Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

E Adesso?

Nel suo testamento spirituale, Don Lorenzo Milani si diceva sicuro che Dio lo avrebbe perdonato anche se qualche volta aveva corso il rischio di avere voluto più bene ai suoi ragazzi che a Lui. Quell’affermazione mi colpì. Poi, nel corso degli anni, quando ho cercato di fare alcune cose, cercando magari maldestramente di imitare Don Milani, mi sono reso conto di quanto questo rischio sia autentico.

Per questa ragione la brutta storia, che sembra finalmente conclusa, mi ha ferito profondamente. Perché mi ha toccato in quei rapporti umani con i bambini e i giovani con i quali ho lavorato negli ultimi vent’anni, rapporti che considero la mia ricchezza più grande. Il fatto che dovunque vada, a Nairobi, come a Lusaka, o sui Monti Nuba, sempre incontro giovani e bambini che mi accostano con fiducia e mi parlano della loro vita, dà un senso alla mia vita.

Le accuse di cui sono stato oggetto miravano a impedirmi di ritornare in Africa, così da consentire ai miei accusatori di impossessarsi delle strutture che, dalla fine degli anni ’80 ad oggi, Koinonia ha costruito al servizio dei poveri. Per far ciò si è cercato di distruggere proprio questo rapporto con la gente e con coloro che sono stati il centro e la ragione del mio, del nostro lavoro in quanto Koinonia. Per me lo scrivere, l’insegnare e tutte le altre attività di animazione e di promozione umana, che magari all’inizio avevano un loro significato, nel corso degli anni sono diventati importanti solo in funzione del servizio ai bambini e ai giovani che si accostano alle tante attività che Koinonia ha avviato per loro.

Cosa cambia adesso? È troppo presto per dirlo. Ci sono ancora alcuni passi difficili da affrontare. Ci sono due querele contro di me, contro i missionari Comboniani e l’arcidiocesi di Nairobi. Sono basate su accuse false e per le quali ovviamente non ci sono prove: probabilmente, dopo la dichiarazione del portavoce della polizia, saranno ritirate. Ma la giustizia umana è sempre passibile di forzature. Un altro passo sarà il decidere se e come querelare le persone e le istituzioni che hanno fatto questo gioco e che certamente avevano, e probabilmente ancora hanno, coperture importanti.

In tutta questa vicenda, per me pesantissima, ho avuto un sostegno fondamentale dalla solidarietà espressami da moltissimi – tanti amici ma anche tante persone che non conosco personalmente – attraverso appelli pubblici, lettere, telefonate, e con la preghiera. Particolarmente vicini mi sono stati i confratelli e i confratelli keniani, che mi hanno protetto e difeso, esponendosi in prima persona..

Cambierà qualcosa nelle mie attività e nel mio modo di vivere in Africa? Ancora non so rispondermi. Io vorrei continuare a migliorare il mio rapporto con tutti coloro che mi stanno intorno, ma mi accorgo che i fatti recenti mi hanno lasciato dei segni negativi. Spero di continuare a crescere e superare tutto positivamente. E che Dio continui a donarmi la pace e la forza interiore, che mi hanno sostenuto in questi mesi.

Custode di mio Fratello – My brother’s Keeper

Il seguente testo è stato scritto da Padre John Webootsa, Comboniano keniano, per il prossimo numero di New People (Sept. – Oct. 2009), dove ha una rubrica. Padre John ha generosamente combattuto al mio fianco in questo periodo per me diffiicle, e gliene sono molto grato.

Voglio condividere con voi un’esperienza che è stata una prova della mia solidarietà fraterna con un confratello. La sera del 15 giugno 2009 un amico mi chiamò avvertendomi che in una delle notizie del più importante telegiornale serale della stazione televisiva KTN avevano parlato di abusi sessuali su bambini delle case di Koinonia che erano stati commessi da padre Kizito Renato Sesana. La solidarietà fraterna mi ha imposto di interessarmi al caso.
Immediatamente dopo, senza praticare seri sforzi di giornalismo investigativo, la maggior parte degli altri media si è buttata sulla notizia, senza pensare alla conseguenze. Cosi la notizia è stata presentata da un gruppo di individui che esibiva alcuni bambini che sarebbero stati abusati da padre Kizito e che accusavano il padre di questo. Un’ esaustiva indagine della polizia invece ha assolto padre Kizito da ogni accusa di abusi sessuali su bambini, nelle sue funzioni di responsabile di Koinonia.
I risultati delle indagini mettono in discussione le motivazioni di chi ha architettato le accuse e degli operatori mediatici che sono stati strumentali nel promuovere le “false cattive notizie” che sono arrivate a diventare titoli in molti mass media. Si possono mettere in discussione anche le motivazioni e la sincerità di legislatori come Bonny Khalwale e Millie Odhiambo che hanno divulgato queste accuse prima di fare una ricerca seria per stabilire le verità, e anche la motivazione di accuse portate contro una persona che ha servito in questo paese per più di vent’anni senza mai approfittare di nessuno sotto la sua responsabilità.
L’innocenza di padre Kizito viene subito dopo una denuncia sporta da due ex-responsabili di Koinonia, che in un loro”affidavit” usano le accuse per chiedere che l’Alta Corte impedisca a padre Kizito non solo di gestire l’istituzione che ha fondato, ma anche di accedere e di gestire i fondi che sono nel conto bancario dell’istituzione stessa. Ironicamente, i fondi per mantenere l’istituzione cosi come quelli che sono serviti a costruire le case e a comperare i terreni, sono stati offerti esclusivamente dai benefattori di padre Kizito, alcuni dei quale hanno creduto o erano sul punto di credere alla truffa.
Il portaparola della Polizia, Eric Kiraithe, è stato molto coinvolto nello sforzo di stabilire la verità. Secondo lui la polizia fin dallo scoppio delle sensazionalistiche accuse contro il padre ha condotto intense e comprensive indagini circa le serissime e altamente diffamatorie accuse e ha rilasciato i risultati. La polizia lo ha trovato innocente. Adesso resta da stabilire quali fossero i motivi nascosti dietro l’orchestrazione di questa sensazionale saga che si è rivelata una grande frode mediatica.
Kiraithe ha dichiarato: “Le indagini condotte circa le accuse di abusi sessuali commessi da padre Kizito sono adesso complete e i miei ufficiali non hanno trovato nessuna evidenza che lo implichi in nessuna condotta impropria, direttamente o indirettamente, anche remotamente….Niente.”
Secondo l’ etica professionale dei giornalisti com’è codificata nel Media Act del 2007, quando ci sono accuse simili contro chiunque, senza discriminazioni per lo status sociale, sarebbe stato dovere del giornalista e dell’editore assicurarsi che la persona accusata fosse informata e avesse il diritto di replica prima di rendere la storia pubblica. E’ stato fatto?

