Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

I Need the Others

In the early months of this year, young people I knew and had previously taught the basic principles of Christianity were going around in Riruta, brandishing slashers and chanting hate slogans against certain people they perceived as belonging to a different community. It was unfortunately a common sight in Nairobi, especially in the poorer neighbourhoods, where an irresponsible and vicious campaign against “them” found fertile ground in the widespread lack of hope for a better future, and sometimes outright desperation. A very legitimate aspiration and request for social justice had been manipulated and turned into hatred for the “others”.

Now, normality seems to be back. Dozens of meetings, celebrations and festivals have been held around the theme of peace, headlined with such slogans as “Youth for Peace” and “Nyama Choma for Peace”. Yet today, we cannot pretend: there are too many desperate young people who are still ready to return to the streets, to loot, to kill and be killed, as long as they find somebody to incite them or promise a reward. They are culprits and victims – both at the same time – of a society where law and order are too often allied with injustice and corruption, and we are scared of the evil forces they have inside them. We know that given the chance, the same demons could be unleashed again. We are even more afraid because we are fully aware that the same negative forces are also present within each one of us. This is obviously not simply a Kenyan issue, it is a human issue. We have seen foreign workers being targeted in South Africa, while in Europe, especially in Italy, public opinion has been manipulated into seeing the foreign immigrants as the root cause of all problems of insecurity and crime.

We are all susceptible to manipulation, especially in cases where the “others” are depicted as a threat to “me”, “my identity” and “my possessions”. The “others”, we are told, want “my home”, “my land”, and “my women”. They want to crush my very “self”, taking from me the values that give consistency and certainty to “my life”.

We are all very sensitive to this kind of talk, and vulnerable because it touches us at the deepest, innermost self, and can elicit an instinctive, unreasoned reaction.

This is the basic “clash of civilizations” that we face today: either we choose to close ourselves into our personal, tribal, cultural, national or religious identities, rejectin interreaction with the others, or we make a conscious effort to open up to new ways of reciprocal acceptance, tolerance  and collaboration. It is a choice between a civilization of exclusion or a vision of inclusion, based on all that is common to human beings.

Kenya has more than its fair share of bigots and fanatics, but the proof that this is a universal problem is in the fact that the two opposite visions have been clearly summarized by two European intellectuals, both French. They looked at their own society a few decades back, and while  Jean-Paul Sartre in his play No Exit wrote the famous line “L’enfer, c’est les autres”, or “Hell is other people”, the theologian Michel de Certeau wrote: “The other is the one without whom living is no life”.

There is no need for me to say that I agree with de Certeau. My Christian faith teaches me what I have been trying to teach to the youngsters of Riruta, “Love your neighbor as you love yourself,” and in the Sermon of the Mount, Jesus tells me that a positive, loving relationship with the “others” is the only path to reach and see God. How could I ever live without the “others” and the “Other”?

Il Tempo

Ogni giorno mi riprometto di scrivere qualcosa, e mentre mi muovo in auto per visitare varie persone nelle nostre case mi vengono in mente mille idee. Pi mi manca sempre il tempo, anche se ogni giorno succedono cose belle e meno belle che sarebbe interessante riportare.

Ieri abbiamo avuto alla Shalom House un incontro che speriamo sia il primo di una lunga serie. L’ idea, del team di APP, e’ di avviare un dialogo per pace e riconciliazione a livello nazionale, ma che coinvolga effettivamente la base. Perche’ non sembri un modo per APP di monopolizzare un discorso abbiamo coinvolto tutti quelli che lavorano per la pace in Kenya, ed e’ venuta un’ ottima rappresentanza delle associazioni piu’ serie e attive, Anche il Ministro della Giustizia, Martha Karua, ha mandato una sua rappresentante, impedita lei stessa a partecipare perche’ impegnata in un raduno straordinario del Consiglio dei Ministri. Si e’ parlato di avviare un National Institute for Peace (NIP, Istituto Nazionale per la Pace). Come sempre e dappertutto il problema piu’ serio e’ collaborare, tutti vogliono avere l’ esclusiva. Vedremo. L’ impegno da parte di Koinonia e di APP non manca. E’ che a me mance sempre piu’ il tempo. Davvero il tempo e’ grazia, e non dobbiamo lasciarcelo sfuggire tra le mani senza usarlo per pensare il bene, fare il bene, pregare il bene.

E cosi son giorni e giorni che vorrei scrivere qualcosa sullo straordinario libro di Muhammad Yunus che sto leggendo, ma non riesco mai a trovare il tempo.

Un consiglio: per leggere qualcosa di arricchente visitate il sito di Arnoldo, il cui link e’ qui a sinistra.

