttosto all’opinione pubblica del continente, là dove una società civile esiste, la migliore illustrazione del proverbio che dice:«Non si finisce mai di mangiare la carne di un elefante».

Afro-pessimismo? No, non serve. Come non serve un pregiudiziale afro-ottimismo. C’è bisogno di afro-realismo, bisogna guardare cioè ai tanti, tantissimi africani che non sono stati invitati alle celebrazioni del cinquantesimo e che lavorano duramente ogni giorno per crescere e per far rispettare i propri e altrui diritti.

Cosi Gado, famosissimo vignettista keniano, vede l’Unione Africana.

La Violenza degli Altri

«Non pensi che quanto sta succedendo nel Sahel, dal Mali al Sudan, passando per il Niger, nord della Nigeria, il Ciad e persino fino alla Repubblica Centrafricana, cioè già in piena Africa Nera, sia parte di un grande disegno islamista?» Chi mi pone la domanda è un confratello che segue con interesse e competenza gli sviluppi sociali e religiosi di quest’area, dove ha passato buona parte delle sua vita, tanto che parla discretamente l’arabo. Gli devo però rispondere, sapendo di deluderlo:«No, non lo penso».
Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alle grandi forze che agitano il mondo islamico. Può essere che in questo mondo islamico ci siano persone o organizzazioni che vorrebbero emulare Osama bin Laden. Credo, tuttavia, che se anche questo fosse vero, il focalizzarci su di loro, l’evidenziare il terrorismo più brutale, non ci aiuti a capire cosa sta veramente succedendo.
I disagio è diffuso e le situazioni sono diverse. Generalizzare non serve. Senza dubbio in tutta l’area ci sono delle influenze reciproche, e senza dubbio molta dell’instabilità attuale si è scatenata dopo la caduta di Gheddafi in Libia. Mi sembra però improbabile pensare che qualcuno abbia organizzato e guidato il tutto come un disegno globale. Se c’è un disegno globale, questo si è innestato sul disagio e la rabbia locale, senza la quale non avrebbe avuto agganci. È importante conoscere la situazione locale, i dettagli, la storia. Il Mali non è la Repubblica Centrafricana ed entrambi sono diversissimi dal Ciad. Certo, è più difficile applicarsi a capire i tanti focolai esistenti e le loro possibili connessioni che non identificare un colpevole globale e cercare di colpirlo a morte. Ma così torniamo alla vecchia storia del capro espiatorio. Abbiamo visto con Osama bin Laden che non funziona. Eliminato lui, la “guerra contro il terrorismo” non è stata vinta; è rinata in altre forme, come nella rabbia esplosa in Svezia, come nei recenti terribili, disumani attacchi terroristici di Boston e di Londra. Quando si nega l’umanità degli altri, ci si rifiuta di ascoltare le loro ragioni – anche quelle che sono sbagliate – non c’è da meravigliarsi se chi si sente negato e impotente reagisce con violenza cieca e irragionevole. Così il terrorismo diffuso, senza organizzazioni e senza capi, diventa praticamente impossibile da prevenire.
Commentando un rapporto pubblicato un paio di settimane fa, Kofi Annan, ex segretario generale delle Nazioni Unite, super-moderato diplomatico di carriera, ha affermato che l’evasione fiscale, lo sfruttamento minerario incontrollato e l’esportazione clandestina di capitali stanno privando l’Africa dei benefici che potrebbero derivare dal boom dei prezzi delle materie prime. Queste operazioni costano all’Africa ben 38 miliardi di dollari l’anno. Annan ha aggiunto: «L’Africa, attraverso questi canali, ogni anno perde il doppio dei fondi che riceve dai donatori… È come rubare il cibo dalla tavola dei poveri!”. C’è da meravigliarsi se alcuni pensano che la spogliazione dell’Africa e le guerre nelle nazioni islamiche siano frutto di un grande disegno di predominio cristiano, visto che identificano, purtroppo, e sbagliando, i ricchi con i cristiani?
Nel Sahel i poveri si fanno la guerra fra di loro, sono attirati da ideologie di tutti i tipi (anche di matrice cristiana, a volte) perché non capiscono cosa sta succedendo, si percepiscono come vittime, impoveriti, disorientati, spaventati, dominati dall’esterno da forze troppo potenti. I predicatori di odio, i Boko Haram, i Seleka, i Fratelli Musulmani… hanno gioco facile a proporre soluzioni alle quali probabilmente essi stessi non credono ma che rispondono a un loro immediato interesse di potere.
Nessuno vuole giustificare la azioni contro i cristiani che stanno avvenendo in un’ampia fascia del Sahel. Ma il metodico, cronico furto delle risorse africane eseguito in modo anonimo e globale, come denunciato da Annan, è certamente una della principali cause della rabbia diffusa contro l’Occidente.
Non serve ripetere all’infinito che l’ispirazione del terrorismo non è nell’Islam, come ha fatto il premier inglese David Cameron. Suona troppo ipocrita, specialmente se queste affermazioni non vengono accompagnate da un serio impegno a capire le ragioni degli altri, e il loro senso di impotenza.
A livello personale, a Londra abbiamo visto cosa si potrebbe fare. Quell’uomo pazzo di odio, con le mani sporche di sangue, è stato fermato da una donna. Una donna sola. Una madre, pronta a sacrificarsi per salvare i figli degli altri e che, con istinto materno – come ha detto in un’intervista – ha visto in quel “terrorista” solo un ragazzo confuso, e ha cominciato a parlargli. Restare umani, avvicinarci agli altri come persone umane. Non è arrendersi. È la forza più grande: restare umani anche di fronte a chi umano non è più. È capire le dinamiche dell’odio per superarlo e vincerlo.
Tradurre in politica un simile approccio non è facile, ma bisogna provarci.