Benedetto Trantran

“Stai facendo il pieno del calore umano di Mthunzi?” mi chiede Mauro, volontario di Amani. E’ per me l’ultima serata a Lusaka, domattina rientro a Nairobi. E’ appena finita una giornata di festa, con la partecipazione di gruppi giovanili di teatro, danza e canto di tutta la nostra zona. I premi sono stati distribuiti, gli ultimi ospiti sono partiti, i ragazzi di Mthunzi stanno ripulendo il grande cortile messo a dura prova dall’invasione. Butto giù qualche nota, scambio qualche battuta con chi passa vicino. I più piccoli vengono a strappare una carezza. L’atmosfera di pace e affetto è palpabile.

In tutte le attività di Koinonia in Kenya e Zambia la presenza di volontari, anche solo volontari per un giorno, è servita per far tornare la normalità, almeno nella la vita dei bambini. A conti fatti, nonostante la brutta storia di cui ho scritto, nessuno ha perso un giorno di scuola o saltato un pasto – a parte i due minori che sono stati costretti dalle loro mamme, pagate per questo, a denunciarmi, per poi ritrattare tutto. Sono quelli che in questa storia hanno sofferto di più. Ormai da oltre un mese siamo nel più prosaico, e benedetto, trantran quotidiano: il maestro che ci informa che un bambino o bambina ha bigiato la scuola, la mamma che viene e chiedere aiuto perchè non riesce a pagare l’affitto mensile di 15 euro, lo studente che ti vuol vendere qualche batik per pagarsi le tasse scolastiche, gli Yassets che vengono espulsi dal campionato perché non sono riusciti a raccogliere i soldi per le trasferte.

I primi amici ad arrivare sono stati a metà luglio gli scozzesi a Lusaka, e poi a Nairobi gli studenti di un’università americana, seguiti da un gruppo parrocchiale di Sant’Arcangelo di Romagna, venti giovani alla loro prima esperienza d’Africa guidati da don Mirko. Poi i sedici scout da Agugliano, il gruppone de La Goccia a Tone la Maji e infine la pacifica invasione di Amani, sia a Nairobi che a Lusaka. Dappertutto i nostri bambini li hanno presi in carico ed hanno incominciato ad insegnar loro i veri valori della vita, trovando quasi sempre degli studenti volonterosi, anche se sorpresi dall’inversione dei ruoli. Gli impegni di ogni giorno hanno aiutato un pò tutti a superare le brutte vicende degli ultimi tre mesi.

Ma non possiamo illuderci. Particolarmente io non posso pensare che i problemi siano terminati. Un dottore tedesco, che ha fondato una famosa organizzazione di intervento umanitario ai tempi dei “boat people”, dopo aver saputo delle accuse contro di me, me lo ha ricordato, scrivendomi “sta attento, ho avuto delle accuse simili anni fa, ed ho imparato che i malvagi hanno una fantasia fertilissima, e che il male ha sette vite, come i gatti”. Il fatto che la polizia a Nairobi mi abbia restituito gli oggetti che aveva prelevato come “prove” dalla mia stanza – cosa poi volessero provare con un proiettore video, una vecchia macchina fotografica a pellicola, alcuni vecchi DVD sulle nostre attività a Nairobi e di cartoni animati per bambini non l’ho mai capito – indicherebbe che il caso è già formalmente chiuso. Ma mi preoccupa il fatto che non ci sia stata ancora una dichiarazione ufficiale e pubblica. Dicono sempre che è una questione di pochi giorni…

John è stato ospite di Kivuli e poi nel 2005, a 18 anni, è tornato a vivere con la mamma, che con l’aiuto del microcredito era riuscita pure ad avviare un piccolo commercio. Ma la vita non è mai facile a Kawangware. La mamma si è ritrovata sieropositiva e John è andato in affanno, non riusca a trovare lavoro fisso, a pagare l’affitto… e tutto è precipitato in poco tempo. Prima che partissi per Lusaka un gruppo del Kobwa (Koinonia Old Beneficiaries Welfare Association, l’associazione composta dai nostri ex ragazzi per continuare a darsi una mano nel dopo-Kivuli), mi ha detto che dovevo incontrare John, preavvertendomi di non impressionarmi per quello che mi avrebbe raccontato. Cosi John mi ha chiesto un aiuto per superar la “droga”: ogni mattina beve e sniffa un mezzo bicchiere di benzina per avere il coraggio di affrontare l’unico lavoro che ha trovato, svuotare il pozzo nero di un piccolo ma affollatissimo nucleo di casupole. Per due o tre ore carica carriolate di cacca che poi svuota, illegalmente, in quello che una volta era un torrente, a duecento metri di distanza. Per questo veniva pagato dall’associazione dei residenti 50 scellini al giorno, cioè circa 46 centesimi di euro. Unica entrata giornaliera sicura. Siamo adesso riusciti a trovargli un lavoro in cui prende 150 scellini al giorno, che sopratutto ha il vantaggio di essere meno nauseante. Abbiamo anche suggerito ai residenti di costruirsi un gabinetto comune decente, che non costringano qualcun altro allo stesso lavoro. Ho raccontato questo episodio ai ragazzi di Mthunzi, suggerendo che anche a Lusaka i tempi sono maturi per costituire un’associazione come Kobwa, perchè possano sostenersi reciprocamente quando ci sono difficoltà di reinserimento.

