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Migranti

Sabato prossimo, 28 giugno, sara’ inaugurato a Lampedusa un monumento alla memoria dei migranti caduti in mare nel tentativo di raggiungere le sponde dell’ Europa. Alcuni miei amici e due realta’ che ho contribuito a far nascere, Amani e Koinonia, hanno promosso questa iniziativa a cui vi chiedo caldamente di aderire. 

Amani, Arnoldo Mosca Mondadori, Alternativa Giovani e Koinonia Community lanciano una proposta alla società civile italiana e alle istituzioni europee: un monumento alla memoria dei migranti caduti in mare, che sara’ inaugurato il prossimo 28 giugno.

Il monumento che intendiamo realizzare, grazie alla disponibilità di Mimmo Paladino, è in memoria di quanti, uomini donne e bambini, hanno perso la vita nel tentativo di attraversare il mare mediterraneo per giungere sino a noi in cerca di un futuro migliore.

E’ quindi un monumento alla memoria, in ricordo di coloro che non sono mai approdati. Una porta da attraversare in silenzio udendo solo il rumore del mare come se, per un istante, solo per un attimo potessimo ricongiungerci con coloro che non sono arrivati, per bussare alla loro porta come loro volevano bussare alla nostra e poi stare lì ed aspettare perché questo tempo non torni più.

Il testo che segue è il nostro APPELLO che vorremmo continuasse ad accompagnarci in futuro.

Ogni giorno decine di migranti cercano di raggiungere il nostro Paese e, attraverso di esso, l’Europa. Ogni anno centinaia di loro muoiono nel corso di questo tentativo. Negli anni, essi sono diventati migliaia e migliaia: 10.376 dal 1988 al settembre 2007 lungo le frontiere europee, secondo l’Osservatorio sulle vittime dell’immigrazione di Fortress Europe. È una strage senza testimoni, senza denunce e molto spesso senza sepoltura, perché la maggior parte delle vittime perisce in mare e i corpi non vengono recuperati. Persino nel caso del maggior naufragio di migranti, quello avvenuto la notte di Natale del 1996 al largo delle acque di Porto Palo in Sicilia, nel quale morirono 283 persone, sebbene il relitto sia stato localizzato, nessuno ha voluto assumersi l’onere delle operazioni di recupero. E’ dunque anche una strage senza pietà.

 

I migranti vengono dal Sud e dall’Est del mondo verso l’Italia. Vengono ad accudire i nostri anziani, a sorvegliare i nostri figli, a pulire le nostre case, a servire alle nostre mense, a lavare i nostri piatti, a raccogliere le nostre immondizie, a mandare avanti le nostre imprese artigianali, le colture e le stalle, gli impianti industriali e i servizi. Portano lavoro, umiltà, energia, un enorme desiderio di riscatto: vengono da noi per migliorarsi. Portano anche giovinezza e forza vitale alla nostra società senescente, disponibilità alle mansioni che da noi si rifiutano, speranza d’avvenire che a noi si comunica: vengono da noi per salvarci.

 

La strage di migranti ai nostri confini è il prezzo pagato alla nostra impreparazione, incomprensione, indifferenza di fronte a un fenomeno umano di proporzioni epocali. Per questo pensiamo che un calendario e un monumento ai migranti caduti possano essere non un risarcimento, ma un riconoscimento dovuto alle sofferenze patite anche per noi.

 

Per aderire invia una mail a: monumentolampedusa@email.it inserendo il tuo Nome, Cognome e Città, scrivendo nell’oggetto ADERISCO ALL’APPELLO.

 

All’APPELLO hanno già aderito rappresentanti della cultura, dell’arte, delle istituzioni e dell’impresa, tra cui:

Ennio Morricone, Antonio Tabucchi, Arnaldo Pomodoro, Alessandro Passadore, Andrea Aiello, Eva Cantarella, Guido Martinotti, Giulio Giorello, Lella Costa, Khaled Fouad Allam, Lucio Dalla, Don Gino Rigoldi, Don Virginio Colmegna, Ottavia Piccolo, Ada Gigli Marchetti, Roberto Vecchioni, Luca Pignatelli, Maurizio Cucchi, Laura Boldrini, Salvatore Veca, Margherita Hack, Alda Merini, Pietro Veronese, Bruno Arpaia, Nicoletta Mondadori, Alfredo Rapetti, Fabrizio Ferri, Bianca Beccalli, Anna Cataldi, Mimmo Paladino.

Info:

www.amaniforafrica.org – tel. 02.48951149

www.arnoldomoscamondadori.itwww.alternativagiovani.it

L’Aritmetica delle Scimmie

Mi e’ capitato di leggere questa notizia, proveniente dagli USA:

Ecco un nuovo elemento da aggiungere alla lista delle cose che ci legano al mondo animale, in particolare a quello delle scimmie. Anche loro infatti saprebbero contare, o comunque distinguere tra diverse quantità numeriche. Lo dimostra un esperimento condotto dai ricercatori della Duke University di Durham (North Carolina), secondo il quale i nostri parenti animali più prossimi avrebbero una sorprendente agilità mentale nel riconoscere numeri e fare piccole somme. Lo studio è stato condotto in curioso parallelo tra primati e studenti volontari e i risultati ottenuti sono stati sorprendenti.

Nell’esperimento alle scimmie è stato chiesto di fare rapide addizioni mentali: il 76 per cento degli animali ha risposto positivamente, contro il 94 per cento degli studenti, cui era stato chiesto di fare la stessa cosa. Una differenza di percentuale irrisoria, che secondo gli scienziati americani suggerisce una comune propensione al calcolo.

“E’ noto che gli animali sanno riconoscere le quantità, ma la vera sorpresa sta nella loro capacità di realizzare calcoli matematici come l’addizione”, ha spiegato Jessica Cantlon, ricercatrice al Centro di Neuroscienza cognitiva della Duke University. “La nostra ricerca dimostra proprio questo”.
Lo studio, pubblicato nella rivista
Public Library of Scienze Biology, arriva poco tempo dopo quello di un gruppo di ricercatori giapponesi, che ha dimostrato come i giovani scimpanzé abbiano una memoria di breve termine migliore di quella dei loro colleghi studenti.