Zambia in Scozia

Da parecchi anni faccio il pendolare fra Kenya, Zambia, Sudan e Italia. In questi giorni sono uscito dal solito percorso ed ho appena concluso una settimana in una zona della Scozia rurale, piu’ precisamente a Lochgilphead e dintorni. Ci son venuto per essere insieme ai ragazzi di Mthunzi (Lusaka) che erano qui gia’ da tre settimane, offrendo workshops e spettacoli di musica e danze africane in scuole e teatri, e cantando in diverse chiese durante celebrazioni liturgiche.
Sono arrivato senza che se lo aspettassero, ed hanno improvvisato uno show di benvenuto sulla riva del Loch Gilp (foto qui sotto).
Personalmente ho riprovato l’importanza di incontrare nuove persone e nuove culture, mentre ancora una volta i ragazzi hanno dimostrato di essere i migliori promotori di se stessi e delle attivita’ di Koinonia.
Giovedi pomeriggio eravamo ad Oban, una piccola cittadina sul mare. C’erano, nell’aula magna della scuola dove dovevano fare lo spettacolo, un preside evidentemente preoccupato dall’aver dato il permesso di esibirsi a quel gruppo di ragazzi africani con tre vecchi tamburi, e una ventina di studenti dall’aria annoiata sparpagliati sulle 250 sedie… probabilmente obbligati a star li per punizione dopo la fine dell’orario scolastico. Si aspettavano una delle solite esibizioni di routine di gruppi folkloristici. Ma man mano che i ragazzi di Mthunzi hanno incominciato a cantare e ballare le loro composizioni, gli studenti uscivano di corsa a chiamare gli amici. Vedevamo dalle finestre gli studenti che gia’ erano saliti in bicicletta tendere l’ orecchio, fermarsi e appoggiare la bicicletta al muro ed entrare; chi aveva gia’ addentato un panino metterselo in tasca e rientrare precipitosamente. Un’ora dopo non c’era piu’ neanche posto in piedi e lo spettacolo e’ terminato con un’ ovazione e ripetute richieste di bis. E il preside entusiasta che diceva “So bene che i ragazzi son capaci di far tanto rumore, ma di sentirne quindici fare cosi tanto rumore positivo, armonioso ed entusiasmante non mi era mai capitato.”
I quindici sanno di lanciare un messaggio forte, un messaggio di cui sono convinti. E torneranno in Africa con il desiderio di far crescere il loro paese negli aspetti positivi che hanno visto in Europa, ma senza rinunciare ad essere africani.
Gli amici scozzesi dal canto loro, sono stati di un’accoglienza straordinaria. I ragazzi sono stati sempre con famiglie che li hanno ospitati e coccolati. Che in tutta sta storia ci sia lo zampino di David Livingstone, il missionario scozzese che e’ stato il primo europeo, almeno nei tempi moderni, a fare turismo in Zambia?
Da parecchi anni faccio il pendolare fra Kenya, Zambia, Sudan e Italia. In questi giorni sono uscito dal solito percorso ed ho appena concluso una settimana in una zona della Scozia rurale, piu’ precisamente a Lochgilphead e dintorni. Ci son venuto per essere insieme ai ragazzi di Mthunzi (Lusaka) che erano qui gia’ da tre settimane, offrendo workshops e spettacoli di musica e danze africane in scuole e teatri, e cantando in diverse chiese durante celebrazioni liturgiche.
Sono arrivato senza che se lo aspettassero, ed hanno improvvisato uno show di benvenuto sulla riva del Loch Gilp, c’e’ una foto qui sotto.
Personalmente ho riprovato l’importanza di incontrare nuove persone e nuove culture, mentre ancora una volta i ragazzi hanno dimostrato di essere i migliori promotori di se stessi e delle attivita’ di Koinonia.
Giovedi pomeriggio eravamo ad Oban, una piccola cittadina sul mare. C’erano, nell’aula magna della scuola dove dovevano fare lo spettacolo, un preside evidentemente preoccupato dall’aver dato il permesso di esibirsi a quel gruppo di ragazzi africani con tre vecchi tamburi, e una ventina di studenti dall’aria annoiata sparpagliati sulle 250 sedie… probabilmente obbligati a star li per punizione dopo la fine dell’orario scolastico. Si aspettavano una delle solite esibizioni di routine di gruppi folkloristici. Ma man mano che i ragazzi di Mthunzi hanno incominciato a cantare e ballare le loro composizioni, gli studenti uscivano di corsa a chiamare gli amici. Vedevamo dalle finestre gli studenti che gia’ erano saliti in bicicletta tendere l’ orecchio, fermarsi e appoggiare la bicicletta al muro ed entrare; chi aveva gia’ addentato un panino metterselo in tasca e rientrare precipitosamente. Un’ora dopo non c’era piu’ neanche posto in piedi e lo spettacolo e’ terminato con un’ ovazione e ripetute richieste di bis. E il preside entusiasta che diceva “So bene che i ragazzi son capaci di far tanto rumore, ma di sentirne quindici fare cosi tanto rumore positivo, armonioso ed entusiasmante non mi era mai capitato.”
I quindici sanno di lanciare un messaggio forte, un messaggio di cui sono convinti. E torneranno in Africa con il desiderio di far crescere il loro paese negli aspetti positivi che hanno visto in Europa, ma senza rinunciare ad essere africani.
Gli amici scozzesi dal canto loro, sono stati di un’accoglienza straordinaria. I ragazzi sono stati sempre con famiglie che li hanno ospitati e coccolati. Che in tutta sta storia ci sia lo zampino di David Livingstone, il missionario scozzese che e’ stato il primo europeo, almeno nei tempi moderni, a fare turismo in Zambia?

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Giustizia e pace, cioè chiesa

Le comunità cristiane e le gerarchie sono impegnate nella costruzione di una società più giusta e riconciliata. E quando sbagliano, com’è accaduto di recente in Kenya, sono pronti a fare ammenda. È giusto, perciò, che il Sinodo sia incentrato su questi temi.