Coi ragazzi di Mthunzi abbiamo anche incominciato a programmare di riprendere il “lavoro di strada” per identificare una decina o quindicina di bambini più vulnerabili da invitare a venire a stare a Mthunzi incominciando da Natale. La risposta è stata fin troppo entusiasta, tutti quelli che hanno più di 18 anni vogliono essere coinvolti e la prossima volta che torno dovrò fare con loro un workshop per stabilire insieme i criteri di ammisione per i nuovi fratellini.

Insomma, ricominciamo insieme a guardare avanti. Guai a noi se ci fermassimo a piangere sulle nostre sventure, perdendo l’entusiasmo di affrontare nuove sfide. L’idea che possiamo costruire un futuro migliore radicandoci e imparando dal passato è nella nostra visone cristiana, fondata sul perdono e sulla resurrezione. Magari altri se ne sono appropriati e ce l’hanno rivenduta come fede cieca nella crescita (soprattutto economica) illimitata, o come certezza che il sol d’avvenire era ormai dietro l’angolo, bastava solo qualche riforma e eliminare qualche controrivoluzionario. Le cose, ovviamente, sono ben più complicate e difficili, i tempi più lungi. Le disavventure non ci devono togliere il sorriso, e ci devono far capire di non prenderci troppo sul serio. Siamo solo dei collaboratori nella costruzione del Regno di Dio, che va avanti anche quando noi siamo in difficoltà.

Accogliere per Essere Felici

Fra le migliaia di parole che ci travolgono ogni giorno ce ne sono poche che val la pena di leggere e rileggere, ma la lettura di testi cartacei è da sempre uno dei miei passatempi preferiti.
Nelle ultime settimane ho letto con interesse e partecipazione due libri molto diversi, L’anima e il suo destino di Vito Mancuso, e Conversazioni notturne a Gerusalemme, del Cardinal Carlo Maria Martini. Ma i due autori italiani cristiani che più amo e che nelle loro parole offrono il nutrimento più solido sono Enzo Bianchi e Silvano Fausti. Le loro pagine possono essere lette e rilette trovandoci sempre qualcosa di nuovo, sono dei veri maestri. Fausti, forse con una cerchia di lettori più interessata alla missione, è gesuita e biblista, ed ha una rubrica fissa sulle pagine della rivista missionaria dei Gesuiti, Popoli, che a volte mi serve di riflessione e preghiera per un mese intero. L’ultima che mi è capitato di leggere è di grande densità, praticità e semplicità, anche se magari le hanno messo un titolo troppo astratto e intellettuale. E’ cosi bella che ve la propongo nel link alla fine di questo post.

Ci sono momenti di sconforto. Le ore passate e scrivere per la Polizia i dettagli dei fatti che hanno sconvolto la vita di Koinonia, la ferita profonda lasciata dalle falsità e dal tradimento subito. Inoltre problemi e drammi non mancano mai. Ieri mattina, prima delle 5 ero alla Shalom House, prevedendo una lunga giornata di lavoro. Poco dopo arriva Max, il trentenne che gestisce il nostro piccolo programma di video. E’ sconvolto, i vestiti sporchi, senza scarpe, anche se questi sono tra i giorni più freddi dell’anno. Mi racconta che poco dopo mezzanotte stava tornando a casa, sulla sua vecchia auto, con Kevin, il nostro ragazzo che sta studiando scienze sociali all’università, e Jean Baptiste Mahama, quasi trentenne, rifugiato. Hanno cercato di sorpassare un camion, in città, ma l’autista non li ha visti e senza segnalare ha girato tagliando loro la strada. Sono usciti di strada, si sono capovolti. Max è illeso, Kevin ha una brutta ferita alla testa, ma all’ospedale non lo hanno voluto neanche visitare perché avevano insieme in tasca solo il corrispondente di sette euro. Mahama è morto sul colpo. Era rifugiato dal Ruanda. Ai tempi del genocidio il papà Hutu aveva cercato di proteggere la moglie Tutsi e i familiari della moglie. Invece moglie e parenti sono stati tutti uccisi, e quando i “liberatori” Tutsi hanno preso il potere lo hanno messo in prigione, accusandolo di aver preso parte attiva al genocidio, dove è morto lo scorso anno. Mahama aveva allora dieci anni e col fratellino di quattro anni era riuscito ad arrivare a Nairobi, a piedi, facendo tutto il giro intorno al lago Vittoria, oltre mille chilometri. Altri rifugiati Ruandesi li avevano aiutati a sistemarsi nelle baracch intorno a Kivuli. L’ho conosciuto perché dopo aver finito la scuola superiore era vento a Kivuli a cercare lavoro da elettricista, e poi un anno fa un amico italiano di Koinonia gli ha pagato gli studi di ingegnere informatico. Faceva benissimo all’università, era ormai alla fine dl secondo anno, e insegnava nella nostra scuola di informatica intitolata all’amico Geremia. Mahama era quasi maniacalmente gentile e riconoscente con tutti coloro che gli hanno permesso di vivere e studiare a Nairobi. Aveva grandi sogni di rientro in Ruanda quando anche il fratello avesse terminati gli studi. Adesso possiamo solo pregare per lui, e trovargli un pezzettino di terra dove riposare in attesa delle Risurrezione.