Beh, posso garantirvi che i ricercatori della Duke University arrivano in ritardo. Che le scimmie sapessero contare i contadini Achewa dell’’ Est della Zambia lo sanno da tempo immemorabile. Alla fine degli anni settanta ero a Chadiza, nell’angolino di Zambia che si incunea fra Mozambico e Malawi, una delle regioni africane piu’ densamente popolate, per il clima mite e la terra fertile. Durante il mese di giugno andavo di villaggio in villaggio celebrando con la gente la Za Masika, la festa del ringraziamento alla fine della stagione del raccolto. A dimostrazione delle abilita’ aritmetiche scimmiesche, ma con un debole per le sottrazioni, gli Achewa mi raccontavano che quando le pannocchie di mais cominciano a riempirsi di chicchi teneri e dolci, bisogna proteggere i campi dalle scimmie e dai cinghiali, che ne sono ghiottissimi e che in una notte possono distruggere i campi di mais di una intera famiglia. Allora si fanno turni di guarda continui, 24 ore su 24, talvolta erigendo in mezzo al campo delle capannucce provvisorie, dove si posizionano dei ragazzi armati di grossi bastoni. I bastoni servano non solo a far rumore (il rumore basta solo a far fuggire i cinghiali), ma per proteggersi dalla scimmie che quando sono in tante possono diventare molto pericolose, e anche uccidere una persona, letteralmente sgozzandola. Ebbene, le scimmie si mettono sugli alberi al bordo del campo e stanno ad osservare. Se si accorgono che un campo non e’ protetto lo devastano, ma se vedono dei guardiani restano ai margini. Se vedono entrare tre persone e piu’ tardi osservano che ne escono una o due, le scimmie non si muovono perche’ sanno che qualcuno e’ rimasto di guardia. Vanno a banchettare solo se ne vedono uscire tre. Ma se si posizionano un numero piu’ alto di guardiani, dai quattro in su, e successivamente ne escono tre, anche alla spicciolata, appena il terzo se ne va le scimmie si scatenano sul campo di mais, per poi fuggire atterrite quando si accorgono che nascosti nel mais ormai molto alto sono rimasti dei guardiani. Hanno perso il conto…

Amnistia e Perdono

n Kenya e’ tornata la pace. O almeno cosi sembra. A Nairobi, anche negli slums che ne erano stati piu’ fortemente colpiti, i segni della violenza stanno rapidamente scomparendo. Strutture provvisorie sostituiscono e nascondono le strutture precedenti che spesso erano solo poco più che provvisorie. La centrale telefonica di Jamuhuri che era state bruciata in uno dei peggiori incidenti dello scorso gennaio, a due passi dalla casa provincializia dei comboniani, e’ stata frettolosamente riverniciata per nascondere i segni delle fiamme e del fumo, anche se ancora non ha ripreso a funzionare.

Ma, per quanti sforzi faccia, il presente governo di grande coalizione – con ben 42 ministri ed una pletora di sottosegretari, fra di loro molti personaggi che lo scorso gennaio apparivano essere nemici acerrimi e che hanno irresponsabilmente alimentato la violenza per i loro scopi politici – non riesce a far dimenticare che ci sono stati oltre millecinquecento morti e un numero ancor piu’ difficile da definire,ma comunque vicino al mezzo milione, di rifugiati. La vernice copre solo le apparenze, non la sostanza.

Due sono le azioni che il governo sta cercando effettuare nel tentativo di far dimenticare il recente passato: un’ amnistia generale per coloro che sono stati responsabili delle violenze post-elettorale, e il ritorno immediato degli sfollati nelle loro case. Le modalita’ usate sono pero’ cosi rozze e improvvisate che rischiano di esacerbare gli animi e provocare un rigurgito di violenza, piuttosto che riavvicinare i tempi della riconciliazione.

L’ amnistia e’ propugnata principalmente da coloro che erano parte dell’opposizione. Ogni pochi giorni alcuni di loro la ripropongono come un atto di clemenza quasi dovuto a chi “ha salvato la democrazia keniana”. Regolarmente altri membri del governo si oppongono ricordando che questi salvatori della democrazia hanno comunque commesso gravi atti criminali, come incendiare, saccheggiare ed uccidere. Per qualche giorno non se ne parla piu’, ma poi i difensori della necessita’ dell’ amnistia tornano alla carica. Il perche’ di questa insistenza e’ abbastanza evidente: tutti sanno che ci sono prove schiaccianti che la’ dove la violenza e’ stata premeditata e organizzata, i responsabili sono alcuni “uomini politici” (fa abbastanza impressione chiamarli cosi’) che sono attualmente al governo, e che sperano che una amnistia generale scoraggi ogni ulteriore indagine.

Uno sfollato che, come tanti, invece di andare in uno degli appositi campi organizzati dal governo ha trovato un tetto preso suo fratello in una baracca vicina a Kivuli, mi diceva qualche giorno fa: “Il ministro *** chiede a gran voce l’ amnistia. Lo capisco benissimo, forse farei lo stesso se fossi al suo posto, visto che e’ l’auto di sua moglie che ha portato le tanche di benzina che son servite a bruciare la mia casa, e non solo la mia. E nella mia casa c’era ancora dentro mio figlio di due anni, John. Potra’ lui restituirmelo?”

Effettivamente, l’amnistia sarebbe in Kenya solo un’ altra parola per affermare l’ impunita’ di cui gli uomini politici hanno goduto dall’ indipendenza ad oggi. Sono qui da oltre vent’anni  e non ricordo di un uomo politico che abbia pagato per le sue malefatte. L’ impunita’ dei potenti e’ parte del sistema ereditato dal colonialismo inglese. Ma oggi non ci si puo’ piu’ nascondere dietro le colpe degli altri, Bisogna che giustizia sia fatta e che tutti vedano che giustizia e’ stata fatta, se si vuole veramente interrompere il ciclo dell’ impunita’. Una povera e semplice giustizia umana, ma pur sempre una dimostrazione di serieta’ e di rispetto per coloro i cui diritti sono stati gravemente violati.