Il tema scelto da Benedetto XVI per il secondo Sinodo africano (ottobre 2009) è certamente azzeccato: “La chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace”. Mai come oggi questi tre valori appaiono di capitale importanza per l’intero continente. La chiesa sente di avere non solo il diritto di proporli all’attenzione di tutti, ma anche l’autorità morale per dire la sua al riguardo. Poche altre istituzioni africane possono vantare uno “stato di servizio” paragonabile a quello della chiesa in simili questioni. E ciò non è dovuto solo alle sue dichiarazioni ufficiali, ai trattati di teologia, ai seminari e simposi indetti sull’argomento, ma anche – e soprattutto – al sudore e al sangue di migliaia di fedeli e comunità che hanno profuso energie, offerto amore e, in alcuni casi, sacrificato la propria vita per costruire una società più giusta, riconciliata e rappacificata. Anche a livello di gerarchie, notevoli gli sforzi compiuti. Basti pensare alle azioni e alle prese di posizione delle conferenze episcopali di Mozambico, Sudan, Rd Congo e Nord Uganda.
Particolarmente illuminante è il caso Kenya dopo le violenze innescate dalle elezioni presidenziali del 27 dicembre 2007. I vescovi cattolici (ma anche i responsabili delle altre denominazioni cristiane) sono stati colti di sorpresa dallo scoppio delle rivolte e sono apparsi del tutto incapaci di svolgere un ruolo guida. In quelle lunghe settimane di totale confusione e di scontri, invece, folti gruppi di semplici fedeli hanno saputo fare la cosa giusta: hanno invitato alla pace, raccomandato la riconciliazione e offerto ospitalità e assistenza a migliaia di senzatetto e feriti.
Oggi, otto mesi dopo, decine di migliaia di persone vivono ancora in campi per sfollati, condannati all’odiosa condizione di “rifugiati in patria”. Mentre il governo di coalizione occupa il suo tempo a gestire la routine amministrativa e a superare alla bell’e meglio le periodiche mini crisi politiche, questa gente è dimenticata.
In verità, l’intera faccenda dei profughi è stata relegata in fondo alla lista delle preoccupazioni dei politici appena la polvere degli scontri interetnici (1.500 vittime e 350mila sfollati) si diradò. L’assillo dei grandi era di giungere al più presto un accordo per un governo di colazione. Che è nato mastodontico: guidato dal presidente, Mwai Kibaki, e dal leader dell’opposizione, Raila Odinga, il nuovo gabinetto conta 42 ministri e 52 vice ministri. Stampa nazionale e organismi della società civile l’hanno subito definito «malato di elefantiasi» e «costosissimo».
Impazienti di mettere in moto la complicata macchina amministrativa, i due leader si sono affrettati a varare un avventato piano di rimpatrio degli sfollati. A nulla sono valsi gli appelli di alcuni parlamentari perché si esaminassero a fondo i fattori che avevano portato a uno spargimento di sangue senza precedenti. Kibaki e Odinga hanno inviato automezzi militari per riportare gli sfollati alle loro case. E la televisione ha dato loro una mano: per giorni, i telespettatori hanno visto immagini di gente bramosa di saltare sui camion, di mamme e bambini che venivano aiutati a salire sugli autocarri, di distese di tende della Croce Rossa ormai deserte… I volti sorridenti sui teleschermi erano messaggi di speranza e, per un breve momento, si pensò che l’operazione fosse un successo. Subito, però, sono cominciate a circolare lamentele: gli sfollati stavano lasciando i campi di raccolta dietro intimidazioni. Asserzioni pesantissime, rimaste senza conferma fino al momento in cui l’associazione Medici senza frontiere ha fornito prove inconfutabili.
A fine luglio, la Croce Rossa stimava a 70mila le persone rimaste nei campi e asseriva che molte di esse erano fatte oggetto di minacce di morte da parte degli abitanti locali «alquanto etnocentrici».
Mentre un significativo risarcimento agli sfollati rimaneva – e tuttora rimane – di là da venire, il primo ministro Odinga, appoggiato da parlamentari della provincia della Rift Valley, ha dato il via a un’accesa controversia, suggerendo di concedere, «in nome della riconciliazione nazionale», un’amnistia generale a tutti i sospettati di violenze e omicidio, arrestati dopo i disordini post-elettorali. Il presidente Kibaki ha rigettato la proposta. La diversità di vedute in tema di amnistia è data dal fatto che la grande maggioranza degli arrestati proviene dalla Rift Valley, roccaforte del Movimento democratico dell’arancia (Odm), di Odinga, mentre le vittime sono state per lo più originarie della Provincia centrale e appartenenti al gruppo etnico kikuyu, quello del presidente. Così, la disperata situazione dei rifugiati è gradualmente scemata dall’attenzione pubblica, per essere riesumata – di tanto in tanto, e sempre ad arte – per motivi politici.

La buona strada
Ma la chiesa ha mantenuto il suo impegno per gli sfollati: ha offerto assistenza alle vittime e rinnovato i suoi sforzi per la riconciliazione e l’educazione alla pace. Le piccole comunità cristiane si sono attivate per promuovere la tolleranza etnica prima, durante e dopo i disordini. Il Consiglio dei Superiori maggiori degli istituti religiosi s’è preso l’impegno di identificare le radici degli scontri etnici e di suggerire via d’uscita dall’empasse. Tra le proposte: impegno del governo a diminuire la povertà, nuova costituzione, decentramento del potere politico, creazione di tribunali speciali incaricati di cercare la verità dei fatti e ristabilire la giustizia, maggiore responsabilità dei mezzi di comunicazione. La diocesi cattolica di Eldoret – al centro degli scontri interetnici – s’è distinta nel provvedere alloggio, cibo, vestiario e medicine a migliaia di senza tetto accampati nell’ampio cortile antistante la cattedrale dedicata al Sacro Cuore. Tutt’oggi, il vescovo, Cornelius Korir, e l’intera comunità diocesana sono impegnati in campagne di pace e riconciliazione per mobilitare la popolazione contro ogni forma di tribalismo.
Il cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi e presidente della Conferenza episcopale kenyana, il 16 giugno ha fortemente criticato l’appello fatto da alcuni politici per un’amnistia generale, spiegando che «l’impunità è da troppo tempo un problema che attende una soluzione».
Alcune istituzioni cattoliche, sotto il coordinamento della Conferenza episcopale e con la partecipazione di numerose personalità nazionali provenienti dai più svariati ambiti sociali, ha varato un’iniziativa che ha lo scopo di promuovere e facilitare il processo di guarigione e riconciliazione tra le diverse comunità etniche. L’attenzione verrà data alle aree e alle città più colpite: Nairobi, Nakuru, Kericho, Kitale, Eldoret, Kisumu e Kisii.
Le chiese cristiane e i loro leader hanno commesso errori, il più grave dei quali è stata l’incapacità di cogliere il livello di odio tribale raggiunto durante la campagna elettorale e di avvertire la popolazione. Sta di fatto che, una volta ritornata la calma, tutte le chiese, cattolica inclusa, hanno pubblicamente riconosciuto le proprie colpe e chiesto perdono alla nazione «per la nostra mancanza di oculatezza e di guida». Cosa che si sono guardati bene dal fare i leader politici che, dopo aver incitato i propri sostenitori alla violenza, siedono oggi in parlamento o occupano posizioni di governo, del tutto dimentichi del destino degli sfollati.
Anche il documento finale della 16a Assemblea plenaria dell’Amecea (riunisce i membri delle Conferenze episcopali dell’Africa orientale), tenutasi a Lusaka (Zambia) dal 27 giugno al 7 luglio, sembra aver fatto tesoro della lezione kenyana. Il testo è chiaro e concreto, con un taglio decisamente “politico” (nel senso migliore del termine). I vescovi, tra le altre cose, hanno deliberato di stabilire regolari contatti (attraverso uffici di collegamento) tra le chiese e i parlamenti nazionali in vista di un costante dialogo su questioni costituzionali e legislative. Forte anche la richiesta di una presenza delle chiese (con la qualifica di osservatori) a livello di Unione africana e di altri organismi regionali.
I vescovi hanno sollecitato tutte le istituzioni cattoliche «a dare priorità alla formazione di leader a tutti i livelli della società» e chiesto ai fedeli laici, forti delle rispettive competenze, non solo «di provvedere dati e analisi scientifiche tali da informare adeguatamente le chiese e di metterle nella posizione d’intervenire tempestivamente», ma anche di «suggerire strategie e sviluppare meccanismi di monitoraggio e di valutazione dell’efficacia dei vari piani pastorali».
Nonostante le non poche debolezze, vanno riconosciute alla chiesa africana (grazie soprattutto al suo vivace laicato) una fondamentale coerenza, una capacità di sguardo prospettico e una prontezza d’impegno tra la gente in termini d’interventi caritativi rivolti a tutti, a prescindere dal tipo di affiliazione, e una decisa volontà di lottare per la creazione di uno stato di diritto e spingere i governi a orientare le proprie politiche verso la protezione dei gruppi più deboli e vulnerabili. Tutto questo fa sì che la chiesa «continui a godere di una grande credibilità presso le popolazioni africane» (Lineamenta 6). Per molti, «essa resta l’unica realtà che funziona ancora bene e permette alle popolazioni di continuare a vivere e sperare in un futuro migliore» (ib.). C’è solo da augurarsi che il secondo Sinodo contribuisca a renderla ancora più acuta nella sua comprensione della realtà e più efficace nei suoi interventi.