Ma, come sempre, Dio manda i suoi segni. Forse piccoli, ma importanti. Alcuni di voi che hanno visto lo spettacolo italiano del Koinonia Children Team, si ricorderanno di George e Stephen, i due bambini che facevano la gag di rubarsi la sedia, per poi sedervisi insieme, abbracciati e sorridenti. Ebbene, la prima volta che sono andato a Kivuli, dopo il mio recente rientro a Nairobi, il primo a vedermi è stato George. Stava rientrando da scuola, ancora in uniforme. Mi è corso incontro e mi ha abbracciato, a lungo. Quando l’ho sentito tremare, con la mano gli ho alzato il mento, per guardarlo in faccia e pronto a consolarlo perché pensavo stesse piangendo. Invece sorrideva, tremava dalla gioia, e con quel suo sorriso tutto denti e sempre con una sfumature da presa in giro, mi ha detto “Padre, che cosa bella che tu sia tornato da noi”.

Appello – Appeal

Gli avvenimenti che ho riportato nel mio precedente post, e la situazione negativa dell’economia mondiale, ci stanno creando seri problemi di gestione delle case per i bambini a Nairobi.

Faccio quindi un appello a chi si potesse permettere qualche donazione straordinaria, particolarmente faccio appello a chi non è già nostro abituale donatore, cosi che Koinonia possa continuare ad assistere tutti gli oltre 250 bambini di Nairobi che ci sono affidati.

Come sempre, le donazioni possono essere inviate attraverso Amani (vedi www.amaniforafrica.org) sia per donazioni generiche, che per Kivuli, Casa di Anita, Ndugu Mdogo.

Per sostenere Tone la Maji possono essere inviate attraverso La Goccia (vedi www.la-goccia.it).

Koinonia Italia (www.koinoniaitalia.org), Africa Peace Point (www.africapeacepoint.com, da non confondersi assolutamente con quella che termina con .org) e le varie case dei Comboniani funzionano pure benissimo.

Una Brutta Storia – An Ugly Story

E’ venuto il momento di informare i miei amici su cio’ che mi sta succedendo a Nairobi fin dallo scorso ottobre. Cerchero’ di essere obiettivo e concreto, anche se i fatti che riporto qui sotto mi hanno toccato in in modo drammatico

All’inizio dello scorso ottobre ho ricevuto una email anonima, con vaghe minacce, e con allegata una foto che intendeva rappresentare me nudo insieme ad un giovane adulto – impossibile dire se fosse un uomo o una donna. La foto era chiaramente ritoccata usando un apposito programma. Non diedi molta importanza alla cosa. Nelle settimane seguenti, mentre viaggiavo in Kenya e Sudan, ricevetti altre quattro messaggi, e un’altra foto. L’ultima fu verso la meta’ di novembre. Poi venni in Italia con il Koinonia Children Team.

Rientrai dall’ Italia la settimana prima di Natale, ed incominciai ad organizzarmi per una lunga assenza, che avevo programmato almeno dal 2005, e poi andai per una breve visita a Lusaka dal 2 al 6 gennaio. Il 10 gennaio al mattino prestissimo partii in auto con tre confratelli per andare a Musoma, in Tanzania, dove c’e’ una bella scuola di Kiswahili proprio sulla riva del lago Vittoria, e dove intendevo stare studiando Kiswahili e rilassandomi fino al 10 maggio. Questa vacanza era una sogno coltivato da tempo. Avevo fatto le ultime vere vacanze in Italia – come regola dovremmo fare tre mesi ogni tre anni – nel 1998, anche se son venuto spesso per cicli di incontri che significavano piu’ impegno e stress che non a Nairobi.

Poco tempo dopo il mio arrivo a Musoma cominciai a ricevere inquietanti notizie da Nairobi. Nei vari progetti il personale veniva licenziato e assunto dal Country Director (che era anche un trustee o fiduciario) senza informare ne l’ Executive Committee ne me, contrariamente alla prassi. Cominciai a capire che qualcosa era seriamente sbagliato. Poi due dei quattro trustee di Koinonia vennero a visitarmi a Musoma, informandomi che c’era a Nairobi una diffusa campagna contro di me, con l’ accusa di essere omosessuale praticante, e che sarebbe stato pericoloso per me rientrare in Kenya. Non potevo credere a cio’ che sentivo, ma dissi che avrei seguito il loro consiglio. Pero’ precisamente perche’ volevo confrontare queste accuse decisi di rientrare a Nairobi durante la settimana dal 6 al 14 marzo. Come scrissi della mia determinazione di rientrare a Nairobi, altri messaggi dai due trustee insistevano che sarebbe stato pericoloso rientrare perche’ la polizia Keniana aveva iniziato ad indagarmi. Nonostante questo decisi di andare a Nairobi, in autobus, a ci arrivai la sera del 6. Il mattino del7 venni prontamente informato dai due trustees che era pericolosissimo per me restarci, perche’ la polizia keniana mi stava cercando e presto avrebbero spiccato un mandato di cattura. I miei dubbi crescevano, ma decisi di seguire il loro consiglio e il giorno 8 ritornai a Musoma. Pochi giorni dopo, due poliziotti keniani, genuini o falsi ancora non lo so, andarono a visitare il mio Padre Provinciale e Nairobi, e gli fecero vedere sullo schermo diun telefonino alcune delle ormai famose foto, e gli chiesero dove fossi.

Lo stesso giorno id due soliti trustee arrivarono a Musoma mi dissero che ormai ero in pericolo di arresto immediato. Presto, questione di ore, sarebbe stato impossibile per me rientrare in Kenya e probabilmente come da accordi locali il mio nome sarebbe stato comunicato alla polizia dell’ Uganda e della Tanzania, perche’ mi arrestassero. Non avevo altra scelta, insistevano, ma andare subito in Europa. Non ero per niente convinto ma dopo qualche consultazione telefonica decisi di seguire il loro consiglio, perche’ ancora pensavo fossero affidabili. Cosi a meta’ marzo ero in Italia, e poi andati per quasi tutto il mese di aprile a Lusaka. Da Lusaka scrissi che sarei rientrato presto a Nairobi. E, ancora una volta, un’altra foto venne fatta circolare da un indirizzo email anonimo, questa volta anche con copia a diversi benefattori di Koinonia… e questa volta l’accusa era di pedofilia.,.