Continua il mio interlocutore: “Io sono cristiano, ed ho pensato molte volte che dopotutto dovrei perdonare. Ma l’ amnistia mi rende impossibile il perdono, perche’ cosi non sapro’ mai chi e’ il colpevole. Anche il confessionale il prete da’ il perdono di Dio solo a chi ammette la propria colpa.”

Ha ragione. Il perdono cristiano e’ un dono e una grazia. Grazia per chi lo offre, e dono per chi lo riceve. Ma la giustizia umana dovrebbe fare il suo corso. La riconciliazione vera e’ possibile solo dopo un’ ammissione di colpa.

Il ritorno degli sfollati alle loro case e’ pure ostacolato dal risentimento, paura e odio che sono nati durante i drammatici episodi di gennaio, nonostante il governo assicuri che questo rientro sta procedendo bene. L’ operazione “Rudi Nyumbani” (ritorno a casa) e’ stata lanciata gia’ nel mese di maggio, con il supporto dei mass media, ma con poca o nulla preparazione. Persone a cui e’ stata bruciata la casa dai vicini, e che hanno visto uccidere i propri cari, si sono sentite dire “tutto e’ finito , preparatevi che domattina vi riportiamo a  casa” e il mattino successivo sono stati caricati su un camion e portati fino a casa. O meglio fino a dove abitavano lo scorso dicembre, perche’ hanno trovato una casa o capanna bruciata, campi devastati, pozzi inquinati. E sono stati lasciati li solo con un piccolo aiuto, qualche coperta, pochi chili di farina di polenta e di fagioli. Le agenzia umanitarie molta piu’ difficolta’ a raggiungere coloro che sono ritornati, era piu’ semplice aiutare gli sfollati quando erano ammassati nei campi.

Dice il mio vicino che alcuni sui parenti sono tornati nell’ area in cui anche lui viveva, ma poi, dopo una settimana, sono ritornati nei campi sfollati. A “casa” era difficile vivere, mancava tutto e i vicini erano ostili. Che senso ha ritornare in queste condizioni? Potrebbe essere solo la preparazione di nuove violenze.

Come ha detto Peter Kairo, arcivescovo di Nyeri, che lo scorso gennaio era vescovo di Nakuru, una delle area piu’ devastate dagli scontri “la rivalita’ etnica che ha fatto esplodere la violenza e’ ancora molto alta e la sola presenza della polizia non bastera’ a restaurare la pace.”

Mons. Cornelius Korir, vescovo di Eldoret, e’ fra coloro che piu’ si sono prodigati per alleviare le sofferenze di tutti, senza distinzione. Migliaia di sfollati sono vissuti per settimane accampati dentro e fuori la sua cattedrale.  Adesso e’ fra i promotori di una seria campagna di pace e riconciliazione, ed ha recentemente osservato che “d’ ora in poi, gli anziani delle diverse comunita’ dovrebbero essere capaci di identificare i segnali di conflitti latenti, e dovrebbero intervenire subito per risolverli, invece di intervenire solo per rimediare agli effetti negativi.”

Apparentemente parlava agli anziani di alcuni villaggi. Ma il suo consiglio dovrebbe essere seguito sopratutto dai leaders dei partiti politici rivali, o scorso anno hanno fatto esattamente l’ opposto, cioe’ alimentato il conflitto per trarne il maggior vantaggio possibile.

Scusate, e il Dialogo?

La notizia sorprende: il corso di Studi islamici al Tangaza College di Nairobi è stato sospeso per mancanza di studenti. Creato nel 1989 dai Missionari d’Africa (già Padri Bianchi) presso il Pontificio istituto di studi arabi e islamici (Pisai) di Roma, il corso si proponeva di offrire una sostanziosa conoscenza dell’islam e una formazione al dialogo ad agenti ecclesiali di pastorale che lavorano in ambienti islamici. Dato che la maggioranza degli studenti provenivano dall’Africa, nel 2000 fu deciso di trasferire il corso al Tangaza College di Nairobi, un’istituzione universitaria fondata dagli istituti missionari e religiosi presenti in Africa Orientale. Nei primi tre anni, solo due o tre studenti s’iscrissero al corso a tempo pieno. Dal 2004, però, non c’è stato più alcun studente iscritto a tempo pieno al corso. Oggi, gli insegnanti – tutti altamente qualificati – si limitano a offrire corsi complementari (opzionali) agli studenti della facoltà di teologia. Corsi anche frequentati e molto apprezzanti, non si discute. Ma è scontato che non formano a una “competenza specifica” per il dialogo interreligioso.

Questa sospensione è un segno che, a oltre 40 anni dalla promulgazione della Dichiarazione sulle relazioni della chiesa con le religioni non cristiane, Nostra Aetate, del Concilio Vaticano secondo (ottobre 1965), il dialogo islamo-cristiano non è ancora considerato una priorità?

Una lettura attenta dei Lineamenta per il prossimo Sinodo africano sembra giustificare questa domanda. Nella versione stampata che circola in Kenya, una sola delle 66 pagine e una sola delle 32 domande del questionario allegato sono dedicate alle relazioni con l’islam. E questo, per preparare un sinodo che intende esaminare la situazione di un continente in cui la religione del Corano vanta una consistente presenza in moltissime nazioni (Somalia, Sudan, Editto, Tunisia, Algeria, Marocco, Senegal, Gambia, Mali e Niger sono a stragrande maggioranza musulmana).

Ne parlo con padre Paul Hannon, dei Missionari d’Africa, una vita intera dedicata all’incontro con l’islam e, fino a poche settimane fa, coordinatore del dipartimento di Studi islamici del Tangaza College. Sta per ritornare in una grande parrocchia di Khartoum, dove spera di poter esercitare il proprio ministero al servizio della comunità cristiana e degli amici musulmani.

Spiega così il mancato successo del corso di studi islamici. «Una ragione potrebbe essere l’elevato costo della vita a Nairobi. Ma il motivo principale è che l’incontro con il mondo islamico non è una priorità dei vescovi e delle congregazioni religiose, specialmente in paesi, come il Kenya, dove i musulmani sono una minoranza. La loro presenza non costituisce una minaccia e non si avverte la necessità di confrontarsi con loro. Così, però, si perde una grande opportunità di instaurare relazioni. In nazioni, come il Sudan, dove la chiesa ha sofferto persecuzione e marginalizzazione per mano di maggioranza islamica, si preferisce mantenere le distanze. Non mi permetto di giudicare chi ha patito grandi sofferenze. Credo, comunque, che le difficoltà vadano affrontate e superate, aumentando le occasioni d’incontro e di condivisione, che già esistono».

