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Justice or License to Kill? -Giustizia o Licenza di Uccidere?

Uhuru Kenyatta, President of Kenya.

L’Ibrahim Index of African Governance (IIAG) è un’organizzazione creata nel 2007 dal miliardario sudanese Mo Ibrahim per promuovere il buon governo in Africa. Ogni anno assegna il più importante premio mondiale individuale ? cinque milioni di dollari, più di duecentomila dollari l’anno per tutta la vita – a un leader africano che sia stato democraticamente eletto, abbia governato bene, alzando gli standard di vita del suo popolo, lasciando l’incarico, al termine normale del suo mandato.
Ieri è stato annunciato che il comitato incaricato di selezionare il vincitore di quest’anno non ha trovato alcun candidato degno del premio. Visti i requisiti, non sono molti i leader, anche a livello europeo e mondiale, a potersi candidare. E infatti, nei sette anni dalla sua istituzione il premio è stato assegnato solo tre volte : a Pedro Verona Pires di Capo Verde , a Festus Mogae del Botswana e a Joaquim Chissano del Mozambico. Con l’annuncio è stato pubblicato anche il rapporto annuale sulla sicurezza nazionale in Africa, con uno sconsolante risultato per il Kenya, classificato verso il fondo della graduatoria delle 52 nazioni africane prese in considerazione, in buona compagnia con le “nazioni fallite” come la Somalia e le altre che si trovano ad affrontare situazioni di sicurezza ingestibili.
Il giudizio dell’IIAG sul Kenya è troppo severo. Eppure rappresenta abbastanza bene l’opinione pubblica internazionale, dopo che sono stati resi noti i pasticci combinati dalle forze di sicurezza keniane durante il recente attacco terroristico al Westgate Mall.
Un altro fatto che ha minato la fiducia nella capacità del governo del keniano di affrontare le crisi di sicurezza e i connessi abusi dei diritti umani, è l’azione diplomatica che vorrebbe rinviare la causa della Corte penale internazionale (Cpi ) contro il presidente del paese, Uhuru Kenyatta. Lui e il suo vice, William Ruto, sono infatti accusati di aver organizzato le violenze seguite alle elezioni del 2007 che hanno causato circa mille e cinquecento morti. Il parlamento del Kenya ha già avviato il processo di ritiro del paese dalla Cpi.
I rappresentanti dell’Unione africana (Ua) si sono ritrovati ad Addis Abeba ( Etiopia) sabato scorso, 12 ottobre, in sessione straordinaria richiesta da Kenya e dedicata al rapporto dell’Africa con la Cpi.
Nella dichiarazione finale hanno sottolineato che, al fine di salvaguardare l’ordine costituzionale, la stabilità e l’integrità degli stati membri, «a nessun capo di stato o di governo dell’Ua, o a qualcuno che agisce o è autorizzato ad agire in tale qualità, può essere richiesto di comparire in qualsiasi corte internazionale o in un tribunale durante il suo mandato». E «riconoscendo il ruolo fondamentale che il Kenya sta giocando nella lotta contro il terrorismo, l’assemblea ha osservato che il procedimento contro il presidente e il suo vice potrebbe distrarre e impedire loro di assumersi le proprie responsabilità costituzionali, incluse le questioni di sicurezza nazionale e regionale».
Hailemarian Desalegn, primo ministro etiopico, ha sottolineato: «Il nostro obiettivo non è e non dev’essere una crociata contro la Corte penale internazionale, ma un invito solenne all’organizzazione di prendere sul serio le preoccupazioni dell’Africa».
Eppure l’iniziativa dell’Ua è stata interpretata da molti come un vero e proprio attacco all’esistenza stessa della Cpi. Alcuni giornali africani titolavano: “La Cpi sotto processo ad Addis Abeba”. Sullo sfondo, infatti, incombe la minaccia del ritiro di tutti gli stati africani dalla Cpi, col pretesto che molti africani la percepiscono come pesantemente prevenuta nei confronti del continente. Lo statuto della Corte è stato ratificato da 122 paesi, 34 dei quali africani. Oltre che in Kenya, ci sono al momento 7 indagini in corso: in Uganda, Repubblica democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Sudan, Libia, Mali e Costa d’Avorio.
Una delle ragioni addotte dagli oppositori della Corte è: «Come può la Cpi mettere sotto processo un presidente democraticamente eletto da più della metà degli elettori?». Un argomento molto simile a quello che utilizzano in Italia i sostenitori di Berlusconi: «Com’è possibile bandire dai pubblici uffici un politico sostenuto da un terzo dell’elettorato nazionale?».
Ma non mancano i critici. Alcuni leader di fama internazionale hanno criticato l’Ua. L’ex segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, ha detto che il ritiro dalla Cpi sarebbe per l’Africa un “marchio d’infamia”. L’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, uno dei leader africani più amati e rispettati dopo il suo connazionale Nelson Mandela, ha pure lui manifestato il suo forte dissenso. Tutu ha le credenziali giuste per parlare di giustizia, e non solo perché ha sofferto e lottato contro l’ apartheid, guadagnandosi il premio Nobel per la pace nel 1984. È stato un critico feroce del trattamento riservato da Israele ai palestinesi così di come la Cina discrimina i tibetani. Nell’agosto dello scorso anno a Johannesburg aveva abbandonato un incontro di leader mondiali, rifiutandosi a condividere una piattaforma con l’ex primo ministro britannico Tony Blair, affermando che il signor Blair e l’ex presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, dovrebbero essere processati presso la Cpi per aver mentito sull’Iraq e le armi di distruzione di massa per giustificare l’invasione del paese.
La scorsa settimana in un appello on-line Tutu ha scritto: «Mentre alcuni leader africani giocano sia la carta del razzismo che la carta coloniale, i fatti sono chiari: lungi dall’essere una caccia alle streghe organizzata dall’uomo bianco, la Cpi non potrebbe essere più africana di quanto già lo sia. Più di 20 paesi africani hanno contribuito a fondarla. Delle 108 nazioni che inizialmente hanno aderito, 30 sono africane. Cinque dei 18 giudici della Cpi sono africani, cosi come lo è il suo vice presidente, Sanji Mmasenono Monageng del Botswana. Il procuratore capo del tribunale, Fatou Bensouda , che ha un potere enorme sui casi perseguiti, è originaria del Gambia. La Cpi è molto chiaramente un tribunale africano. I leader che cercano di aggirare la Cpi sono effettivamente alla ricerca della licenza di uccidere, mutilare e opprimere il proprio popolo senza doverne subire le conseguenze. Semplicemente tacciano l’istituzione come razzista e ingiusta, così come Hermann Goering e i suoi compagni nazisti imputati hanno vilipeso il processo di Norimberga dopo la seconda guerra mondiale”.