Il disegno era ormai chiaro: ogni volta che manifestavo la mia determinazione a rientrare a Nairobi, coloro che giocavano a questo gioco alzavano la posta, nella speranza che io avrei avuto paura a rientrare, cosi’ che loro potessero, senza informare l’ Esecutive Committee di Koinonia, prendere il controllo dell’ associazione e delle proprieta’.

Poi Gian Marco Elia, Presidente di Amani, la nostra organizzazione sorella in Italia, venne a Nairobi agli inizia di maggio e gli eventi precipitarono. I trustees inizialmente finsero di cooperare con gli sforzi del Koinonia Executive Committee di proteggere la registrazione e la costituzione di Koinonia, ma invece creavano ostacoli e incontrando i membri individualmente dicevano loro che padre Kizito non sarebbe mai piu’ rientrato a Nairobi e che da adesso erano lor ad essere responsabili di Koinonia. Incominciarono anche trattative per affittare la Shalom House ad una universita’’ privata, senza informare l’ Executive Committee, cosa completamente illegale perche’ i trustees non sono i proprietari del’ associazione, ma sono i custodi, coloro che si assicurano che la costituzione sia rispettata.

Il 23 maggio l’Executive Committee voto’ per la sostituzione di tre dei quattro trustees, nominando persone di assoluta fiducia, lasciando solo me dei vecchi, appena in tempo ad evitare che i due effettuassero un completo takeover di Koinonia e della proprieta’. Gian Marco rientro’ in Italia Ma i due continuarono ad insistere che loro erano ancora in carica, e agli inizi di giugno diedero istruzione verbale ai responsabili dei vari centri per bambini di mandare via tutti perche’ Amani e La Goccia non avevano mandato i fondi. Dove rimandare i bambini? Dalle loro famiglie (che non esistono) o in strada. Di fatto i fondi non mancavano, ma a loro non poteva interessare di meno dei bambini, volevano i soldi e le proprieta’.

Quando ho saputo dell’ imminente chiusura ho deciso di rientrare a Nairobi, altrimenti il futuro dei 250 bambini che sono nelle nostre case, dei 100 che sono nella scuola secondaria e delle altre centinaio che aiutiamo a crescere in modi diversi, sarebbe stato in pericolo. Gian Marco e padre Venanzio Milani, un eminente Missionario Comboniano e mio vecchio amico, insistettero per accompagnarmi, per la mia protezione. A questo punto infatti era chiaro che avevamo contro delle persone estremamente pericolose.

Arrivando a Nairobi, il mattino del 15 giugno, ho scoperto che non c’era nessun mandato di cattura contro di me. Ho subito avuto un incontro con l’ Executive Committee di Koinonia e membri , e sono andato dalla Polizia a denunciare la mia versione dei fatti.

La stessa sera una televisione locale ha trasmesso un servizio molto poco professionale in cui mi si accusava di aver sodomizzato bambini Keniani negli ultimi venti anni. Immediatamente ho cominciato anche a ricevere informazioni confidenziali che alcuni ragazzi erano stati pagati, minacciati o addirittura torturati per convincerli a testimoniare falsamente contro di me.

Il mattino successivo ho avuto un breve incontro con un gruppo di giornalisti negando categoricamente le accuse. Ma durante i dieci giorni successivi e’ stato il massacro, su di me. Quasi ogni sera c’erano delle notizia nel telegiornale. Per tenere la pressione alta i due ex-trustees non hanno avuto altra scelta che farsi intervistare, rilanciando accuse a me. Tutte false. Ma mi sembrava di essere in bersaglio incapace di reagire, perche’ l’ avvocato mi ha consigliato di stare in silenzio. Disprezzo e ridicolo. I giorni peggiori della mia vita. Solo la fede, la personale certezza di non aver commesso nessun crimine nei confronti dei bambini, il supporto degli amici di locali e italiani, specialmente da Amani e Tavola della Pace, e da tanti altri che mi hanno conosciuto e visitato le case a Nairobi mi ha impedito di mantenermi fiducioso e continuare a lottare.

L’obiettivo reale di tutta questa saga, penso, era quello di impadronirsi delle proprieta’ che Koinonia ha lentamente acquisito negli anni con l’ aiuto di Amani e di altre organizzazioni e benefattori. E chi ha manovrato sapeva che avrebbero potuto ingannare l’ Executive Committee solo sei io fossi stato lontano. Non avevo mai considerato le nostre proprieta’ dal punto di vista del loro valore monetario perche’ abbiamo costruito tutto per il beneficio diretto e indiretto dei bambini che sono in nostra cura, ma a prima vista il valore commerciale delle proprieta’ di Koinonia puo’ essere intorno ai tre o quattro milioni di euro.

Inoltre potete immaginare il dolore e l’ angoscia di essere accusati di un simile crimine, da gente che conosco da 20 anni, quando sono usciti dal seminario, ed ho aiutato ad andare all’ Universita’ e a costruirsi una professionalita’. Avevano la mia piu’ completa fiducia, uno di loro, come me, poteva firmare da solo i nostri conti in banca. Non sono stato capace di aiutarli a costruirsi un carattere onesto, e di controllare la loro avidita’ di cose materiali e evidentemente hanno capito che le accuse di crimini sessuali sono sufficienti per instillare paure e distruggere la figura di un prete che lavora con i giovani.

Comunque adagio adagio la verita’ sta venendo a galla. Il Children Department (che ha la funzione di proteggere l’ infanzia) e la Polizia hanno confermato che in tutti questi anni non c’e’ mai stato neanche una denuncia contro di me. I counselors mandati dal Children Department in tutte le nostre case non hanno trovato neanche un singolo caso in cui il nostro personale, per non parlare di me, sia stato coinvolto in abusi sessuali sui bambini. Al contrario ogni giorno che passa scopriamo evidenza di comportamenti fraudolenti da parte degli ex-trustees.

Con l’Executive Committee stiamo adesso valutando i danni e facendo ripartire tutte le attivita’ che si erano quasi fermate. Alcuni membri del nostro staff erano completamente confusi e demoralizzati dalle attivita’ e comportamento dei due ex-trustess.