L’ ultimo pensiero di Shiru

Il quotidiano AVVENIRE, nel quadro di una iniziativa intitolata “Le capitali del mondo, racconti dell’ estate” mi ha chiesto il mese scorso di scrivere un racconto che aiutasse a capire un aspetto della vita di una citta’ africana. Ho scelto di scrivere su Nairobi, ed il racconto e’ stato pubblicato oggi.

 

Shiru raccolse le ultime forze che le rimanevano e riprese a camminare. Non conosceva bene quella zona di Kibera, ma sapeva che, da qualche parte, c’era un grande mucchio di spazzatura. Lì avrebbe potuto rifugiarsi per passare la notte tranquilla. Ormai era buio da qualche ora; faceva freddo e scendeva una pioggerellina leggera ma insistente. Il vento si infilava gelido sin dentro le ossa. La stradina, ripida e fangosa, si intrufolava tra due file di baracche di legno e lamiera; era così stretta e sconnessa che a volte, anche lei, per quanto piccola e minuta, faceva fatica a passare. Le porte delle baracche erano chiuse e la gente dormiva da un pezzo. Shiru sapeva che se avesse cercato di rifugiarsi sotto una tettoia, in un angolino riparato, gli abitanti avrebbero subito sospettato che volesse derubarli. E avrebbero scatenato una caccia all’uomo contro di lei. «Neppure i topi vengono trattati così», pensò Shiru. Sentiva che lei valeva meno di un animale.

Era solo una bambina di strada che non valeva niente, che non era nessuno. Una bambina che molto tempo prima era scappata da una mamma, capace solo mendicare e ubriacarsi.

Quella sera, si era beccata una bastonata alla gamba sinistra e ogni passo era una pena. Di tanto in tanto, senza fare rumore, per non farsi scoprire, si appoggiava alla parete di una baracca, aspettando che il dolore passasse. Ma il dolore più forte era alla testa, che sanguinava. L’avevano sorpresa con altre amiche, mentre cercavano di rubare da una bancarella sulla Ngong Road. Erano tutti bambini e bambine di strada come lei, dai dieci ai quattordici anni, spinti dalla fame e dalla disperazione. Speravano di trovare un po’ di pane e salsicce, ma il proprietario, che dormiva sul retro, le aveva scoperte e si era scagliato su di loro come una furia. Con un bastone li aveva picchiate senza pietà. I più veloci erano scappati in tutte le direzioni, ma lei e Shiko’ erano troppo impegnate a riempirsi la bocca col pane secco trovato su uno scaffale, che si erano fatte prendere. Nella fuga, Shiru e Shikò si erano perse di vista.

Dov’era, dunque, quel Dio buono e padre di tutti, di cui ogni tanto parlava suor Elisa, dopo aver distribuito un po’ di pane e latte al loro gruppo di bambine? Suor Elisa era buona e dolce, ma le aveva ingannate. Anche quel Dio doveva essere un padre egoista e cattivo, che si preoccupava di mangiare lui primo, invece di occuparsi dei suoi figli. E poi era lui, quel Dio, che mandava in quei giorni di fine luglio quel tempaccio gelido, che inaspriva la vita in strada e le sofferenze delle bambine. «Altro che Dio!», pensò Shiru. E intanto non vedeva l’ora di trovare quella discarica che aveva notato mentre passava di lì qualche giorno prima. Ormai doveva essere vicina.

È vero, la spazzatura puzzava, ma bastava scavarla un poco e ci si poteva ricavare un “nido” tiepido. Shiru pensava che ci si sarebbe accucciata, coprendosi con un po’ di carta e sacchetti di plastica per proteggersi dalla pioggia. «Domani – pensava – sarò di nuovo forte e capace di trovare qualcosa da mangiare…».

Mangiare, mangiare, mangiare… l’ossessione di sempre! Poi, le venne un pensiero improvviso: «Forse Dio è lì, nella spazzatura che mi proteggerà; è lì, in tutto quello che i ricchi gettano via e che i carretti scaricano vicino alle case dei poveri…Li trovo sempre qualche rifiuto da mangiare e il caldo che mi protegge».

Il dolore per la ferita alla testa era ormai insopportabile e usciva ancora un po’ di sangue. Finalmente, dietro l’ultima fila di baracche e un rigagnolo puzzolente, trovò la discarica illegale. Era un posto orribile, ma era pur sempre un rifugio perfetto per una bambina come lei. Così pensava Shiru, mentre si preparava una “tana” in mezzo all’immondizia, e ci si intrufolava, coprendosi con un gran mucchio di sacchetti di plastica.