Hatred and Forgiveness

Forgiveness, mercy, acceptance, hope—words that have a Gospel flavour; words that more than others have become the theme of the reflections on the readings of the Mass that Pope Francis celebrates daily with the people in the small Santa Marta chapel in the Vatican. It could not be otherwise, since in the Gospel the proclamation of the mercy of God, of His infinite love for his children is the dominant theme.

God condemns the evil, yet He does not want the condemnation and the death of the sinner. In front of God, every human being is always lovable even when his life, sometimes even his physical appearance, is disfigured by sins. We all know people who look evil. We stay far from them. We are afraid that the aura of evil that we perceive in them can somehow attach to us. As a child, I remember the physical repulsion I felt of a man living in my neighbourhood who was known for the beatings he was inflicting on his wife and children. I had only heard the adults talk about his behaviour, but his face, always contorted in a sour grin, kept me at a safe distance. Instead, God looks with love also at those people whom others judge to be lost. In them, He can still perceive the flickering flame of the love he has put in them, He wants to see that flame grow. He never gives up hope.

Jesus, in front of the woman caught in the act of adultery, does not condemn her. The woman does not ask for forgiveness. When the accusers go away in shame for their self-righteousness after being challenged to throw the first stone, He just asks her: “Woman, where are they? Has no one condemned you?” and at her negative reply He tells her: “Neither do I condemn you; go and sin no more.” It is forgiveness without condition, not even the pre-condition of repentance. We may be surprised because to forgive is so difficult for us, and because for many centuries the Church in the West has listed sins in accordance to their gravity, and the penance was meted out in proportion. Priests had become accountants of sins, rather than administrators of the forgiveness of the Father. Now, we are surprised because Pope Francis is simply reminding us of the importance of forgiveness in Christian life, in a teaching that can be summarized in two lines: God is universal and infinite love. One cannot deserve His love; it is He who reaches out to all people, to all sinners, to all those who need to heal their lives.

Forgiveness is freedom

It is difficult for us to forgive. Yet, forgiveness opens up new horizons and new life. As a priest, I have learned to see the presence of God in the lives of people when I see forgiveness. I saw it when I met Wanjiku, a young woman from central Kenya. She lost her parents when very young and was brought up in the homestead of a relatively wealthy uncle. Treated like a slave by the stepmother, she had to work in the kitchen and to attend to the domestic animals for more than fourteen hours per day, while her cousins went to school. Out of sheer determination, she studied in the evening using the books she found scattered around the house, she went to church and catechism classes on Sundays and then found the courage to run away and fend for herself in Nairobi.

Now Wanjiku works as a flight attendant in an international airline company, a job incredibly prestigious back in the village. Just imagine flying every day all over the world! It would have been easy for her to go back and make fun of or despise those who had mistreated her. Instead, she told me: “when I went back to the village for a visit, for a long time I did not tell my relatives about my job. I did not want to humiliate them. I wanted to win them over first. I just brought small gifts. I do not have any grudges against them. I know they struggled for life, I understand their worries, their fear for the future, for the difficult condition of their lives. I have forgiven them, and I would like to see them spend their last years in serenity. I am sure that when they were exploiting me, they were deeply unhappy for some reasons that I did not know, and I do not want to judge them.” Wanjiku is a free person. The past is gone, she looks ahead to a life of commitment and work, to form her family, to pour out to others the love she had not experienced as a child. Freeing herself, Wanjiku frees her uncle and aunt from the chains of their past.

Pope Francis, while visiting a community of contemplative Sisters and talking about Mary as the mother of all Christians, told this delightful story to illustrate how Mary is a merciful mother. “Mary is at the door to Paradise. Saint Peter does not always open when great sinners knock at the door. Mary sees the desperation on the faces of those rejected, she suffers with them, she would like to console them, but she does not want to argue with St Peter. So she stays put. At night, when St Peter closes the door and goes for some well-deserved rest, when nobody sees and nobody hears, Mary opens the door and lets everyone enter.”

Respect and love sinners

The pastors, the priests have a difficult task: they have to teach what is good, to point to their fellow Christians the way towards Jesus, to condemn what is evil, but at the same time they have to teach respect and love for sinners. They have to be like the shepherd who leaves the ninety-nine sheep to look for the one lost sheep; to be like the forgiving father who opens his arms to receive the lost son; to be like Jesus on the cross, forgiving those who are crucifying and despising him. The self-righteous may protest.

What is then really putting our Christian life in danger? It is to hate the sinner. Pope John XXIII fifty years ago made it clear: “we do not have to confuse the sin with the sinner”, because “the sinner is first and foremost a human being and retains the dignity of a human person” and therefore must be treated with mercy and compassion.

Hatred is the opposite of love, mercy and compassion. Speaking to the youth at the end of the World Youth Day in Brazil, Pope Francis gave them advice valid for Christians of all ages. “Do not water down your faith in Jesus Christ. Read the Beatitudes: that will do you good. If you want to know what you actually have to do, read Matthew Chapter 25, which is the standard by which we will be judged. With these two things you have the action plan: the Beatitudes and Matthew 25. You do not need to read anything else.”

Tiyende Pamodzi – Let’s Walk Together – Camminiamo Insieme

Ascoltarsi, parlarsi, conoscersi, aiutano a crescere nel rispetto reciproco e nella solidarietà. Koinonia, iniziata a Lusaka (Zambia) nel 1982, lo sa bene. Da allora ogni anno gruppi organizzati di giovani, dall’Italia ma anche da altri paesi, hanno partecipato a viaggi di conoscenza diretta della realtà africana per vivere un periodo di condivisione con la comunità locale. Affrontando difficoltà e commettendo errori, abbiamo scoperto che comunque costruire solidarietà è parte integrante del nostro cammino comunitario. Ora Amani, la ONG italiana che ha organizzato per anni i viaggi in Zambia, ha deciso di far vivere ad un gruppo di ragazzi zambiani la prospettiva del viaggiatore, invitandoli ad una esperienza educativa che incomincerà a Torino il 23 novembre e si snoderà attraverso l’Italia, fino a Matera, concludendosi a Roma da dove rientreranno in Zambia il 15 dicembre.

Già i ragazzi di Koinonia Kenya hanno visitato l’Italia più volte e l’esperienza è stata positiva per tutti. Naturalmente devono preparasi prima di partire, come fanno tutti i viaggiatori veri. E` significativo che nessuno di loro, anche fra i ragazzi piu grandi della squadra di calcio per esempio, abbia scelto di vivere in Italia.