 L’incontro sul sociale

Eppure, il dialogo con il mondo islamico sembra ormai avviato, anche se l’atmosfera non è sempre serena e distesa. Dopo la lectio magistralis di Benedetto XVI a Ratisbona nel settembre 2006, 38 saggi islamici hanno inviato una prima lettera a commento (ottobre 2006) e, un anno dopo, una seconda lettera (sottoscritta da 138 saggi, diventati in seguito 216), per cercare un terreno comune di collaborazione fra cristiani e musulmani. A sua volta, il 19 novembre scorso, Benedetto XVI ha risposto alla lettera dei 138, aprendo a una possibile collaborazione su diversi campi. Gli incontri ad alto livello si sono susseguiti con un fitto calendario. L’ultimo (a Roma, alla fine di aprile) ha visto otto delegati dello Islamic Culture and Relations Organization di Teheran discutere con i vertici del Pontificio consiglio per il dialogo interreligioso su “Fede e ragione nel Cristianesimo e nell’ Islam”. Insomma, un vero “dialogo di civiltà” sta lentamente emergendo, ben diverso dallo “scontro delle ignoranze” che è, invece, alimentato da chi, in entrambe le parti, si rifà a luoghi comuni.

Secondo padre Hannon, non bisogna trascurare le possibilità di collaborazione islamo-cristiana che si presentano nelle vita quotidiana: «A livello di base, prima d’incominciare a parlare di dialogo, bisognerebbe parlare d’incontro. Innanzitutto, diventando consapevoli che, ovunque in Africa, intorno a noi ci sono musulmani. Bisogna saper “vedere” questa presenza e riconoscerla, per poi promuovere occasioni d’incontro, non necessariamente su temi religiosi, bensì su temi sociali d’interesse comune, quali giustizia e pace, diritti umani, sviluppo economico e uguaglianza sociale. Per citare un esempio: i recenti gravi problemi riscontrati in Kenya avrebbero potuto diventare un’occasione di comune riflessione e azione. In Kenya ci sono alcuni musulmani aperti e illuminati, con i quali è possibile incontrarsi e incominciare un confronto fraterno su questi temi».

 Qualcosa si muove

Questo incontro è potenzialmente più facile e fruttuoso proprio in Africa, dove le comunità islamiche hanno spesso assorbito lo spirito di tolleranza e la capacità di convivenza tipica delle culture tradizionali. Basti pensare all’islam delle comunità senegalesi e, in genere, della regione saheliana.

Padre Hannon parla con entusiasmo del positivo lavoro svolto dell’Associazione interconfessionale del Kenya, di ciò che viene fatto da suoi confratelli a Tandale alla periferia di Dar es Salama (Tanzania), nonostante le resistenze e incomprensioni di alcuni leader musulmani, e delle varie esperienze di dialogo interreligioso in atto in Uganda, dove diverse organizzazioni civili e religiosi, sia cristiane che musulmane, s’incontrano ogni mese all’università di Makerere, pubblicano la rivista trimestrale Together e organizzano in ogni parte del paese seminari sulla necessità dell’incontro tra le due religioni: una collaborazione, questa, che ha convinto perfino alcuni membri del Supremo consiglio islamico dell’Uganda che il dialogo non è una strategia segreta della chiesa cattolica per convertire i musulmani.

Parla soprattutto della sua esperienza personale a Hajj Yousif, alla periferia di Khartoum, sulla strada per Kassala. «È una parrocchia difficile, dove l’atmosfera può infuocarsi facilmente. Nell’agosto del 2005, quando John Garang, leader della lotta di liberazione del Sud Sudan, perse la vita in un incidente di elicottero da molti considerato frutto di un sabotaggio da parte delle forse islamiche sudanesi più intransigenti, in città si ebbero violenze, omicidi e saccheggi. Un anno dopo, tuttavia, sia pure fra molte difficoltà, abbiamo ottenuto, per la prima volta dopo decenni, l’autorizzazione a costruire una chiesa».

Il tema del prossimo sinodo è “La chiesa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Due le possibili vie da percorrere in materia di relazioni tra cristiani e musulmani. Innanzitutto, c’è la via della riconciliazione fra le due religioni: dobbiamo imparare a riconoscerci, a guardarci negli occhi, ad avere il coraggio di mettere sul tavolo tutte le negatività del passato (divisioni, conflitti, perfino stragi in nome della religione, come accadde a Mombasa, sulla costa del Kenya, nel 17° secolo), per poi incominciare a considerare ciò che ci unisce più che ciò che ci separa, come le comuni origini e la fede nello stesso Dio. A Mombasa c’è un’iniziativa diocesana per bambini di strada che, con una felice intuizione, è stata intitolata “Figli di Abramo”.

L’altra via è quella dell’azione comune al servizio della giustizia e della pace, in cui credenti di ambedue le religioni s’impegnano per il bene di tutti. Non si tratta di un sogno. Una intesa è possibile: basta decidere. Riferendosi ai progressi fatti negli ultimi anni, padre Hannon sottolinea: «Risultati positivi si sono avuti dove singoli o gruppi cristiani si sono lanciati in azioni coraggiose, lasciandosi guidare dallo Spirito e non da altri interessi».

Per quanto riguarda i Lineamenta, si può solo sperare che il testo – penosamente inadeguato, anche solo come strumento per una iniziale riflessione sul possibile incontro e su una fattiva collaborazione fra cristiani e musulmani – venga sostanzialmente migliorato attraverso i contributi inviati alla segreteria del Sinodo dall’episcopato africano, e che l’Instrumentum laboris, il testo che servirà come base per la discussione sinodale, offra una visione più articolata e, nello stesso tempo, più profetica.

Arrendersi al Male

Leggo in internet le sconsolanti notizie dall’Italia. Ancor piu’ sconsolanti perche’ sono pochi quelli che come don Vinicio Albanesi scrivono “io sto con i cani e gli infedeli”, o chi come don Gino Rigoldi dice semplicemente “il razzismo e’ peccato”. Ma dove sono i vescovi? Non ho trovato una dichiarazione, omelia, pronunciamento. Spero solo che sia perche’ non vengono riportate dai siti che riesco a vedere qui a Nairobi.