«Ehi, tu, che fai? Non rubare la nostra plastica!», le urlò un bambinetto molto più piccolo di lei, sbucando da un altro buco, dove si erano rifugiati altri bambini. «Quella plastica è nostra, domani dobbiamo andare a venderla». «Beh, lasciamela usare almeno stanotte per proteggermi dalla pioggia», disse Shiru. Nessuna reazione…

«Finalmente in pace!», si disse tra sé e sé la bambina. Ma il dolore non la lasciava dormire. E poi pensava a Kavaya, che lo scorso marzo era morto, buttato giù da un autobus. Era salito su un matatu e mentre si frugava in tasca per cercare qualche spicciolo, era stato spinto fuori dalla porta dal controllore. Che gli aveva gridato: «Fuori di qui chokora!». Chokora, ovvero “spazzatura”; è così che chiamano i bambini di strada a Nairobi… Kavaya aveva battuto la testa sulla strada. I suoi amici avevano capito che era grave e, prendendolo per le braccia e i piedi, lo avevano portato all’ospedale. Ma non ce l’aveva fatta; era arrivato già morto, un pupazzo disarticolato e sporco. Shiru aveva pianto, perché Kavaya a volte era buono e la proteggeva.

Davvero, ma dov’è questo Dio buono?

Anche il fratello maggiore di Shiru era morto, poche settimane prima, durante gli “scontri tribali”. Era grande e forte, ed era stato assoldato per gridare slogan e tirare sassi contro la polizia. Trecento scellini al giorno. Una piccola fortuna per lui che, lavorando da muratore alla giornata, ne prendeva al massimo centoventi. La prima sera aveva comprato quattro birre, di quelle vere, nelle bottiglie di vetro, e si era ubriacato come fanno i ricchi, non con quella porcheria del khumi-khumi. Poi, nei giorni successivi, comprava da mangiare: pane, latte, uova, carne, e li condivideva con il piccolo gruppo di disperati con cui stava in strada.  Ma gli scontri non erano durati a lungo e, prima che finissero, per Njaro era finita per sempre. La polizia aveva sparato e una pallottola gli aveva bucato la pancia, ed erano uscite tutte quelle cose che ci sono dentro, come quando si ammazza un capretto.

Al funerale, poche ore dopo, nell’immenso cimitero, fra cumuli di terra smossa, c’erano solo loro, i bambini di strada, a seguire la sgangherata bara di Njaro. All’ultimo momento era venuto anche un “padri” a dire una preghiera e dare una benedizione. Ma che gliene poteva importare a Dio di quel povero corpo? Il “padri” era un muzungu, un bianco; era giovane e sembrava quasi impaurito di trovarsi in loro compagnia.  Aveva detto delle cose giuste: che Dio non poteva benedire questa città, che condanna i suoi figli a vivere nella miseria; che non dà loro alcuna educazione; che insegna la violenza e poi li scaglia l’uno contro l’ altro. Una citta’ – aveva detto – che nutre i suoi figli con l’ immondizia e poi li lascia morire come immondizia. Dio non avrebbe lasciato che le cose continuassero ad andare così per sempre; sarebbe intervenuto a sostenere quelli che lavoravano per il bene e la giustizia. Belle parole…. Ma erano solo parole.

Shiru, invece, non aveva bisogno di parole; aveva bisogno di protezione e di affetto. Njaro la proteggeva quando i ragazzi più grandi volevano “giocare” con lei, e le dava sempre le cose più buone da mangiare.

Pensando ai gesti gentili di Njaro, in una “tana” scavata nella discarica di Kibera, Shiru si addormentò sorridendo, nonostante la testa le facesse ancora molto male.

Pensò che davvero Dio doveva essere lì e la coccolava nel tepore di quell’immondezzaio….


Viva Madiba!

Oggi e’ il compleanno di Nelson Mandela. L’ esagerata adulazione e attenzione mediatica che lo hanno circondato non sono riusciti a farcelo diventare antipatico. La sua umanità’, il suo sorriso, le sue doti di uomo di pace, di politico e di statista sono cosi grandi da farne una figura gigantesca di fronte ai piccoli personaggi suoi contemporanei. “Ci fosse un Mandela in Sud Sudan!”  ho sentito tanti Sud Sudanesi sospirare in questi anni dopo la firma dell’ accordo di pace e l’avvio di un governo autonomo regionale a Juba. Quest’anno anche in Kenya molti hanno sognato che dalle ceneri degli scontri nascesse un Mandela. Se c’e’, non e’ ancora visibile.

In Kenya sembra di essere tornati ai vecchi tempi di Daniel arap Moi. Il governo di Grande Coalizione zoppica, Raila si sta accorgendo che e’ molto più facile fare l’ opposizione che governare, quasi ogni giorno i giornali denunciano un nuovo caso di corruzione che coinvolge personaggi di alto profilo, e ogni giorno si va avanti senza che si pongano rimedi seri.

Ieri sono stati pubblicati i risultati di una inchiesta condotta da Transparency International all’inizio di maggio, intervistando 2,400 persone, con criteri scientifici. Hanno compilato un Kenya Bribery Index, da cui risulta che le istituzioni percepite dai cittadini come le più corrotte sono: prima, di molte lunghezze, la polizia; seconde, le autorità’ locali; terzo, il Ministero della Terra; quarto, il Dipartimento dell’ Immigrazione; quinte, le università’ private (forse questo spiega perché’ noi troviamo tanti ostacoli a farci registrare come istituto a livello universitario); seste, le amministrazioni Provinciali; e cosi via, fino al ventesimo posto, dove ci sono le università pubbliche.  Il 93% di coloro che hanno avuto a che fare a qualsiasi livello con la Polizia si sono trovati in una “situazione di corruzione”. In totale, il 45% degli intervistati ha detto di aver dovuto pagare una bustarella per poter ottenere un servizio in una istituzione pubblica, mentre lo scorso anno le percentuale era del 29%. La conclusione? “La maggioranza dei Keniani e’ convinta che la corruzione sia uno dei maggiori problemi del paese, ed e’ diffusa la percezione che sia aumentata negli ultimi quattro anni.”