Il viaggio in Italia sarà anche un’occasione per gli amici italiani di salutarli e vivere insieme un’esperienza formativa attraverso lo scambio culturale, l’accoglienza in famiglia, le visite alle città d’arte, gli incontri nelle scuole e la presentazione di uno spettacolo di danze tradizionali zambiane. I ragazzi zambiani avranno occasione di incontrarsi con i coetanei e soprattutto di raccontare la loro esperienza.

Perche’ Koinonia ed Amani si prendono un impegno organizzativo cosi importante? Non sarebbe meglio fare altre cose?

La altre cose le abbiamo fatte e continuiamo a farle. Mthunzi, da dove provengono i 16 ragazzi che parteciperanno al viaggio, è un progetto socio-educativo in un centro residenziale nato per accogliere i bambini di strada di Lusaka. Sorge a circa 15 km dalla capitale zambiana, in una zona rurale. Per i bambini non è solo un luogo di accoglienza ma rappresenta la possibilità concreta di costruirsi un futuro. A Mthunzi i bambini ricevono un’educazione adeguata e un sostegno costante alla loro crescita. Questo permette loro di riacquistare fiducia in se stessi e nel mondo degli adulti, un mondo che ha negato loro negli anni di vita in strada la possibilità di vivere un’infanzia serena. A Mthunzi ci sono anche attività agricole, una scuola di informatica e di sartoria. C’è anche un dispensario medico, diventato negli anni un riferimento importante per i villaggi circostanti.

Ma questo non basta. I ragazzi sono protagonisti della loro formazione umana e religiosa, a seconda delle loro necessità, scelte e impegni. Imparano ad aprirsi al mondo e ad essere cittadini responsabili. Per questo verranno in Italia con un messaggio, condensato nel titolo dello spettacolo: Tiyende Pamodzi, o Camminiamo Insieme.
La tragedia di Lampedusa, e alcuni commenti che ne sono seguiti, mi rinforza nella convinzione che dobbiamo costruire solidarietà. Più ancora radicalmente, dobbiamo ricostruire il senso di appartenere alla stessa famiglia umana. Spero che gli autori di certi commenti riportati dai mass media li abbiano fatti perché non hanno mai avuto occasione di incontrare veramente “gli altri”. Per una serie di circostanze si sono ritrovati a vivere chiusi in gabbie dalle quali mai tentato di uscire, perché in quelle gabbia si sentono sicuri . Senza accorgersi che ne sono anche prigionieri.

Per i cristiani, come lo sono molti dei ragazzi di Koinonia e molti dei miei amici, l’essere tali si misura con la capacità di creare incontro, fraternità, comunione. Di trasformare l’amore per gli altri in fatti concreti, in impegno e servizio.

Don Milani diceva, cito a memoria, “Se voi vi arrogate il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dico che, nel vostro senso, io non ho patria”. Chi avrà l’occasione di incontrare i ragazzi di Koinonia si convincerà, se già non lo fosse, di essere parte di una patria più grande.

Un’altra “primavera araba”? – Another “Arab Spring”?

È in corso a Khartoum una feroce repressione contro le proteste che si sono scatenate dopo che il governo ha quasi raddoppiato il prezzo del carburante. La stampa internazionale ne ha dato notizia, quando lo ha fatto, riportando un comunicato stampa di Amnesty International che ha chiesto al governo del Sudan di «cessare immediatamente l’uso della forza arbitraria e illegale nei confronti dei manifestanti che da giorni protestano contro il taglio dei sussidi alla benzina. Tra il 24 e il 25 settembre le forze di sicurezza hanno ucciso, colpendoli alla testa e al petto, almeno 50 manifestanti. Secondo fonti e attivisti locali, i morti sarebbero oltre 100. Solo a Omdurman, sono stati spediti all’obitorio 36 cadaveri ed eseguiti 38 interventi chirurgici. La maggior parte dei manifestanti uccisi erano di età compresa tra i 19 e i 26 anni».

Gli attentati terroristici avvenuti in Kenya, Pakistan, Nigeria e le tensioni in altre parti del mondo, Siria e Repubblica Centrafricana, hanno cospirato a far passare inosservate le vicende sudanesi di questi giorni, ma non pochi si domandano se non siamo arrivati al capolinea per il regime del presidente Omar El-Bashir, al potere dal 1989. Da anni, da quando fu spiccato un mandato di cattura contro di lui dalla Corte penale internazionale (Cpi), si sono scatenate proteste contro il suo regime, ma finora tutte sono state represse con successo. Che sia questa l’inizio della fine per El-Bashir?

In questi giorni migliaia di persone sono scese in strada in tutto il paese, dapprima a Wad Madani e poi nella capitale Khartoum, e in tutte le città più importanti. Il 25 settembre Internet è stato sospeso e gli organi di stampa sono stati messi sotto stretto controllo dalle forze di sicurezza. Nonostante questo, i social network di tutto il mondo hanno potuto far circolare foto e video amatoriali in cui si vedono decine di vittime. Le informazioni di domenica 29 settembre davano il numero dei morti, solo a Khartoum, a più di 210.

Il dottor Ahmed al-Sheikh, responsabile di un’associazione di medici, ha testimoniato che i morti erano stati colpiti alla testa o al petto e che le forze di sicurezza intimavano ai parenti di denunciare “morte per causa naturale” sul certificato medico, minacciando e arrestando anche alcuni dottori che non erano disposti a collaborare.
Altre fonti confermano che le persone detenute dal NISS (Sudan National Intelligence and Security Services, i servizi segreti) sono nell’ordine delle centinaia ed è facile immaginare, perché è la routine, che siano sottoposte a torture, come è stato sottolineato dall’African Centre for Justice and Peace Studies , basato a New York.
Venerdì 27 settembre, le forze di sicurezza hanno chiuso gli uffici di Khartoum di Al-Arabiya, un canale televisivo degli Emirati Arabi Uniti con l’accusa di diffondere notizie false. Al-Sudani e Al-Meghar Al-Siyasi, due quotidiani, sono pure stai sospesi, mentre altre pubblicazioni si sono auto-sospese in segno di protesta.

L’impressione che il regime di El-Bashir sia ormai alla fine, è rafforzata anche dal fatto che ieri, domenica 29, il presidente abbia cancellato un discorso pubblico perché la grande folla che di solito presenzia a simili manifestazioni, non c’era.