Social Circus Project

Katharina Gruener e Luca Sartor, della fondazione UCI, durante il mese di aprile hanno tenuto a Tone la Maji tre settimane di workshop di circo sociale, in continuità con l’esperienza iniziata lo scorso dicembre. Erano previsti un massimo di 30 ragazzi e ragazze, divisi in due gruppi, ma Katharina e Luca si sono dovuti far carico di oltre 40 partecipanti…
Aspettando un loro commento, speriamo benevolo, ecco qualchefoto.



Rinascere a dodici anni

Cronaca con video (di Matteo Osanna) di una sera a Ngong, per dare addio alla vita di strada.

Un gruppo di oltre venti ragazzini, vestiti di stracci, puzzolenti, alcuni già intontiti dai fumi della colla, altri invece con l’alito che odora di benzina, come lo scarico di un motore ingolfato. Un gruppo di bambini lanciati verso l’autodistruzione. Ne ho conosciuti tanti cosi, e nessuno è arrivato ai trent’anni. Questi li ho incontrati una sera del mese scorso, a Ngong, la cittadina ai piedi delle omonime famose colline dove Karen Blixen ha vissuto e ambientato il suo romanzo “out of Africa”, alla periferia di Nairobi. Piovigginava e la notte si annunciava fredda, ma di notti in strada quei bambini ne avevano già passate tante.

Quella sera era diversa perché c’era con loro un adulto, buon pastore. Jack, educatore di Koinonia, dopo averli inseguiti e fattiseli amici per mesi, li aveva radunati con una proposta: lasciate la vita di strada, venite con me e John, l’altro educatore, a Ndugu Ndogo. Vi daremo da mangiare ogni giorno, vi manderemo a scuola, potrete ripartire con una vita dignitosa, insieme, continuando ad aiutarvi come avete fatto per sopravvivere in strada. Noi vi accompagneremo, ma sarete voi a camminare.

In sè, la proposta non era poi cosi attraente. Quei bambini amano la libertà della vita di strada, la mancanza di disciplina, la possibilità di decidere ogni giorno cosa fare. Poi magari ogni tanto dopo aver racimolato qualche soldo, si concedono il lusso di ordinare un piatto di githeri (patate, chicchi di mais e fagioli bolliti insieme e insaporiti con erbe aromatiche) ad una delle donne che cucinano all’aperto, e si sdraino su un rato, al sole, immaginando che ci sia vicina la mamma che dice parole buone.

Ecco, questo è il punto, la cosa che manca di più, anche se nessuno lo vuol ammettere: Un adulto che ti vuol bene, che si interessa di te, che ti protegge e ti guida. Che quando c’è una difficoltà se ne fa carico, che ti aiuta a crescere. Ma la cosa davvero importante è che ti voglia bene.

Mister Kariuki è il proprietario del ristorante in cui Jack ha organizzato questo “addio alla strada”. E’ uno stanzone con pareti e tetto fatti di lamiera ondulata, tenuti insieme da una intelaiatura di legno, arredata con panche, e con braciere di carbonella in un angolo. Kariuki, che mi fa pensare ad un pugile a fine carriera e poi mi conferma di esserlo, lo ha messo a disposizione per una cifra modestissima, poi, mentre Jack parla ai ragazzi, è andato nel “negozio” vicino a comperare quattro forme di pane e cinque litri di latte per questi ragazzi affamati. Gli saranno costati quanto i profitti di tre giorni, ma rifiuta i miei ringraziamenti con un gesto della mano bofonchiando “sono figli nostri”.