La lotta non e’ finita. Stiamo cercando di prevenire altri azioni che potrebbero danneggiarci. Ma adesso siamo anche pronti a reagire con azioni appropriate.

Ringrazio tutti coloro che mi hanno sostenuto, i miei confratelli che mi sono stati molto vicini, i preti locali, i laici italiani e keniani. Abbiamo piu’ che mai bisogno del vostro sostegno morale e materiale. Personalmente non ho mai sperimentato con tanta evidenza la forza delle vostre preghiere. Continuate e pregare e a sostenerci, i nostri bambini non devo soffrire le conseguenze di questa brutta storia.

D’ora in poi daro’ aggiornamenti su questa storia solo quando ci saranno nuovi sicuri sviluppi. Per esempio se fossi arrestato o quando decidessimo di far causa per diffamazione e appropriazione indebita agli ex-trustees. Per il resto continuero’ a scrivere questo blog come al solito, ad intervalli irregolari.

Aiuto, gli Aiuti!

Anni fa, Nigrizia pubblicò un dossier intitolato “Aiuto, gli aiuti”. In poche parole vi si sosteneva la tesi che gli aiuti internazionali fanno più male che bene all’Africa, perché le modalità con cui vengono distribuiti non sono corrette.
Lo scorso anno, ai primi di giugno, mentre ero a Riccione per partecipare ad un seminario organizzato ai margini del Premio Ilaria Alpi, venni intervistato brevemente da un amico giornalista, Della’intervista, pubblicata da Il Redattore Sociale, il quotidiano La Repubblica riprese solo una frase, che pubblicò virgolettata e in grande evidenza per rinforzare il messaggio di un articolo. Era qualcosa del tipo “Molte ONG usano gli aiuti all’ Africa per aiutare se stesse. Padre Kizito”. Lo penso ancora.
Dopo quella citazione ricevetti tre email da amici che lavorano in diverse ONG dicendomi che trovavano quella citazione infelice. Risposi che, conoscendoli, so che loro e le loro ONG lavorano con serietà, ma che bisogna pur dire che per una buona maggioranza le cose non sono cosi. La mia non era una condanna indiscriminata, avevo detto “molte”, avrei anche potuto dire “una buona maggioranza”, ma non ho detto “tutte”. Avevo anche detto al giornalista che il mio personale parere ed esperienza e’ che quando si tratta di aiuti allo sviluppo “piccolo e’ bello”, perché le ONG piccole lavorano spesso con tanti volontari veri, non pagati, hanno motivazioni più genuine, lavorano in vero contatto con le persone locali e raggiungono risultati migliori. Io ho contribuito a creare almeno una ONG e due ONLUS in Italia, e almeno quattro ONG in paesi africani, e quindi ben so che possono essere ottimi strumenti per intervenire efficacemente in favore di chi ha bisogno, sia con aiuti di emergenza che per la promozione umana e educazione ai diritti.
A conferma del lato negativo del lavoro delle ONG ricevetti anche cinque email. Le rappresentava tutte una lunga e dettagliata lettera di una persona che dopo aver lavorato per un totale di 12 anni in due diverse grosse ONG aveva deciso di cambiar completamente lavoro proprio pochi mesi prima perché disgustato dalla lotta senza esclusione di colpi per assicurarsi i finanziamenti del nostro Ministero degli Esteri o della Comunita’ Europea, dall’inefficienza, dalla corruzione, dal fatto che trovare i finanziamenti e rendicontare i progetti diventa più importante che farli bene e far crescere la gente locale. E’ comprensibile come sia quasi inevitabile, se non c’e’ un’altissimo livello di motivazione, che ad un certo punto dell’ evoluzione di una ONG la presenza di professionisti ben retribuiti faccia si che il motivo dell’esistenza della stessa non sia più’ quello che fare progetti al servizio dei poveri, ma di ottenere finanziamenti per garantire la continuità dell’impiego.
Mentre invece funzionano gli aiuti che passano attraverso piccoli canali, dove la gente si incontra aldi la’ di tutti i tipi di divisioni, e dove la dignità’ delle persone e’ rispettata. . Penso alle iniziative di tante piccole ONG che hanno cosi di gestione quasi zero, ai gemellaggi fra scuole e associazioni e parrocchie e diocesi e magari anche squadre sportive, alla cooperazione decentrata fatta da comuni, provincie e regioni. Situazioni dove i volontari si pagano il biglietto aereo di tasca loro e, magari facendo errori, comunque meno gravi e meno costosi di quelli fatti dalle grandi ONG, si coivolgono in prima persona. Fortunatamente queste piccole iniziative sono molte e anche se non cambieranno la faccia dell’Africa, almeno ognuna di loro rida’ forza e speranza a qualche centinaio di persone. E non e’ cosa da poco, se confrontata col quadro fallimentare degli aiuti istituzionali.
Ho ritrovato tutto questo in un’intervista a Dambisa Moyo pubblicata lo scorso lunedì su La Repubblica. Il titolo e’ “Dambisa Moyo denuncia: gli aiuti salvano i dittatori e condannano l’Africa” La Moyo, zambiana quarantenne, economista che ha lavorato alla Banca Mondiale, e che lo scorso 11 maggio il Time ha inserito fra le cento persone più’ influenti del mondo, ha pubblicato un libro intitolato Dead Aid – che potremmo tradurre con Aiuti Mortali – in cui espone come le modalità’ degli aiuti siano sbagliate, ma mi pare, almeno dall’ intervista perché’ il libro non credo sia disponibile in Italia, che salvi proprio gli aiuti piccoli e mirati, che non passano attraverso i grandi canali istituzionali. Mentre gli aiuti diretti da governo a governo, dice, sono “diventati un immenso business dove ci guadagnano tutti tranne l’Africa: le ‘benemerite’ fondazioni americane, le multinazionali alimentari, le organizzazioni non governative”.
Allego qui sotto l’intervista scansionata.