Mohamed Yassin, ricercatore all’università di Udine e portavoce in Italia del Splm-N, ha detto che «la comunità internazionale diventa cieca e sorda quando ci sono vittime in Sudan, mentre le notizie che riguardano la chiusura degli oleodotti sudanesi sono sempre riportate e commentate per esteso. Sappiamo ciò che avviene in Sudan solo attraverso gli attivisti locali, che rischiano la vita per diffondere foto e video. La comunità internazionale nel migliore dei casi fa dichiarazioni e condanne molto generiche e quasi di routine, assolutamente inefficaci a fermare il fiume di sangue che sta sommergendo il Sudan».

Ma purtroppo El-Bashir, con il supporto del fanatismo islamico, è stato altre volte capace di uscire vincente da situazioni che sembravano estreme. Non posso non ricordare un incontro a Nairobi (Kenya) nella casa di un eminente politico sud-sudanese in esilio, Clement Mboro, nel 1989, poche settimane dopo che El-Bashir aveva preso il potere con un colpo di stato. Erano presenti tutti i più importanti politici dell’opposizione sudanese del momento, e fra gli altri Bona Malwal, intellettuale e politico sud-sudanese che era stato sorpreso in Inghilterra dal colpo di stato. Malwal fece una lunga e precisissima analisi politica di quello che era successo a Khartoum, per concludere con un categorico: “Tutto questo mi rende sicuro che El-Bashir sarà scalzato prima di Natale”. Sono passati ventiquattro anni: Mboro, coerente fino alla fine, è morto in povertà a Nairobi; El-Bashir è ancora al potere a Khartoum e Bona Malwal, sistemato in una lussuosa villa a Khartoum, ne è il principale consigliere politico per gli affari sud-sudanesi.

Westgate: I bestemmiatori e gli altri – The blasphemers and the others.

Non credo che l’azione del commando terroristico che ha agito al Westgate Mall di Nairobi sveli “il vero volto dell’Islam” come mi è capitato di leggere. Continuo a credere, semplificando un po, che la maggioranza dei musulmani siano buone persone, che vogliono vivere la loro vita in armonia con gli altri, ma sono in ostaggio di una minoranza criminale, che usa la religione per fini politici e di controllo economico. Una minoranza di bestemmiatori violenti che si sono autoproclamati autentici interpreti del Corano.

I musulmani sono in una fase della loro storia simile a quella in cui noi ci trovavamo fino a un tempo non troppo lontano, quando anche noi credevamo ai nostri leader che ci dicevano che gli indiani d’America e i neri d’Africa non erano umani e li potevamo uccidere impunemente. O come, in tempi ancor più vicini, quando i soldati italiani obbedivano senza batter ciglio all’ordine di “passare per le armi”, cioè uccidere a sangue freddo, in pochi giorni, migliaia e migliaia di etiopici innocenti, e nessuno, neanche fra i pastori della comunità cristiana, levava una voce di protesta. I musulmani che oggi vivono in società dominate da leader politici o religiosi che propugnano ideologie discriminatorie, disumane, sono vittime quanto lo eravamo noi. E se noi non lo riconosciamo, rischiamo di ricadere nella stessa trappola: affermare che gli altri, in massa, “sono tutti così” è il primo passo per giustificare il male che stiamo progettando in cuor nostro.

Preferisco pensare che il loro dichiararsi musulmani, il loro discriminare chi uccide chiedendo il nome della mamma del profeta, sia assolutamente irrilevante. Cosi com’è irrilevante che gli affiliati a Cosa Nostra si dicano devoti della Madonna. Sono semplicemente criminali, qualsiasi cosa credano e professino, e il loro credo è usato al servizio della loro criminalità e del loro odio contro il prossimo, che ha altre radici ben diverse dalla fede in Dio. Questo l’ha capito Samuel, un ventenne cresciuto a Kivuli, il cui unico familiare, un lontano zio, è stato ucciso dai terroristi nei primi scontri al Westgate. Era addetto ad aiutare i clienti del supermercato a mettere la spesa nella busta di plastica – il lavoro in Kenya costa poco, sarà stato pagato 80 euro al mese. Samuel mi ha scritto: «Prega per mio zio, era una brava persona. Dio non può essere con quelli che lo hanno ucciso. Loro nominano il Suo nome invano. Io ho capito ancora meglio che dobbiamo costruire la pace».

Preferisco, leggendo e guardando cosa è successo al Westgate Mall, vedere le decine di persone che hanno istantaneamente reagito proteggendo i loro figli, ma anche quelli di altri, senza distinzione di colore, che hanno messo in salvo altre persone, che hanno donato sangue, che hanno spontaneamente portato panini e bevande alle squadre delle ambulanze, ai soldati. Certamente fra quei volontari c’erano anche dei miei confratelli, di quelli che non hanno paura di essere contaminati dall’odore delle pecore, anche quando le pecore odorano di paura e di morte. Fra vittime e soccorritori – le testimonianze sono unanimi – nessuno ha fatto distinzione di razza o di religione. Queste sono le persone che ci fanno sentire umani.

Fra di loro c’è Edwin, del gruppo acrobatico nato a Kivuli, i Nafsi Africa. Io quel giorno ero a Verona, e stavo uscendo di casa per partecipare a un incontro. Un confratello mi disse che a Nairobi stava succedendo qualcosa di grave. Ho aperto Facebook e la prima cosa che ho visto è stato un messaggio di Edwin: «In fretta, tutti al Westgate a donar sangue».

Kenyatta

Kenyatta potrebbe avere circa dieci anni. Nessuno sa come la mamma lo abbia chiamato, è lui che si fa chiamare con questo nome cosi solenne e presidenziale, almeno in Kenya. Jack l’ha trovato in strada lo scorso novembre e attraverso di lui è arrivato ad un gruppo di una quindicina di bambini che vivevano per le strade di Ngong. Kenyatta era il leader del gruppo. Tracagnotto e crapone, come dicono dalle mie parti, sia in senso figurato che di fatto. Dopo un percorso di conoscenza e crescita insieme di qualche mese, lo scorso aprile Jack aveva pensato che il gruppo fosse pronto per entrare a Ndugo Mdogo, una tappa di transizione verso una sistemazione ancora più stabile. Ma all’ultimo momento Kenyatta si era tirato indietro. “Perché – disse a Jack – io posso cavarmela da solo.” E se n’era andato, tornando in strada. Sarebbe stato controproducente chiedere l’aiuto dell’ufficio governativo che si dovrebbe occupare dei bambini di strada, e Jack ha preferito aspettare, però verificando di tanto in tanto che Kenyatta fosse sempre operativo in quel tratto di strada, vicino al grande mercato all’aperto di Ngong, che era il suo regno.