Per Ascoltare l’ Africa

Per chi ancora non lo sapesse, e’ possibile ascoltare 24 ore su 24 AFRIRADIO, una nuova web radio interamente dedicata all’Africa. Musica, informazione e intrattenimento di qualità sono i principali elementi che caratterizzano il flusso radiofonico, che concentra al mattino la fascia informativa con un programma di approfondimento quotidiano al quale subentrano le notizie. Gli utenti potranno così ascoltare la web radio 24 ore su 24 e intervenire direttamente in alcuni programmi radiofonici grazie alla chat e all’invio di email, mentre le radio avranno la possibilità di scegliere e acquistare i programmi di loro interesse.

Ideatori di questo progetto sono i missionari comboniani di Verona e, in particolare, lo storico mensile Nigrizia e il suo settore Multimediale (Nigrizia Multimedia). Si tratta di una vera e propria rivoluzione nella comunicazione comboniana sull’Africa – fino ad oggi limitata al mensile e al suo sito web (www.nigrizia.it) – che nasce dalla volontà di promuovere il continente nelle sue diversità, valorizzandone le potenzialità.

”AFRIRADIO” si propone, dunque, di sovvertire gli stereotipi che vogliono il continente sinonimo di fame, malattie, guerre e miseria, proponendo invece un’immagine che rifletta la poliedricità di un territorio vasto ed estremamente diverso. Quanti, ad esempio, sanno che la Tanzania ha messo al bando già da mesi i sacchetti di plastica? O che il Sudafrica è all’avanguardia nella produzione di energia da fonti alternative?

Voce all’Africa, quindi, non solo con l’informazione, ma anche attraverso la partecipazione degli africani in Italia, coinvolti direttamente nel progetto. “Afriradio – spiega padre Giuseppe Cavallini, Coordinatore del Centro Comboni Multimedia e Direttore del Museo Africano di Verona – si pone, senza presunzione alcuna, come fonte di informazione alternativa agli apparati mediatici che promuovono interessi economici e politici di parte e non si preoccupano di offrire all’opinione pubblica una informazione che sia anche formazione critica, voce dei popoli dell’Africa e del Sud del mondo,  megafono di chi crede in una società in cui vengano promossi valori umani ed evangelici quali la solidarietà, l’accoglienza, il dialogo interculturale, l’incontro interetnico e il rispetto per le diverse tradizioni e fedi religiose”.

Per qualsiasi informazione:

Nigrizia Multimedia
Vicolo Pozzo 1, 37129 Verona
tel: +39 045 8092296  
email: direttore@nimedia.it
website: www.nimedia.it

Ancora Crisi, ma Waumini e Calcio Crescono

Il Kenya sta affrontando un’altra crisi. Fortunatamente crisi minore rispetto a quello che abbiamo visto succedere lo scorso gennaio, ma comunque sintomo significativo della malattia principale di questo paese, la corruzione. Le informazioni sono ancora insufficienti e il recente passato ci insegna che e’ imprudente dare giudizi affrettati, perché’ il bubbone che e’ scoppiato potrebbe avere radici oiu’ profonde e diverse dalle apparenze. Il ministro delle Finanze, Amos Kimunya, si e’ dimesso l’ altro giorno, sospettato di aver venduto un enorme albergo in centro citta’ a una compagnia libica per circa un terzo del valore reale. E sembra, il condizionale e’ d’ obbligo, che fra gli azionisti principalidella compagnia libica ci siano almeno due Keniani.

La scorsa domenica abbiamo celebrato il quinto anniversario dell’ inizio delle trasmissioni di Radio Waumini.  E’ una soddisfazione vedere che questa radio cattolica e’ diventata una presenza forte nel quadro complicato e tremendamente competitivo delle radio keniane. Parecchi di quelli che hanno iniziato questa  avventura con me e padre Martin, che ha preso il mio posto come direttore due anni fa quando mi sono ritirato, sono adesso in posizioni di responsabilità in altre radio. E questo non dispiace ne a me ne a Martin, anzi ci sembra un segno di grande successo. L’ ultimo e’ stato Antony Wafula, che ha cominciato con noi, ha fatto la gavetta come annunciatore di continuità’ ogni giorno feriale dalle 14 alle 19, e pochi mesi fa e’ stato assunto dalla radio governativa come direttore dei programmi di uno dei piu’ importanti canali.

Sono stati giorni di distribuzione di diplomi e attestati. Dopo i diplomi ai maestri Nuba, mi hanno chiamato, lo scorso venerdi, a Nairobi, a consegnare i diplomi a cento “calciatori di strada” che si preparano per la “Homeless World Cup” e poi domenica a sedici allenatori, a conclusione di un altro programma di formazione in informatica e sport che e’ stato voluto dal comune di Pisa e a cui ha partecipato anche l’ associazione Altropallone di Milano.

Siamo stati coinvolti nella “Homeless World Cup” perche’ l’ idea di un campionato mondiale di calcio di strada e’ nata nel contesto dei giornali di strada, e noi (Koinonia) pubblichiamo da gennaio dello scorso gennaio il primo giornale di strada del Kenya, The Big Issue Kenya. Abbiamo solo successivamente scoperto che a Nairobi esisteva gia’ una squadra di calcio degli “homeless” che aveva gia’ partecipato a due campionati mondiali, e la collaborazione e’ diventata sempre piu’ stretta, anche perche’ a capo della squadra c’e’ un ragazzo musulmano entusiasta, col quale e’ un piacere collaborare. Allora settimana scorsa Mohamed e il nostro Cosmas hanno organizzato un workshop di cinque giorni, finanziato da Unicef, dove si e’ fatta formazione tecnica e umana (prevenzione AIDS ed altro) di oltre cento giovani provenienti da tutti gli slum di Nairobi, e l’ultimo giorno si e’ conclusa con la nomina della squadra e allenatore che andranno a rappresentare il Kenya nella Homeless World Cup che si terra’ in Australia in dicembre. L’ anno prossimo la manifestazione si svolgerà’ a Milano. Parteciperanno 64 squadre da tutto il mondo, e ci saranno certamente anche i nostri 10 keniani: 8 giocatori perche’ il calcio di strada si gioca in sette piu’ una riserva, un allenatore e un dirigente. Gli amici de l’Altropallone saranno coinvolti anche in questo evento. Per maggiori informazioni potete visitare il sito www.homelessworldcup.org

I Nuba e Dio

La scorsa settimana ho visitato i Nuba, al centro del Sudan, in occasione della chiusura dell’anno scolastico nelle tre scuole che Koinonia con l’ aiuto di Amani e di altre associazioni  gestisce ormai da parecchi anni, due scuole elementari, ciascuna con quasi 700 alunni, e una scuola per maestri, residenziale.