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Fratelli Per Niente

L’ immigrazione e’ un fenomeno in se’ positivo e arricchente per la società Italiana. Ci provoca all’apertura sociale e culturale, e, incidentalmente ma forse per alcuni e’ la cosa più’ importante, crea ricchezza. Tutte le statistiche lo dimostrano. Eppure abbiamo un capo del governo che la nega, che addirittura non la vede. L’Italia e’ già una societa’ multi-etnica. L’ho visto nelle scuole di Torino dove sono andato coi bambini del Koinonia Children Team lo scorso dicembre: in alcune classi i figli di immigrati arrivavano al 60 per cento, e gli insegnanti erano giustamente orgogliosi della straordinaria ricchezza rappresentata dai loro bambini, anche se, ovviamente, qualche problema c’e’. Queste aule multi-etniche ormai nelle medie e grandi città’ sono la regola. Ma chi frequentano i nostri governanti?

L’immigrazione dovrebbe quindi essere governata, e un governo intelligente dovrebbe preoccuparsi di accelerare e migliorare il processo di integrazione. Invece abbiamo un governo che già nella precedente campagna elettorale ha esasperato i lati negativi di questo fenomeno e fatto della immigrazione il capro espiratorio di tutti i nostri mali. Cosi’ i barconi carichi di persone che non sono criminali, ma sono poveri che vengono in cerca di lavoro, che sfuggono a persecuzioni, guerre e fame, sono stati dipinti come ricettacoli di delinquenza. Chiunque abbia frequentato i veri delinquenti – a me ogni tanto capita – sa che si vestono, bene, si profumano e usano tutti i trucchi per apparire piu’ belli di ciò che sono dentro.

Cio’ che e’ successo pochi giorni fa alla stazione di Palermo e’ stato emblematico. Una persona con problemi psichici ha incominciato a prendere a martellate due anziani. Uno dei due e’ morto poco dopo e l’altro e’ ancora in pericolo di vita. C’erano presenti decine e decine di persone, e nessuno e’ intervenuto. Quando sono arrivati due ragazzi Nigeriani, “irregolari”, hanno bloccato l’ assassino che stava fuggendo e l’ hanno consegnato alla polizia. In quel momento tutti i coraggiosi palermitani presenti, tutti rigorosamente italiani doc, hanno circondato l’assassino ormai inoffensivo ed hanno cercato di ammazzarlo a botte.

Non basta aver dato ai due ragazzi il permesso di soggiorno per cancellare la vergogna che questi fatti ti fanno crescere dentro.

Vi propongo su questo tema un editoriale di AMANI del mese scorso. Chi non sapesse ancora chi e’ AMANI può’ visitarne il sito che e’ nella lista qui a sinistra.

FRATELLI PER NIENTE

Una domenica sera di febbraio la trasmissione Presa Diretta di Rai3 ha mandato in onda una puntata tutta dedicata a storie d’immigrazione. In una di queste succedeva che i vigili del fuoco facevano sgomberare a Napoli uno stabile giudicato inagibile, nel quale abitavano famiglie italiane e straniere. A sera, le autorità municipali avevano trovato agli italiani una sistemazione di fortuna; gli immigrati erano stati invece lasciati sulla strada. Alcuni di loro hanno occupato allora per protesta il Duomo ed è stato lì, sui banchi della chiesa, che un giornalista li ha intervistati. Uno, un ragazzo africano, riferendosi all’accaduto ha detto che in Italia c’è l’apartheid, perché ci sono disparità di trattamento a seconda del colore della pelle. E ha aggiunto che è inutile dirsi cristiani e appellarsi al messaggio di fratellanza del Vangelo perché, se queste cose succedono, allora vuol dire che «non siamo fratelli per niente».

Quel ragazzo aveva ragione. Non siamo fratelli per niente di chi è lasciato a dormire per strada, mentre al suo vicino viene offerto un letto per la notte. Non siamo fratelli per niente di chi non ha diritto alle cure mediche, mentre il suo simile sì, solo perché ha un pezzo di carta in più. Non siamo fratelli per niente di chi raggiunge le coste europee a rischio della vita e viene per tutta accoglienza messo in prigione. Non siamo fratelli per niente di chi viene schedato senza aver fatto nulla di male, soltanto perché non ha un tetto. Non siamo fratelli per niente di coloro a cui neghiamo un luogo di culto, che è un bisogno fondamentale di ogni essere umano.

«Quello che non ho sei tu dalla mia parte», diceva il titolo che apriva il seminario indetto a Caserta, dai volontari di Amani e dagli immigrati che lì vivono, nel marzo 2008, qualche mese prima della strage di settembre a Castel Volturno, nella quale vennero uccisi cinque di loro, tre ghanesi, un liberiano, un togolese. Sono parole di una canzone di Fabrizio De André, che cantava gli ultimi e gli esclusi; loro ne hanno fatto un appello. Un obbiettivo da raggiungere. Noi dalla loro parte.

«Porta il tuo cuore in Africa», dice lo slogan di Amani. Ma oggi l’Africa è qui, è da noi. L’Italia è la nostra Africa dei diritti fondamentali negati, della solidarietà rifiutata, dei torti inflitti al più debole, a colui che non ha nulla. Noi di Amani pensiamo che si debba fare qualcosa. Non soltanto per i bambini di strada di Nairobi e di Lusaka. Non soltanto per i ragazzi delle montagne Nuba. Si deve fare qualcosa anche per questa Italia africana. Chiediamo agli amici, ai sostenitori, ai volontari di Amani di segnalarci proposte ed idee che si aggiungano alle nostre.

Nel giugno 2008 Amani è stata tra i promotori della Porta di Lampedusa, il monumento ai migranti morti in mare, opera di Mimmo Palladino, che si inaugurò in quei giorni sulla scogliera dell’isola che guarda a sud. Vorremmo che quel monumento, che per migliaia di migranti ogni anno è un punto di arrivo, diventasse per noi un punto di partenza, alla ricerca di nuovi fratelli.