Ai primi di agosto, Kenyatta si è presentato a Ndugu Mdogo, ha salutato i suoi amici ed è rimasto. Senza una spiegazione. Jack ha scelto ancora di non reagire, semplicemente osservandone il comportamento. Una settimana dopo alla grande festa del Koinonia Children’s Day, durante la Messa, l’ho presentato a tutta la comunità come l’ultimo arrivato. Quando l’ho chiamato si è messo di fianco a me, dritto dritto, guardando tutti senza imbarazzo, sorridendo felice.

Dopo un paio di settimane ero a Ndugu Ndogo mentre George faceva una lezione di canto, e durante un intervallo mi si è seduto vicino, e senza che io gli avessi chiesto niente, ha cominciato a parlare, come se stesse riprendendo un discorso interrotto qualche minuto prima. “Non mangiavo da due giorni e son tornato a casa. Ho trovato mio papà ubriaco e mia mamma non c’era più. C’era un’altra donna. Lei mi ha cacciato come se fossi un bestia, lui mi guardava senza dire niente. Forse non mi ha riconosciuto. Poi la donna mentre uscivo mi ha urlato che mia mamma è morta di quella malattia di cui muoiono tutti, e che anche mio papà morirà presto, e poi anche lei. Che non mi faccia più vedere”. Si è fermato, poi ha aggiunto “Adesso sono qui e da qui non mi manda via nessuno”. Non l’ha detto in tono di sfida, come mi sarei aspettato da lui, ma semplicemente come un fatto assodato, definitivo, su cui non si discute. Jack era poco lontano, ha sentito tutto e prima che io potessi parlare ha chiesto “C’è forse qualcuno che ti vuol mandar via?”. Kenyatta si è guardato intorno lentamente, poi, sempre lentamente, ha fatto cenno di no con la testa. Poi, finalmente, le guance si sono coperte di lacrime silenziose.

I Martiri della Fratellanza – The Martyrs of Brotherhood

La testimonianza dei quaranta Seminaristi del Burundi, uccisi proprio perché rifiutavano di odiarsi l’un l’altro, dovrebbe essere meglio conosciuta e diventare modello ed esempio alle aspirazioni della gioventù Africana.
Guardando le loro bianche tombe non dobbiamo essere sopraffatti dalla disperazione. Dovremmo piuttosto dire, come disse Papa Francesco di Don Pino (il prete che fu ucciso per opporsi alla Mafia) “Essi hanno vinto come il Cristo Risorto”

Quaranta fotografie, i visi di quaranta giovani ragazzi che guardano dritto, ma timidamente, nella macchina fotografica. Fotografie prese dalle loro schede scolastiche, ragazzi come milioni di altri in Africa.
Ma questi quaranta giovani sono molto diversi, per le ragioni e le modalità della loro morte.
Le fotografie furono scattate nel 1997 all’inizio dell’anno scolastico in Burundi, quando il paese stava soffrendo una delle più crudele violenze etniche in Africa, una conseguenza del genocidio avvenuto nel vicino Ruanda. Poche settimane dopo, alle 5,30 del mattino del 30 Aprile 1997, alcuni membri del gruppo ribelle Hutu, il Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia (CNDD), attaccarono il Seminario di Buta ed uccisero quaranta giovani seminaristi di età compresa tra quindici e venti anni.

Fin dall’Ottobre del 1997, inizio della guerra civile nel paese, il Seminario di Buta era stato un tranquillo rifugio per appartenenti ai due gurppi etnici in guerra, gli Hutu, dediti alla pastorizia stanziale ed i nomadi Tutsi. Hutu e Tutsi erano stati coinvolti e bloccati in una mortale guerra civile, un vero e proprio genocidio fin dal 1972. Anche il Seminario era stato inquinato da divisioni etniche, ma negli ultimi anni, sotto la guida del loro rettore, i ragazzi si erano impegnati, in modo speciale, a vivere come fratelli, dando testimonianza della chiamata di Gesù rivolta a tutti, contro ogni divisione ed odio etnici.

Essi avevano appena concluso il loro ritiro Pasquale, quando gli attaccanti li sorpresero in piena notte nel dormitorio de ordinarono loro di separarsi in due gruppi, gli Hutu da una parte e I Tutsi dall’altra. Gli attaccanti volevano uccidere una parte di loro, ma i Seminaristi si rifiutarono di dividersi, preferendo morire insieme.
Visto fallito il loro diabolico piano, gli assassini si avventarono sui ragazzi e li massacrarono con colpi di armi da fuoco e granate.
Le prime vittime caddero abbracciati come fratelli.
Alcuni Seminaristi furono sentiti cantare salmi di lode ed altri pregare ad alta voce “Perdona loro, Signore perché essi non sanno quello che fanno”.
Altri, invece di difendersi o cercare di scappare, preferirono aiutare i loro fratelli sofferenti, sapendo chiaramente cosa stava per succedere a loro stessi. Alcuni dei Seminaristi e degli insegnanti, che non erano in quell’edificio, sopravvissero e poterono riferire i fatti.
Ora quelle quaranta fotografie sono sulle quaranta bianche tombe nel cortile davanti ai loro dormitori.

I quaranta ragazzi furono chiamati “Martiri della Fratellanza” e la loro causa di beatificazione – per proclamarli un esempio di vita Cristiana – cominciò poco dopo la loro morte. La causa è avanzata lentamente, molto lentamente come normale in questi casi. Ma la recente beatificazione di Don Pino potrebbe dare un’accelerazione al suo iter.

In difesa della virtù e della verità

Padre Giuseppe Pugliesi, conosciuto dai suoi parrocchiani come Don Pino, fu ucciso a Palermo da sicari della Mafia il 15 settembre 1993 e fu proclamato beato e “martire della Mafia” il 25 maggio 2013. Don Pino fu ucciso perché parlava, agiva e insegnava ai suoi parrocchiani, in particolare i giovani, a reagire contro la Mafia, profondamente radicata nella società locale. Egli sapeva che li capi della Mafia avevano ordinato la sua uccisione, ma non si fermò. Il suo scopo era di fare dei suoi giovani parrocchiani dei cittadini onesti, guide nel campo della giustizia e pace. Per la prima volta una vittima della Mafia diviene un Martire della Chiesa Cattolica.