In Kenya si e’ riunito la settimana scorsa per la prima volta il megagoverno di coalizione. Quarantadue ministri, incluso quello ”Per la visione del 2030”. Diverse persone indicate dalla voce popolare come i principali responsabili dell’ incitamento alla violenza post elettorale sono in questo gabinetto con posizioni importanti. Il primo grande dibattito e’ stato se si debba o no concedere l’amnistia a chi e’ in prigione accasato di aver perpetrato atti di violenza, che complessivamente secondo le stime ufficiali e conservatrici hanno causato almeno 1,500 morti e 500,000 sfollati, senza contare i danni alle cose. Significherebbe il perpetuarsi del clima di immunita’ che negli anni recenti ha permesso agli uomini politici di commettere azioni criminali senza mai pagarne le conseguenze. Assolutamente immorale. Eppure sembrano tutti d’accordo, mascherandosi con una finta volonta’ di perdono.

In Sudan i “ribelli” del JEM (Justice and Equality Movement”, si autodefiniscono) hanno attaccato Khartoum. I fatti sono cosi confusi che ci si chiede addirittura se l’attacco a Khartoum non sia stato in qualche modo una manovra governativa. Certamente non sono un messa in scena gli scontri intorno ai pozzi petroliferi di Abyei. Le due parti che si sono combattute dal 1983 al 2005, SPLA e l’ala fondamentalista islamica del governo di Khartoum, sono tornate a scontrarsi. La firma della pace in Sudan sembra ormai gia’ un episodio del passato. Stiamo andando irreversibilmente verso un Sud Sudan indipendente e in permanete situazione di tensione e conflitto armato col Nord. E nel Nord la violenza degli scontri in Darfur non accenna a diminuire.

In Uganda la pace fra LRA e governo si allontana sempre piu’, anche se negoziatori eccessivamente ottimisti e alla ricerca finalmente di un successo l’ hanno annunciata come imminente piu’ di una volta. Il mediatore principale e’ il dottor Riek Machar, vicepresidente del Sud Sudan, uno che di pace se ne intende, perche’ di negoziati di pace avviati, firmati e sconfessati piu’ di uno. Altri morti, altri bambini rapiti e brutalizzati, altre vita innocenti violate. Ma a chi interessa? Ormai e’ una storia vecchia che va avanti da oltre vent’anni. I ribelli dovrebbero inventarsi qualcosa di nuovo, di piu’ atroce del solito, se non vogliono cadere nell’oblio, loro e le loro vittime.

In Zimbabwe continua la violenza nata durante il recente scontro elettorale e in preparazione alla nuova tornata. Ormai la lotta si e’ cosi incancrenita che non si riesce piu’ a risalire alle cause. E’ stata l’ innegabile stupidita’ di un regime tanto corrotto quanto dispotico? O sono stati i coloni inglesi e la politica intransigente sostenuta dalla parte piu’ razzista dei mass media britannici?

In Sudafrica, il paese arcobaleno, gli immigrati sono cacciati e uccisi. Ancora una volta i poveri scatenano sui piu’ poveri le frustrazioni e le rabbie che nascono dalle promesse mancate e speranze fallite, dalla poverta’ crescente, dai prezzi del cibo che continuano a crescere a dismisura. Visto che e’ impossibile perdersela coi potenti, e che i potenti controllando l’informazione riescano a far credere che la responsabilita’ sia degli immigrati, il capro espiatorio diventano i piu’ deboli. Cosi, come in Italia si sono inventati i Rom, in Sudafrica gli zimbabwani, in Sudan i darfuriani, in Kenya le streghe.

Alla fine degli anni sessanta, una volta la settimana lasciavo per qualche ora lo studio della teologia a Venegono e andavo ad insegnare disegno tecnico in una scuola delle Acli di Varese. Ricordo l’ assistente delle Acli che usava dire, “Oggi abbiamo di testimoni, non di profeti o di eroi. Tanto meno di quelli che sanno di esserlo. Ancor meno di quelli che credono di esserlo”.

Oggi in Africa, in Italia, dappertutto, abbiamo bisogno di gente vera, buona e semplice che faccia quotidianamente cose vere, intelligenti, semplici e buone. Con costanza. Ammiro sempre piu’ i miei confratelli anziani, quelli che hanno dieci o vent’anni piu’ di me a che continuano a fare semplicemente per amore della gente quello che hanno sempre fatto: stare in mezzo a loro, condividendo il cuore e la fede. Ammiro le nonne africane che si prendono cura dei nipotini perche’ i figli sono morti nell’epidemia di AIDS. Le vedo all’ imbrunire andare con passo determinato a comperare una manciata di fagioli per preparare la cena ai nipoti, con i pochi scellini guadagnati durante il giorno lavando i panni degli altri o vendendo pannocchie di mais abbrustolite. Vedo che quel passo fermo cerca di nascondere la fatica e l’ eta’, ma non si danno per vinte. Sanno di essere loro a fare andare avanti il mondo.

Ieri mattina sono andato a vedere la decina di bambini di strada che si trova nella casetta di prima accoglienza, Ndugu Mdogo, a Kibera. Li trovo che stanno guardando le notizie sulla piccola televisione che ci hanno regalato. Si vedono le vittime emaciate del ciclone di Burma. C’e’ un bambino dal volto smunto, di fianco alla mamma seduta e piangente. Kyalo, che avra’ otto anni e che solo da qualche settimana mangia regolarmente tutti i giorni, mi tira la manica della maglietta per richiamare la mia attenzione. Non dice niente, mi indica lo schermo.