Ovunque la cerimonia della consegna della pagelle. Nell’ istituto magistrale, dove ci sono alunni che provengono da distanze che si coprono in tre, quattro, cinque giorni di cammino, l’atmosfera e’ quella che si respira in tutto il mondo negli ultimi giorni di scuola, a meta’ fra gioia e malinconia: finalmente si torna a casa, ma non vedro’ più gli amici, fino a ottobre, e magari per molti anni a venire per chi ha completato il corso. Ormai ci sono diplomati del nostro istituto in tutte le scuolette dei monti Nuba, un’area vasta quanto l’ Austria.

I diplomati, che vivono in capanne auto costruite tutto intorno alle aule in mattoni che siamo riusciti a costruire negli ultimi anni, si sono preparati dei cappelli di carta che imitano nella forma quelli con cui si addobbano i laureati nelle universita’ inglese. Ma non sono comici, sono ragazze e ragazzi che per fare questi due anni di studi hanno fatto sacrifici enormi. Li rappresenta tutti una ragazza la cui mamma, incontenibile,  la porta in giro per mano e orgogliosamente la mostra a tutti, toccandosi la pancia e facendo a ciascuno un discorsetto in una delle mille lingue Nuba. Mi traducono: “Questa mia figlia che oggi ha ricevuto il diploma e’ cresciuta nel mio ventre, proprio questo ventre qui. Pensa che il commerciante arabo del nostro villaggio diceva che noi Nuba siamo stupidi come animali! Invece guarda qui questa mia figlia con il diploma in mano!”

L’ ultima sera sono assolutamente esausto. Al mattino la lunga cerimonia per la consegna dei diplomi ai maestri, discorso, poi la programmazione del prossimo anno scolastico, poi, dopo un pranzo veloce di riso e fagioli, via a piedi per Kerker, con Messa, consegna pagelle discorsi, programmi per il prossimo anno scolastico che prevedono lo spostamento della scuola verso la pianura sottostante, a Sarbule. Riusciamo a riavviarci verso la base, vicina al collegio dei maestri, che e’ gia’ tramontato il sole. Arriviamo nel buio piu’ completo, che sono quasi le 20.30,  e vedo che ci sono otto maestri che ci aspettano, perche’ avevo promesso che avrei concluso la loro giornata verso le 19 con una Messa. Le due cuoche stanno ancora preparando la polenta, nella capanna che funge da cucina. Mi siedo e mi pare di non avere piu’ la forza di alzarmi, sono ormai fuori allenamento… Mi sembra quasi una mancanza di rispetto celebrare un’ altra Eucarestia in queste condizioni, e invito i pochi presenti ad organizzare loro una preghiera di ringraziamento, mentre io resto in disparte.

Scelgono il brano della conversione di San Paolo. Si accende una torcia solo per fare la lettura poi si continua alla luce delle stelle. Il lettore e il commentatore parlano un inglese stentato, poi il predicatore decide di passare all’ arabo, e quando il traduttore fa fatica a trovare la parola giusta alcuni dei presenti offrono i loro suggerimenti. Dalla mia posizione vedo il profilo del predicatore sullo sfondo della Via Lattea. Quando commenta il momento della conversione di Saul grida “alleluia” e tutti, anche le cuoche dalla cucina, gridano esultanti “alleluia”.

Ed ecco, improvvisamente, Dio e’ qui. Una presenza solida, che si va viva nelle parole e nella presenza di questa gente buona e dignitosa. Una presenza che riempie tutto. Non c’e’ piu’ uno spazio vuoto, ci compenetra, siamo tutti uniti nel Tutto.

Intanto, poco a poco, sono arrivate una cinquantina di persone. Hanno visto la luce della mia torcia mentre scendevo dalla collina di Kerker, ed hanno fatto un bel pezzo a piedi, al buio, per venire a pregare insieme agli altri. Sono tutti giovani fa i 20 1e i 30 anni e quando mi offrono la pace sento fra le mie le loro mani callose di maestri-contadini.

Domani torniamo a Nairobi. Ancora una volta ho visto che la chiesa non e’ un tempio, la chiesa e’ fatta di gente che cammina e cerca Dio.

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Scontro o Solidarietà?

Scontro o solidarieta’?