Il cammino che portò alla beatificazione di Don Pino fu complicat ed una volta fu fermato perché egli non era stato assassinato “in odium fidei” ( in odio della fede) che era di solito il criterio essenziale della Chiesa per proclamare qualcuno un Martire Cristiano. Il processo di beatificazione di un martire è di solito molto più veloce che altri processi simili. La ragione di questa rapidità è che il martire è chiaramente morto per la sus fede in Gesù, mentre per persone che morirono in altre circostanze, la loro santità di vita e la solidità dei loro insegnamenti e preghiere deve essere provata oltre ogni dubbio e questo richiede un lungo processo di analisi della vita e degli scritti della persona in questione. Ma gli assassini di Don Pino erano Cattolici – spesso i capi della Mafia amano sedere nel primo banco della chiesa durante importanti celebrazioni, per sottolineare il loro stato sociale ed essi si proclamano strenui Cattolici – per questa ragione le loro motivazioni per ordinare l’uccisione di Don Pino non erano “in odium fidei” ma “in odio delle azioni e degli insegnamenti” di Don Pino. Qualcuno pensava che senza “odium fidei” nelle intenzione degli assasini, non poteva esserci martirio.

Il nuovo modo di definire il martirio, che emerse durante il processo di beatificazione di Don Pino, è riflesso nelle parole di Papa Franceso che disse: “Ieri, a Palermo, Padre Giuseppe Pugliesi, un prete ed un martire ucciso dalla mafia nel 1993, fu beatificato. Don Pugliesi era un prete esemplare, impegnato specialmente nell’insegnamento alla gioventù. Egli insegnava il vangelo ai giovani, portandoli in questo modo fuori dal controllo dei gruppi criminali e per questo essi cercarono di sconfiggerlo, uccidendolo. In realtà, invece, è lui quello che ha vinto con il Cristo Risorto! Preghiamo il Signore di convertire i cuori di quella gente. Essi non possono fare questo! Essi non possono cambiare noi, che siamo fratelli, in schiavi!”

Infatti gli assassini di Don Pino non agirono “in odium fidei”, ma “in odium virtutis et veritatis” (per odio della virtù e della verità). Essi non volevano distruggere la Cristianità – anzi, probabilmente essi si consideravano buoni Cattolici! – Don Pino si oppose alle azioni ispirate dal diavolo che essi e la loro organizzazione criminale perseguivano: fu questo che spinse loro ad ucciderlo.

Molti commentatori sottolinearono che al beatificazione di Don Pino potrebbe essere la prima di una serie di beatificazioni fatte perché il martire si oppose al diavolo e fu ucciso in odio alla virtù ed alla verità. Il più evidente e conosciuto esempio di questa possibile serie di beatificazioni è l’Arcivescovo Oscar Arnulfo Romero del Salvador, ucciso il 24 marzo 1980, mentre celebrava Messa, perché si ergeva come un difensore dei poveri nel suo paese diviso.

Mitezza e pace

Recentemente, Papa Francesco, nel rivolgersi ai membri di varie organizzazioni laiche convenuti in Piazza San Pietro, ha parlato dei cristiani che sono ancora vittime di persecuzioni: “Ci sono più martiri oggi che nei secoli passati. Il martirio non è mai una sconfitta, è il più alto grado di testimonianza. Un cristiano deve sempre avere un atteggiamento di unità e di mitezza, confidando in Gesù. Dobbiamo essere vicini a coloro che sono perseguitati; essi passano il confine tra la vita e la morte “.

I seminaristi di Buta sono stati uccisi a causa della loro posizione in difesa della giustizia e della fratellanza cristiana. Anche loro avevano deciso di fare della loro comunità un esempio di vita fraterna e di pace, nonostante la società divisa che li circondava. Anche loro sono stati uccisi probabilmente da altri cattolici – il Burundi è un paese in gran parte cattolico – non tanto per odio alla fede, ma per odio alla pace ed alla giustizia, spinti dal più brutale tribalismo.

I quaranta innocenti ragazzi del Burundi e la loro testimonianza dovrebbero essere meglio conosciuti e diventare un modello e un esempio delle aspirazioni dei giovani africani. Guardando le loro tombe bianche, non dobbiamo essere sopraffatti dalla disperazione. Dovremmo piuttosto dire, come ha detto Papa Francesco di Don Pino: “Hanno vinto, come il Cristo risorto”.
traduzione dall’inglese di Toni Portioli

Una Poltrona per Due

C’è una battaglia in corso. Per il potere. Tra il presidente Salva Kiir e il vicepresidente Riek Machar. Con risvolti geopolitici ed etnici. E un movimento di liberazione, l’Spla/m, che fatica a trasformarsi in un partito e aprirsi al gioco democratico.

È una lotta per il potere personale, in un contesto complicato, con esiti imprevedibili, in cui giocano diversi fattori e potrebbe dar origine ad un lungo periodo di violenza. I protagonisti sono presidente Salva Kiir e il vicepresidente Riek Machar. È prematuro parlare del Sud Sudan come di uno “stato fallito” – ma già alcuni lo fanno. Comunque è reale il rischio che stia incominciando un altro lungo capitolo buio nella storia del paese.

Vediamo le principali concause di questa situazione. L’indipendenza (9 luglio 2011) non ha risolto il contenzioso con il Sudan. Sopratutto non è stata risolta la questione del confine (incluso Abyei), che resta indefinito, e di conseguenza resta aperta la questione della proprietà di alcuni importanti campi petroliferi e del flusso del petrolio, che costituisce la ricchezza su cui i due paesi vivono, e che attrae l’interesse della comunità internazionale.

I rapporti con i paesi confinanti restano problematici. Centrafrica e Rd Congo hanno problemi interni gravi e restano instabili, difficile prevedere quale posizione potranno prendere, se pure ne prenderanno una. Uganda e Kenya, su indicazione degli Usa, finora sono stati forti sostenitori di chiunque fosse al potere nello Spla/m (Esercito/Movimento popolare di liberazione del Sudan), ed entrambi hanno ormai forti legami economici con Juba (capitale del Sud Sudan), anche attraverso notevoli investimenti privati da parte di personaggi politici. A questo riguardo sono indicativi lo sconcerto (prima) e il panico (poi) del ministero esteri kenyano di fronte all’azzeramento del governo sudsudanese, voluto il 23 luglio dal presidente Kiir. L’Etiopia ha sempre cercato di mantenersi o di apparire distaccata nelle vicende interne del Sudan.