Cosa possiamo fare? Possiamo forse alzare le mani, sventolare bandiera bianca e lasciare che l’ ingiustizia e il male vincano senza neanche piu’ tentare di dar battaglia? Dopo la colazione dico a Kyalo e agli altri che intanto si impegnino a riprendere la scuola, imparino a rispettare gli altri, cerchino di seguire l’insegnamento di Gesu’, e poi loro saranno capaci creare una societa’ piu’ giusta. Vorrei anche dire che dovranno affrontare difficota’ e dolori grandi, ma che comunque non si devono scoraggiare, perche’ vivere cercando di rendere il nostro mondo piu’ umano, buono e giusto e’ comunque il modo piu’ bello per spendere la propria vita. Ma mi fermo, non vorrei caricare sulle loro spalle un peso troppo grande. Hanno bisogno ancora di crescere per capire certe cose e portare certi pesi.

MaterAfrica

Ho voglia di scrivere, ho tante cose da raccontare, ma troppo spesso non trovo il tempo. Riesco a farlo solo quando qualche amico mi tormenta fino a quando non rispondo alle sollecitazioni.

Nei giorni scorsi a svolgere questa funzione sono stati gli amici di Matera, specialmente quelli dl gruppo di musica tradizionale Terragnora. Quasi tutti loro sono venuti a Nairobi, alcuni piu’ di una volta, e naturalmente hanno subito fatto amicizia con i nostri percussionisti, coristi, danzatori e acrobati dei Nafsi Africa. Lo scorso anno ne hanno invitati alcuni a Matera ed insieme hanno suonato a cantato per ore e ore, finche’ e’ nata una cosa originale, un fusion matero-rirutiano che hanno pensato di offrire ad un pubblico piu’ vasto, con l’ indovinato titolo di MaterAfrica. Nell’ occasione della pubblicazione del CD mi hanno chiesto di scirvere un testo, che riproduco qui sotto, insieme alla copertina del CD. Ho fatto del mio meglio perche’ – pur essenso stonato ed incapace di muovermi a ritmo – capisco che la musica e’ una grandissima forza per costruire comunita’.

 

Il battere dei tamburi e la voce umana sono gli elementi fondamentali della musica africana tradizionale. Koinonia, che in tutti i campi vuole mantenere vivi i valori della tradizione, ha sempre apprezzato il potenziale di costruzione di pace e di comunità insiti nella musica, ed ha incoraggiato un gruppo di giovani a costituire i Nafsi Africa, “l’Anima dell’Africa”.  E’ un gruppo musicale che ripropone le percussioni, le danze e i giochi comunitari tradizionali; cosi ciò che viene sempre meno eseguito nelle piazze dei villaggi viene riproposto nelle strade di Nairobi, con le inevitabili contaminazioni della modernità, che non vengono percepite come una minaccia, ma come un arricchimento.

La musica tradizionale, pur reinterpretata, resta quello che e’ sempre stata: un momento di incontro, di costruzione di comunità. Ciò che all’ascoltatore superficiale può sembrare il monotono ripetersi di un ritmo sempre uguale, per chi vi partecipa e’ invece un crescendo di comunione ogni volta che una nuova persona entra nel circolo e vi contribuisce cantando, battendo le mani o i tamburi, danzando. Anche i piedi fanno musica.

Un grandissimo missionario comboniano e etnomusicologo di fama mondiale, Filiberto Giorgetti, usava dire che “dopo qualche minuto di percussione dei tamburi, il cuore di tutti i partecipanti in un canto africano batte all’ unisono; tamburi e cuori prendono lo stesso ritmo”. Forse non e’ una verità scientificamente dimostrata, ma esprime bene quanto la musica africana esiga e crei  coinvolgimento e comunità. La musica africana non e’ fatta per essere ascoltata, ma per essere partecipata.

Tanta della musica popolare e tradizionale nel mondo e’ basata sugli stessi principi. Per questo l’incontro fra i Nafsi Africa e i Terragnora e’ stato fecondo. Entrambi i gruppi sono fatti da persone che, pur vivendo in questo tempo, vogliono mantenere vivi i ritmi della tradizione ed entrambi sperimentano le tensioni che ne nascono. Entrambi vivono la loro musica come un momento comunitario e come strumento di costruzione di comunità e solidarietà.

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Una Gita in Scozia

Zambia. Sole, verde e i ragazzi di Mthunzi che si preparano all’ inizio del secondo trimestre scolastico. Ci sono venuto domenica mattina, dopo aver partecipato sabato scorso a Nairobi alla giornata dei giovani dedicata alla pace che vi avevo preannunciato. Anche sabato tanto sole e tanta voglia di ricominciare, come come racconta Phillip Emase, giornalista di Koinonia, nell’articolo in inglese che ho postato pochi minuti fa.

Ieri pomeriggio a Mthunzi ho informato i ragazzi che quindici di loro piu’ due educatori sono stati invitati in Scozia dal 29 luglio al 27 agosto per un giro di rappresentazioni. Tanta gioia per i prescelti, un po’ di delusione per gli esclusi. Ma quattro di loro si sono consolati confidandomi subito dopo che appena finiranno la scuola superiore, fra due o tre anni, vogliono andare in seminario… La sera stessa, tutti insieme, prescelti ed esclusi, hanno incominciato a preparare un nuovo spettacolo che combina teatro, danze, mimi, giocoleria, pagliacceria e acrobatica. Ci mancano solo qualche cavallo ed un paio di leoni e poi piu’ che un missionario con un gruppo di ex-bambini di strada potro’ dire di essere direttore di un circo.

Young People Speak out for Peace

A Youth Open Day Forum organized by Africa Peace Point, Koinonia Community, Kutoka Network, RSCK, KCS, Comboni and Consolata Missionaries and MAFRI was held on Saturday, May 3rd, 2008 at the City Council Grounds in Dagoretti, Nairobi. This is an account of the event. By Phillip Emase

“The message we wish to send out is that the vulnerability of Kenya’s young people should not be abused easily by interested groups such as politicians,” Fr. Fred Stringer, a missionary who teaches anthropology at Nairobi’s Tangaza College, remarks after listening to a robust  discussion by the youthful participants, many of whom have come from  various Nairobi slums.

The date is Saturday, May 3, 2008. Fr. Stringer and the several hundred young people are attending a Youth Open Forum at Dagoretti Corner, Nairobi. Organized by various religious, civil society and grassroots organizations, the event seeks to get young Kenyans to speak out with regard to the country’s recent political crisis, where an electoral dispute fuelled ethnic bloodshed that was largely perpetrated by the country’s vulnerable youths.