La notte passa in fretta, con canti, danze, storie della vita di strada. Il mattino i bambini improvvisano una partita di pallone, fanno un bagno veloce in un fosso che le piogge della notte hanno trasformato in torrente. “Per presentarci puliti a Ndugu Mdogo”, mi dice serio Paul, 12 anni, il capobanda che la sera prima era ubriaco o era intontito dalla benzina, o entrambe le cose, mentre si immerge nell’acqua fangosa, e poi via verso la nuova casa. Solo tredici hanno avuto il coraggio di fare il salto. Gli altri preferiscono l’opzione offerta da Jack di aspettare qualche settimana, purché poi prendano un decisione definitiva. “Devono lasciare la strada convinti di fare una scelta importante e irreversibile – sottolinea Jack – perché se fallissero e tornassero indietro, diventerebbe psicologicamente impossibile per loro incominciare un altro percorso di recupero.”

Nelle quattro settimane successive li ho visti crescere giorno dopo giorno. Quando li saluto prima di partire per Verona , sono sono normalissimi ragazzini felici. Ancora una volta tre pasti al giorno e l’attenzione, l’ascolto, l’affetto, che Jack e John sono sempre pronti ad offrire stanno compiendo il miracolo della rinascita di tredici bambini.

Leadership senza Frontiere

L’altro ieri in un pezzo di opinione del Nation, il principale quotidiano del Kenya, Charles Omondi, che per questo quotidiano lavora come giornalista da oltre vent’anni scriveva “Ogni volta che mi capita di visitare un altro paese sub-sahariano, penso che il governare un paese sia una cosa troppo complessa per un africano.”

L’articolo continua con un quadro di situazioni che si possono ritrovare a Kinshasa come a Nairobi, a Lagos, a Bujumbura: spazzatura ovunque, venditori ambulanti che vendono illegalmente di tutto anche cibo in condizioni igieniche allucinanti, trasporto pubblico in condizioni vergognose con conseguente inquinamento a livelli tossici, elettricità erratica. Potremmo aggiungere acquedotti senza acqua, servizi scolastici e sanitari ampiamente inadeguati e troppo costosi per la maggioranza dei cittadini, e la lista non sarebbe finita.

Omondi conclude: “In quasi tutti gli stati africani c’è almeno una sembianza di democrazia. E’ tempo che gli elettori si ribellino a questi leader incapaci… Si eleggono persone in posizioni di potere solo perché appartengono alla propria etnia, o perché hanno promesso cose impossibili, e ci si trova condannati ad essere governati per sempre da ciarlatani che proclamano le sovranità nazionale, ma vanno a far shopping a Milano, vacanze a Parigi, mandano i figli a studiare a Londra, e si fanno curare a New York.”

La riflessione sulla qualità della leadership si impone mentre in Kenya incomincia il governo di un presidente e vicepresidente incriminati dalla Corte Penale Internazionale, e le notizie più comuni riportate dai giornali in Kenya riguardano episodi di corruzione.

Omondi, che è nato dopo l’indipendenza del Kenya, non si rifà alle colpe del colonialismo, anche se avrebbe potuto legittimamente farlo perché sono colpe che peseranno ancora per qualche anno su tutte le ex-colonie.

L’Africa post-coloniale ha espresso due grandissimi leader, Julius Nyerere in Tanzania e Nelson Mandela in Sudafrica. Ci sono stati altri leader che non hanno avuto il tempo di esprimere le loro potenzialità perché uccisi da forze coloniali o neo-coloniali, come Amilcar Cabral in Guinea Bissau e Thomas Sankara in Burkina Faso, ma c’è anche una lista troppo lunga di cleptomani o criminali che sono stati al potere per anni ed hanno permesso o favorito la formazione di una classe di politici e amministratori profondamente corrotti. Peggio, la corruzione è diventata accettabile, inevitabile, in ogni rapporto fra il cittadino e lo stato. Devi pagare sottobanco un funzionario per rilasciarti un documento, magari la carta d’identità’, a cui hai diritto.

Wole Soyinka, lo scrittore nigeriano e Premio Nobel, aveva già detto nei primi anni delle indipendenze africane, che il problema fondamentale dei nuovi paesi era la leadership. Sono passati oltre cinquant’anni e il nodo cruciale per lo sviluppo dell’Africa resta lo stesso, secondo Omondi. Gli africani, nella stragrande maggioranza persone buone e pacifiche, negano il detto che i popoli hanno i leader che si meritano.

“Ma forse – mi dice un amico africano che conosce bene l’Italia – alla fin fine è cosi per tutti. Guarda il tuo paese, non avete anche voi i vostri leader tribali? E’ raro che si eleggano i leader migliori, finiamo sempre per eleggere i mediocri, se non gli arrivisti. Abbiamo tutti un lungo cammino da fare.”

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