Sul piano internazionale più vasto, continua il sostegno Usa e del mondo occidentale allo Spla/m, ma certamente non è un sostegno che proseguirebbe senza condizioni se qualcuno dovesse diventare responsabile dello scatenarsi di una guerra interna.
Internamente il Sud Sudan è segnato da gravi divisioni etniche. Lo Spla/m sin da prima dell’indipendenza, sotto la guida di John Garang, è sempre stato saldamente controllato dai dinka, che d’altronde è l’etnia maggioritaria. Non pochi membri di altre etnie vedono gli amministratori e i militari dinka come una forza di occupazione. Riek Machar è nuer e Pagan Amun, l’altro grande silurato, non come membro del governo ma come segretario generale dello Spla/m, è shilluk. Marian Marial Benjamin, il primo e finora unico membro del nuovo gabinetto ad essere stato nominato come nuovo ministro degli esteri, è anche lui dinka. Le prossime nomine ci diranno come Kiir intende muoversi e se la presenza dinka negli organi governativi, già forte, sarà rafforzata.

La violenza e la dominazione sono purtroppo parte della cultura sudsudanese, forgiata anche da 22 anni di guerra civile. Il prendere le armi è spesso la risposta più istintiva alle discriminazioni vere o immaginarie. Se Kiir non riuscisse a controllare politicamente lo scontento, è ipotizzabile un Sud Sudan diviso in aree controllate da gruppi armati.

La transizione dello Spla/m da movimento di liberazione a partito politico non è ancora avvenuta. Simili situazioni di transizione ci hanno insegnato che è molto difficile per chi ha partecipato alla lotta di liberazione riconoscere che altri attori politici, che magari sono stati all’estero o hanno remato contro, possano godere delle stesse libertà democratiche. Di qui la tentazione della repressione e del controllo. Inoltre un movimento di liberazione ha un alto accentramento di poteri, non più accettabile in un governo democratico. Non per niente, facendo riferimento a Sudafrica, Angola e Zimbabwe, alcuni parlano della necessità di una seconda liberazione dopo la prima liberazione dai poteri coloniali e razzisti. Il Sud Sudan ha tutte le caratteristiche per poter finire come il caso più estremo, quello dello Zimbabwe, dove dopo oltre trent’anni dall’indipendenza, il “liberatore” è ancora saldamente al potere.

Infine non possiamo trascurare la storia delle due personalità principali coinvolte in questo confronto. Il presidente Salva Kiir è stato addestrato alle sottigliezze dei servizi segreti a Mosca, prima del crollo del blocco sovietico, ha poi vissuto per anni nell’ombra di Garang, eseguendone gli ordini e imparando i più duri giochi di potere, che non si fermano dinnanzi alla vita di persone e comunità. Abituato alla segretezza, a non mostrare le sue carte, Kiir ha preso il potere alla morte di Garang (incidente di elicottero. 30 luglio 2005). Non senza dar adito a sospetti, ma comunque con il sostegno immediato degli alleati tradizionali, che non volevano un vuoto di potere destabilizzante.

Riek Machar ha tentato diverse volte la scalata al potere, sin dal 1991 quando si è proposto di rovesciare Garang con motivazioni quasi identiche a quelle che proclama oggi. Ha sempre fallito, e dal ’91 la sua corsa al potere lo ha portato anche ad allearsi per molti anni a Khartoum, macchia che ancora oggi lo segna pesantemente. Nella sua carriera non mancano episodi di massacri di popolazione civile.

Se è difficile prevedere chi dei due emergerà vincitore o e si affacceranno alla ribalta altri personaggi che per il momento stanno a guardare, purtroppo è facile prevedere che per il Sud Sudan sta incominciando una fase di assestamento politico che sarà lunga e violenta.

Innocent

«L’ho chiamato Innocente, lui non ha nessuna colpa», dice Clarissa, una giovane mamma con un’espressione sempre composta e serena, che si apre al sorriso solo quando guarda Innocent. Stamattina è in coda, fra le poche mamme che aspettano il loro turno nella veranda di Paolo’s Home, a Kibera. Viene qui due volte alla settimana, guarda con attenzione come Janet, la fisioterapista, manipola Innocente, che è fisicamente disabile, e poi ripete i movimenti sotto lo sguardo attento di Janet, così che potrà rifare il trattamento lei stessa, a casa.

Il padre di Innocent l’ha lasciata sola appena gli ha detto di essere incinta. Janet mi fa osservare come il trattamento faccia quasi più bene alla mamma che non al bambino. Clarissa sente, e approva: «Sono ri-motivata, anzi ri-nata, anch’io. Adesso giro a testa alta. Né Innocent né io abbiamo di che vergognarci. Ho letto che due settimane fa, sulla Costa, i membri di una associazione per disabili hanno chiesto di poter far sentire la loro voce a livello di governo locale. Quando crescerà, Innocent saprà farsi sentire».

Quando abbiamo iniziato questo piccolo centro di fisioterapia a fine 2007, sembrava che i bambini disabili fossero pochissimi. Poi, pian piano, la gentilezza e l’attenzione di Janet hanno conquistato le mamme che si vergognavano dei figli disabili e li tenevano nascosti; a volte non trovavano altra soluzione, quando andavano a lavorare, che rinchiuderli a chiave nella baracca in cui abitano. Da gennaio di quest’anno sono oltre novanta le mamme che, ogni settimana, fedelmente, a turni prestabiliti, portano i figli per una o due sessioni di fisioterapia.

La povertà non è solo mancanza di soldi, è mancanza cronica di istruzione, di cure sanitarie, di partecipazione sociale e politica, di sicurezza e libertà, di qualità ambientale e di giustizia. Parlando con Clarissa capisci che comunque non è, o almeno non sempre, mancanza di dignità e di voglia di riscatto.

È difficile reagire all’emarginazione dei disabili. La maggior parte di loro non ha accesso all’istruzione, al lavoro e alla riabilitazione. Sono stigmatizzati a causa di pregiudizi sociali e culturali e, più degli altri bambini, sono vittime di abusi e violenze. Il rapporto tra disabilità e povertà è bidirezionale. La povertà è causa di disabilità – per esempio perché i bambini che sono partoriti in situazioni igieniche carenti possono subire traumi che portano alla disabilità – e la disabilità comporta anche per le famiglie meno povere l’impossibilità di accedere all’istruzione e diventa quindi causa di ulteriore emarginazione.

In questo contesto difficile Paolo’s Home è solo una mano tesa a chi non vuole arrendersi.