The day begins early, with young men and women streaming into the venue from as early as 7 A.M. By about 10 o’clock, venue and the adjacent Dagoretti township are teeming with enthusiastic youths donning either black t-shirts with the Swahili word “Amani” (peace), or the more conspicuous white ones emblazoned with a pigeon holding an olive branch over the inscription, “It’s a new dawn”.

Hundreds of young people mill around the main podium as Africa Peace Point Director Michael Ochieng makes his opening remarks. Popular radio presenter Titi Nagwalla then chirks them up, urging them to revel in the pounding music playing from the heavy duty public address system. The youths dance to the music and watch a few select performances to set the mood for the forum’s rallying theme, “Youth United for Peace in Kenya.”

Presently, all activity shifts towards discourse. A number of thematic tents are set up, and candid discussions on various composite issues threatening peace and unity in Kenya’s kick off in earnest.

A shuttle between the various tents makes it clear that Kenya’s young people are in fact acutely aware of the root factor behind ethnic tensions in the country. They desire for lasting peace and a chance to move from the sidelines into the mainstream, which would install them into their rightful position as the guardians of the nation’s future.

The participants at the “Ethnicity Tent” are by far the boldest. They point out that political instigation is to blame for the periodical escalation of ethnic tensions, citing Kenya’s recent post-election violence as a perfect case example.

“We need to ask ourselves this question, is there a nation called Kenya?” moderator Leah Kimathi poses. Various views spring up as the audience strives to carve out the identity of the Kenyan nation. Through consensus, they agree that although Kenya has 42 ethnic communities, all the diverse identities melt into one proud “nation” under the country’s national flag.

At the “Active Non-Violence Tent”, participants are split into two groups: those who believe in total nonviolence versus those who view violence as a necessary intervention in certain situations. Each group is challenged to define and defend its standpoint, and after a spirited debate, the discussion bridges into a recognition of dialogue, justice and tolerance as fundamental ingredients for conflict resolution.

United Nations estimates indicate that over 1,500 Kenyan lives were lost and 300,000 became internal refugees during the country’s recent post election. A “Counselling Tent” at the forum seeks to confront the deep-seated human factors that may have helped fuel this unprecedented spate of violence; young men and women from various ethnic groups sit with their chairs arranged in a ringe, candidly sharing their experiences and tackling issues that local society often elects to sweep under the carpet.

The youngsters discuss derisive tribal stereotypes, ethnic discrimination and even cases of parental opposition to intertribal marriages. It emerges, from the candid exchanges, that the young people generally view ethnic profiling as a carryover burden from their parents’ cultural pasts, and that the young people’s perspectives are largely out of touch with those of their fore bearers.

Could this mean that a new generation of “detribalized” Kenyans is emerging?

“Yes, I think so,” Janet Wabwile, a 19 year old college student from Woodley says, “I believe tribalism will weaken with time given that most of us grew up with people from many other tribes.” Quite an optimistic thought, but she is from urban Nairobi. What of the vast majority of young Kenyans who live in their rural tribal homelands, will they also have this cosmopolitan outlook? Or will they be the proverbial wet blankets that will prevent intertribal harmony from becoming a reality?

Moses Moreku, a young South African studying counseling in Nairobi, points at a handful of counselors seated separately behind the main tent. Each counselor is attending to one young man or woman.

“They are counseling perpetrators and direct victims of the violence who prefer to receive personalized counseling,” he explains before darting off to continue with his role as one of the moderators in the group therapy session.

In the “Good Neighborliness Tent”, discussants seek to understand how people got to the point of persecuting neighbors and friends they have lived with for years, suddenly ruling that they are from the “wrong tribe”, burning their houses, shedding their blood and relegating them to a squalid life of uncertainty in makeshift displacement camps.

Young Kenyans in the “Youth as a pillar for Development Tent” focus their discussion on ways in which they can fight the hopelessness that so commonly afflicts the youth in Kenya, especially those from underprivileged backgrounds. A pervasive inability to meet basic human needs often breeds crime, violence and even prostitution as these vulnerable youths seek to extricate themselves from the smothering web of desperation and self hatred. 

Joseph Thuo aptly defines the young people’s predicament. “It is not that we are bad people,” the young man from the Kibera slum says, “It is the harsh situation often leads us into unlawful activities, and periodically, vice becomes an integral part of our survival.”

His friend Nicholas Otieno agrees. “Our difficult harden us, our desperation makes it easy for politicians to use us for their dirty work,” Otieno adds. It is interesting to note that Thuo and Otieno are from two tribes, Kikuyu and Luo, whose rivalry was the centerpiece of Kenya’s recent post election violence. They say they are best friends, having grown up together. Watching the two young men jokingly taunt each with stereotypical depictions of their respective tribes, one question comes to mind – will these tribal stereotypes they are laughing about one day obliterate their friendship and make them to hold machetes aloft “in defense of the tribe?”

The thematic sessions wind up and once again, entertainment takes centre stage. The Eagle Dancers enthrall the crowd with their titillating gyrations; the Koinonia children’s choir sings a song admonishing tribalism and later on, the crowd gets onto its feet to dance to a ragga-flavoured rap song performed by 14-year-old Raphael Pizarro, a resident child under rehabilitation at Koinonia’s Kivuli Centre.

The KU Comedians duo from Kenyatta University- comedians duo use “mchongoano” – a common game in Kenya primary schools where boys jokingly deride each other for fun – to chastise Kenyan politicians for allowing their political disagreements to end up in violence between their supporters.

Shades Classic, Kayamba Africa and Zindua, amongst other groups, keep the crowd entertained. At one corner of the forum grounds, tens of youths are voluntarily donating blood in response to an initiative in which Hope International has mobilized blood donations for the Ministry of Health’s national blood bank.

The day’s crowning moment finally comes, and every participant is given a small piece of paper to write any action, misdeed or thought they may have committed that could qualify as a threat to peace.  The whole crowd then assembles at the open field in the middle of the forum grounds, all holding hands to symbolize unity and togetherness. Two big circles are then formed, with children forming the inner circle while the older attendees make the outer circle.

Everyone is asked to fold their small piece of paper, and without disclosing the content to anyone else, throw it into a small bonfire lit at the centre of the double circle to symbolize total forgiveness of past ethnic hostilities and herald the beginning of a new dawn through healing and reconciliation.