La porta di Lampedusa si apre su un mare dove si stima che negli ultimi dieci anni siano perite diecimila persone tentando una difficile attraversata. E’, in un certo senso, un’opera incompiuta. Puo’ restare come un segno di pieta’ e un luogo di raccoglimento, o diventare un freddo monumento funebre come tanti, o allargarsi e diventare il simbolo di un’ Europa che si apre verso l’Africa, verso l’accoglienza e una solidarita’ nuova.
Stara’ a noi, negli anni a venire, costruire il suo significato.
Guardando questa porta, adesso, capiamo che la globalizzazione non e’ un’astrazione, non sono solo merci a basso prezzo che invadono il nostro mercato, non sara’, anche se noi lo vorremmo, una nostra nuova modalita’ per dominare il mondo. Sono persone che finalmente accedono alla consapevolezza di essere parte di un unico mondo, e vogliono essere responsabili della loro vita, una vita che sognano possa diventare piu’ umana, e per far questo sono disposti a venire in Europa a fare i lavori piu’ umili, a accudire ai nostri ammalati, a cucinare il nostro cibo, e a pulire le nostre citta’.
E capiamo che abbiamo bisogno di una rivoluzione nel modo a cui guardiamo alle cose. Il nostro mondo europeo e’ ormai un mondo piccolo, in tutti i sensi, e c’e’ al di la’ di questa porta un mondo piu’ grande che ci chiede di partecipare e di condividere. Gli altri non sono piu’ i “moretti” per i quali le nostre nonne o bisnonne davano una lira perche’ fossero battezzati con il nome di un loro caro, ma sono persone come noi, che vogliono che la loro dignita’ e i loro dirittti siano rispettati. Non possiamo piu’ pensare al nostro piccolo mondo come al centro dell’ universo, ma vediamo che c’e’ al di la dei nostri confini, che perdono sempre piu’ di significato, un nuovo grande mondo ribollente di vita. Chiudere questa porta vorrebbe dire chiudersi alla storia e al futuro.
L’ Europa ha incomiciato a capire che il diritto internazionale che ha costruito negli ultimi secoli, che nega la possibilita’ di interferire con gli affari interni di un paese diverso, anche se in questo paese e’ in atto una persecuzione o un genocidio, andava forse bene prima della globalizzazione. Adesso e’ superato.
Ma e’ gia’ anche superato il diritto di intervento umanitario, che l’ Europa sta elaborando sempre pensandosi come soggetto di questo diritto. Ora, di fronte ai drammi crescenti della fame e del disastro ecologico, viene presa dal panico e risponde alla crescente richiesta di solidarieta’ con promesse che non mantiene mai, come vediamo regolarmente durante gli incontri del G8, ritornando ai meschini interessi nazionali, e alzando barriere sempre piu’ alte.
Cosi, per un momento – e speriamo che sia un momento breve – l’ Europa , crede a chi percepisce e rappresenta lo straniero come una minaccia, come colui che vuole derubarci della “nostra roba” e della “nostra identita”, invece che come “colui senza il quale vivere non e’ piu’ vivere”.
Accentando l’altro non gli facciamo un favore, Aiutiamo noi stessi, evitiamo di diventare maschere, evitiamo di immedesimarci sempre piu’ in una identita’ immaginata che dovrebbe proteggerci dalle nostre insicurezze interiori, ma che e’ di fatto un’ identita’ statica e sterile che ci impedisce di crescere come persone umane e come societa’ E’ una tentazione che coinvolge tutti, anche una Chiesa che talvolta sembra preferire il porto sicuro delle antiche abitudini piuttosto che l’ avventura del mare aperto.
Ma i poveri si rifiutano di vivere in una miseria indegna della persona umana, vittime di una sfruittamento interno ed esterno, di guerre che che non capiscono e non vogliono, e vengono a cercare da noi il sogno dell’ “european way of life” che abbiamo alimentato con la nostra propaganda, stupidamente sicuri che il nostro modello di sviluppo fosse l’unico possibile. Cosi continuano a stimolarci per allargare i nosti orizzonti.
C’e’ chi in Europa crede di poter fermare con le leggi questa ondata di vita che viene ad abbracciarci. Fortunatamente per tutti noi, sono degli illusi. La legge non cambia la storia, anzi, quasi sempre la legge e’ costretta a seguirla, soprattutto quando si tratta di eventi epocali come le migrazioni oggi in atto.
Cosi chi in Europa tiene gli occhi aperti incomincia a capire che la solidarieta’ o diventa globale o non ha piu’ senso. Gli egoismi di classe e di nazione sono il linguaggio del passato. Quando ero bambino la scuola e un certo mondo di adulti cercavano di trasmetterci in tante forme la convinzione che gli austriaci erano il nemico storico per eccelleza. Oggi questo fa ridere, o fa pena. E’ bastata una generazione per far dimenticare pregiudizi che potevano sembrare eterni. Oggi i nostri ragazzi si sentono sempre di piu’ cittadini di un unico mondo e capiscono istintivamente – a meno che siano succubi di martellanti propagande – che la convivenza civile puo’ essere solo fondata su una solidarieta’ globale, altrimenti e’ solo un egoismo mascherato. Bush e i suoi amici saranno consegnati alla storia come sopravvisuti di un’era in cui nessuno piu’ si riconoscera’.
Sono fiero della mia cultura e della mia tradizione. Ma e’ proprio centrale alla grande cultura in cui sono nato il riconoscere in ogni persona prima di tutto la comune umanita’, fonte di dignita’ e diritti, e solo successivamente vedere le differenze. E accettarle come differenze che ci complementano, anzi, che mi creano e che mi danno vita, perche’ senza queste differenze non potrei essere me stesso.
Se facciamo nostra questa rivoluzione mentale, riguardando questa porta non la vediamo piu’ come un monumento ai morti, ma come un grande segno di speranza e di apertura per i vivi. Ci accorgiamo che non facciamo semplicemente memoria di quei poveri corpi in fondo al mare, li riconosciamo come persone che venivano a noi desiderosi di condividere la nostra comune umanita’. Essi, che hanno gia’ attraversato un’ altra porta, quella che si apre sull’ incontro con l’ Infinito, con con colui che e’ davvero e definitivamente l’ Altro, avevano capito cio’ che noi fatichiamo ad intravedere. Hanno aperto questa porta per noi.
Oggi, mentre voi contemplate questa porta sull’ Africa, io sono sui Monti Nuba, al centro del Sudan. Anche da qui e’ partita gente che senza aver mai visto una pozza d’acqua piu’ profonda di un metro, ha tentato di attraversare il grande mare, inseguendo il sogno di un lavoro, di poter mandare un aiuto ai genitori anziani o ai fratelli minori. Oggi alcuni dei loro corpi sono in fondo al mare che state guardando.
Io sto distribuendo il diploma di maestro elementare a circa cento giovani che hanno seguito un corso di due anni fatto qui e gestito da persone locali. Corso voluto dalle stesse organizzazioni che hanno promosso l’apertura della porta realizzata da Mimmo Paladino. Questa mi sembra possa essere la strada, quella esprimere la solidarieta’ andando ad incontrare gli altri la dove sono, per crescere insieme, nel rispetto di tutti. Questi giovani, ai quali e’ stata data l’ opportunita’ di una vita dignitosa tra la loro gente, non andranno ad ingrossare le file di che cerca di attraversare il mare. Questa strada la percorriamo non solo perche’ questo fa bene ai “poveri”, ma perche’ fa bene a noi. Qui dobbiamo venire, scalzi, in segno di rispetto per la terra sacra degli altri, per tornare ad imparare ad essere uomini tra gli uomini. La porta di Lampedusa e’ per un traffico a due direzioni.
La porta di Lapedusa diventa allora un invito a guardare lontano, e a guardare con speranza. Cominciamo a capire che non siamo alla fine della nostra civilta’. Siamo agli inizi di una nuova era, in cui vivere in solidarieta’ globale e’ la nuova dimensione.

La Porta di Lampedusa

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