Un’altra mamma, su questa stessa veranda, l’anno scorso. Un quotidiano aveva appena pubblicato la storia di una bambina, di poco più di un anno, con una piccola disabilità fisica che era stata abbandonata dalla mamma nella savana, vicino a Eldoret. Non è dato sapere quanto tempo fosse rimasta in quella situazione, forse qualche settimana; il fatto è che fu ritrovata viva e in buone condizioni fisiche perché era stata accolta, protetta e accudita da un branco di scimmie. La mamma, leggendo quella storia, si mise a piangere quietamente, stringendo al seno la figlia di pochi mesi. Poi mormorò come tra sé e sé, ma con voce sufficientemente alta perché tutti potessero sentire: «Anch’io avevo pensato di fare lo stesso. Adesso invece sono fiera di questa mia figlia. Grazie Janet».

Clicca qui, per vedere il video di Matteo Osanna che ti fa incontrare Innocent, Clarissa, Janet e altre mamme coraggio.

An unfinished work – Un’opera Incompiuta


“Porta di Lampedusa, Porta d’Europa” in ceramica refrattaria e ferro zincato, alta 5 metri, inaugurata il 28 giugno 2008, un’opera di Mimmo Paladino voluta e realizzata da Amani.
“Porta di Lampedusa, Porta d’Europa”, by internationally famous Italian sculptor Mimmo Paladino, is an art work in refractory ceramic and galvanized iron, 5 meters high. It was promoted and implemented by Amani, and inaugurated on June 28, 2008.

La “Porta di Lampedusa, Porta d’Europa” si apre su un mare dove si stima che negli ultimi vent’anni siano perite quasi ventimila persone tentando una difficile attraversata. È in un certo senso un’opera incompiuta. Può restare segno di pietà e luogo di raccoglimento, intristirsi in un freddo monumento funebre oppure diventare il simbolo di un’Europa che si apre verso l’Africa, verso l’accoglienza e una solidarietà nuova.
Starà a noi, negli anni a venire, costruire il suo significato.

Guardando questa porta capiamo che la globalizzazione non è solo merci a basso prezzo che invadono il nostro mercato, e non sarà neppure una nostra nuova modalità per dominare il mondo. La forza della globalizzazione sono le persone che finalmente accedono alla consapevolezza di essere parte di un unico mondo, che vogliono essere responsabili della loro vita, e per questo sono disposti a venire in Europa a fare i lavori più umili: accudire i nostri ammalati, cucinare il nostro cibo e pulire le nostre città.

Il nostro mondo europeo è ormai piccolo e c’è al di là di questa porta un mondo più grande che ci chiede di partecipare e di condividere. L’Europa può essere anche un mondo piccino non solo in senso geografico, ma perché chiuso e meschino. Un piccolo mondo che si pensa al centro dell’universo; che non capisce che al di là dei nostri confini – i quali perdono sempre più significato – c’è un nuovo grande mondo ribollente di vita.

Chiudere questa porta vorrebbe dire chiudersi alla storia e al futuro. L’Europa ha incominciato a capire che il diritto internazionale costruito negli ultimi secoli, il quale nega la possibilità di interferire con gli affari interni di un paese – anche se è in atto una persecuzione o un genocidio – andava forse bene prima della globalizzazione. Adesso è superato. Ma è già anche superato il diritto di intervento umanitario: di fronte ai drammi crescenti della fame e del disastro ecologico, l’Europa viene presa dal panico e risponde alla crescente richiesta di solidarietà con promesse che non mantiene mai (come vediamo regolarmente durante gli incontri del G8) rinchiudendosi negli interessi nazionali e alzando barriere sempre più alte.

In questo momento – e speriamo che sia breve – l’Europa crede a chi percepisce e rappresenta lo straniero come una minaccia, come colui che vuole derubarci della «nostra roba» e della «nostra identità». Invece lo straniero è «colui senza il quale vivere non è più vivere».

Accettando l’altro non gli facciamo un favore: aiutiamo noi stessi; evitiamo di diventare maschere e di immedesimarci sempre più in un’identità immaginata che dovrebbe proteggerci dalle nostre insicurezze interiori, un’identità statica e sterile che ci impedisce di crescere come persone umane e come società. È una tentazione che coinvolge tutti, anche una Chiesa che talvolta sembra preferire il porto sicuro delle antiche abitudini piuttosto che l’avventura del mare aperto.

I poveri però si rifiutano di vivere in una miseria indegna della persona umana, vittime di uno sfruttamento interno ed esterno, di guerre che non capiscono e non vogliono; vengono a cercare da noi il sogno di quell’European way of life che abbiamo alimentato con la nostra propaganda, stupidamente sicuri che il nostro modello di sviluppo fosse l’unico possibile.

C’è chi in Europa crede di poter fermare con le leggi questa ondata di vita che viene ad abbracciarci. Fortunatamente per tutti noi, sono degli illusi. La legge non cambia la storia; anzi, quasi sempre la legge è costretta a seguirla, soprattutto quando si tratta di eventi epocali come le migrazioni oggi in atto. Così chi in Europa tiene gli occhi aperti incomincia a capire che la solidarietà o diventa globale o non ha più senso. Gli egoismi di classe e di nazione sono il linguaggio del passato. Oggi i nostri ragazzi si sentono sempre di più cittadini di un unico mondo e capiscono istintivamente – a meno che siano succubi di martellanti propagande – che la convivenza civile può essere fondata solo su una solidarietà globale, altrimenti è un egoismo mascherato. Fra pochi anni i politici che hanno inventato i muri che dividono le nazioni come fra Messico e Stati Uniti o fra Israele e Palestina, i centri di identificazione ed espulsione e i respingimenti saranno consegnati alla storia come sopravvissuti di un’era in cui nessuno più si riconoscerà.

Sono fiero della mia cultura e della mia tradizione, nelle quali è centrale riconoscere in ogni persona prima di tutto la comune umanità, fonte di dignità e diritti. Solo successivamente si vedono le differenze, le quali ci completano, anzi, mi creano e mi danno vita, perché senza queste differenze non potrei essere me stesso.

Mi sento in comunione con Francesco, il papa-pastore che abbraccia i fratelli sofferenti, non per calcoli diplomatici o equilibri geopolitici, ma “solo” perché essi “sono la carne di Cristo”.

Riguardando questa porta non la vedo più come un monumento ai morti ma come un grande segno di speranza per i vivi. Non facciamo semplicemente memoria di quei poveri corpi in fondo al mare: li riconosciamo come persone che venivano a noi desiderose di condividere la nostra comune umanità. Riconosciamo che loro, che hanno già attraversato un’altra porta – quella che si apre sull’incontro con l’Infinito, con colui che è davvero e definitivamente l’Altro – avevano capito ciò che noi fatichiamo a intravedere: che la fraternità è il nostro orizzonte.

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