The young people bow their heads together, still holding hands, in a prayer for peace in Kenya. The words of St Francis’ prayer sum up the message and spirit of the day:

Lord, make me an instrument of Thy peace;

Where there is hatred, let me sow love….

 

Giovani Uniti per la Pace in Kenya

La violenza post-elettorale in Kenya ha rovinato la vita di centinaia di migliaia di persone, la maggioranza di loro bambini e giovani adulti. Alcuni, istigati da una propaganda politica criminosa, hanno commesso violenze, incendiato case, ucciso. E per far questo sono stati pagati. Moltissimi altri sono stati semplicemente vittime, ed hanno perso tutto. Sono rifugiati nel loro stesso paese, non hanno casa, campi da coltivare, scuole da frequentare, lavoro a cui aspirare. Anche la povera ma comunque dignitosa vita del contadino e’ diventata un sogno irraggiungibile.

A Nairobi abbiamo visto troppi di questi giovani disperati. E’ il peggiore dei mali sociali.  Se e’ dolorosissimo veder la sofferenza dei bambini o degli anziani abbandonati, e’ insopportabile vedere che i giovani hanno perso la speranza. Ragazze e ragazzi di vent’anni, che dovrebbero guardare alla vita con aspettative grandi, prepararsi al lavoro, costruirsi una famiglia, donare alla societa’ la loro traboccante energia, hanno invece gli occhi spenti, non credono piu’ a niente e a nessuno. Kamau, un ragazzo di diciotto anni proveniente da una famiglia di agricoltori della Rift Valley che con grandi sacrifici era riuscita a mandarlo in collegio in una scuola superiore di Nairobi, mi diceva ieri: “Non vado piu’ a scuola, vivo con i genitori e i miei fratelli piu’ piccoli in casa del fratello di mia di mia mamma. Siamo 13 in tre stanze, e mio zio cerca di mantenere tutti con un modesto stipendio. E adesso gli stessi personaggi che hanno istigato la violenza che ha distrutto la nostra casa e bruciato i nostri campi, ci verrebbero convincere a tornare. Tu cosa faresti? Io nella Rift Valley non ci tornero’ mai piu’.”

Eppure il Kenya ha bisogno delle voce, dell’ immaginazione, della creativita’ dei giovani se vogliamo uscire da questo clima pesante di sfiducia e di rassegnazione, di totale mancanza di credibilita’ dei leader. Devono essere i giovani a fare emergere il lato piu’ bello di questa straordinaria gente, e aiutare tutti a credere nella giustizia, nella pace e nelle convivenza costruttiva delle decine di popoli qui vivono.

Finalmente la chiesa si sta muovendo e cooperando con altri per aiutare la ricostruzione. Sabato prossimo, 3 maggio, alcuni istituti missionari, la Commissione Giustizia e Pace delle Diocesi di Nairobi, hanno delegato una gruppo di giovani, fra i quali Africa Peace Point e Koinonia Community ad organizzare un Forum di giovani che sia un’ opportunita’ di riconciliazione per giovani di tutte le fedi e di tutti i popoli del Kenya. Si terra’ vicino alla Shalom House, scelta importante perche’ vicina a Kibera, che e’ stata al centro delle violenze scoppiate a Nairobi, e i principali organizzatori sono stati i nostri Michael Ochieng e Esther Kabugi.

Ho chiesto ad Esther che cosa si propone questa giornata. “Mentre la visione e’ di promuovere la costruzione di un Kenya unito, l’obiettivo immediato e’ di avviare questo processo offrendo ai giovani un’opportunita’ di  auto-espressione. Un momento in cui si possa esprimere il proprio dolore e rabbia per quello che e’ successo, ma con un’ apertura verso la speranza e la ricostruzione. Vorremmo parlassero soprattutto  i giovani che hanno sofferto ma che hanno anche saputo reagire contro l’ onda di tremenda violenza che quasi ha travolto il nostro paese”.

Fra i prossimi passi di questo processo ci sara’ anche un pellegrinaggio a piedi, che attraversera’ le zone rurali che sono state il teatro delle violenze piu’ drammatiche, e si concludera’ a Namugongo, in Uganda, nel santuario del luogo dove sono stati uccisi i Martiri d’ Uganda.

Metto qui sotto il poster del Forum del 3 maggio, nel caso qualcuno volesse partecipare… E vi chiedo una preghiera perche’ non piova.

 

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Colloqui di Pace in Uganda

Un giornalista del settimanale The East African  mi ha posto una domanda sulla situazione Ugandese. Ecco la domanda e la mia risposta.

D. Pensa che i colloqui di pace in Uganda possano essere salvati? Se si, cosa dovrebbe fare il governo Ugandese, la comunita’ internazionale e lo LRA per salvare i colloqui da un collasso totale?

R. Certamente la comunita’ internazionale deve fare il suo meglio per far finire una volta per tutte le sofferenze della gente del nord Uganda. Ma potrebbe essere meglio trovare una strada per ricominciare con altri negoziati, in fretta.

L’attuale delegazione dello LRA e’ completamente squalificata. Non rappresenta l’ LRA, e alcuni membri sono quasi certamente un’ infiltrazione del governo Ugandese. E’ facile immaginare che se anche firmassero un accordo, tale accordo non sarebbe onorato.

La forza militare di Kony e’ al suo livello piu’ basso, ma ci sono altre forze che si stanno riorganizzando e c’e’ il grande pericolo che quando un accordo con Kony e lo LRA fosse firmato dal governo Ugandese, altre organizzazioni ribelli potrebbero nascere. Questi nuovi ribelli non avranno molto probabilmente le motivazioni “visionarie” di Kony, ma un approccio molto piu’ pragmatico, piu’ focalizzato sui diritti degli Acholi, cosi come gli Acholi li percepiscono. Cio’ fa che raggiungere un accordo in tempi veloci sia molto importante ma deve essere un accordo che tenga in considerazione le motivate rivendicazioni degli Acholi per evitare che il malcontento si esprima di nuovo in violenza armata. Pensare che sconfiggere lo LRA militarmente sia la fine della questione sarebbe una pericolosa illusione..

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