Open Letter

My dear brothers and sisters, boys and girls, children who in Kenya, Sudan and Zambia live in Koinonia Community homes,
During this Easter time some of you, even some friends from Italy, have mentioned that in the past they were touched by the “Parable of the Good Farmer and the Juicy Mango”, that I had said on different occasions during our Eucharistic celebrations, and have asked me to write it down. It is not my creation, I remember reading it somewhere. Let me all the same write down my version, and when I will find out who is the original author I will give him or her the due credit.

Once upon a time there was a very good and wise African chief. In his area people lived peacefully, and when there was a quarrel, he administered justice with wisdom.
In his area there was a young peasant farmer called Tutu. He worked very hard so that his wife and three children could always have good food, and in his family there was much love.
One day, as he was working in his orchard, Tutu saw that many mangoes were about to ripen, and one among them was very big, and from the color and the smell he thought that after three days it would be perfectly ripe and juicy. So, he colleted it carefully and took it home. That evening, after they had shared the meal, Tutu showed the mango to his wife and children and said: “Look at this beautiful mango, it is the best I had ever seen, and surely will be delicious to eat. I collected if for you, but then I thought that it is so nice that we can make a gift to our chief. He is a good man, and we have never been able to show him our appreciation. What do you think?” They all thought it was a suitable gift for the chief.
The following day Tutu put the mango in a small box and set out for the walk to the chief’s home that could take about four hours. After some time he met on the road a young rich trader on a beautiful horse, who was going to the market to be held in the chief’s village to sell precious cloths. When the trader saw that Tutu was holding a box with such great care, he became curious and asked what was inside it. Very happily Tutu showed his mango and said he was going to present it to the chief as a special gift. The young trader laughed so much that tears were rolling down his cheeks: “Do you really believe that the chief will care about a mango? He has people giving him very precious gift! He will think you are making fun of him, and will send you away in disgrace”.
But Tutu was not discouraged. He put the mango back into the box and went on.
When he reached the chief’s compound he was stopped by some of the chief’s attendants. He explained to them he wanted to offer his mango as a gift to the chief. The attendants shouted at him, telling him the chief had not time to spare for such small matter.
But the chief, who was in a hut nearby, heard the shouting, asked what was the reason, and then ordered to allow Tutu to see him. Tutu came in, presented the mango to the chief, and said” This is the best fruit that has ever grown in my field. Please accept it as a sign of the respect and love that my family and me have for you. You are a wise chief, you have kept peace and justice in our land, we are happy to be part of your people”.
The chief turned to his teenager son and whispered: “Tutu is not just giving us a mango, his giving his heart. Go, take the best horse we have, so that I can exchange his gift with a suitable one”.
Tutu was surprised when the chief gave him a beautiful black horse as his own gift. He did not expect the chief to give him anything. But he accepted, because he did not want to displease the chief, and set out for the trip back home.
On the way back, he found again the young rich trader, who was shocked when he saw Tutu riding a beautiful horse, and when Tutu explained him what had happened, he started to think how to get also a gift from the chief.
Tutu reached home and spent the whole evening with his family, telling them what had happened and praising the kindness and generosity of their chief.
The following morning the trader went to see the chief, riding his most magnificent horse. When he was admitted to the chief’s presence he bowed profoundly and said: “Our most gracious chief, you are so powerful and well known that I have decided to make you homage of this beautiful horse”. While he was saying so, in his heart he was thinking that if the chief has rewarded Tutu with a horse in exchange for a mango, he would give him something really valuable, maybe a very precious stone, in exchange for his horse.
The chief listened, exchanged a glance with his son, and said to the trader: “I do not know how to thank you enough for this very valuable gift, but I have an item that is very dear to my heart. It is painful for me to give it out, but I think you really deserve it” and indicated to his son to go and get it. The trader kept his eyes low, expecting to see the chief’s son to come back with something extraordinary. The son came back to the hut with Tutu’s mango and the chief handed it to him, holding it with great respect.
The trader was barely able to contain his anger, but managed to show a smile. He left and when he thought of being far from the sigh of the chief, he furiously threw away the mango and went away on foot, thinking that he had now to buy another horse, and that he would never wish to see the chief again.
The chief turned to his son and said: “That young rich man will be unhappy all of his life, because he does not know how to appreciate the value of a gift”.

We can see in this parable that the most precious gift we can give is our love. The mango is a very suitable fruit to represent it, because it has the shape of a heart. Who is the chief who deserves it? It is God, who rules us with the law of love. If we do not understand the greatness and the importance of his love, if we do not find happiness and peace in surrendering to him, we just do not deserve it. And we become unhappy, nothing will ever satisfy us.
Jesus is the Son of the Chief, and He has learned and practiced the lesson taught by His Father, putting his love and life entirely at our service.
But we can also see the parable from another angle. Many times I have also thought you are my chiefs. You allow me to enter into the kingdoms of your dreams; you trust me and share your goodness and life with me. You give me the gifts of your smile and of your happiness, and you give me the energy to walk with you.
Really, God wants us to be each other’s chiefs. He is not jealous of his position. Actually He is happy to see that His children love and serve each other, especially during difficult times. We can exclude ourselves from His love only when – like the reach young trader – we consider material possessions more important than love, service, and harmony with the people around us.
In this Easter season may you feel Jesus always close to you.
Father Kizito

Pasqua a Lusaka

Lo scorso fine settimana, a Mthunzi abbiamo avuto ospiti un centinaio di adulti di gruppi carismatici della nostra zona di Lusaka. Si sono sistemati un po’ nelle stanze che abbiamo a disposizione per gli ospiti, un po’ nel workshop, un po’ nella biblioteca. Letti? Non se ne parla neanche. In Zambia, anche nelle capitale, in queste situazioni sono ancora abituati a portarsi in spalla, anche sui mezzi pubblici, una stuoia arrotolata che poi stendono sul pavimento e fa da giaciglio, mentre la borsa o sacca con le altre cose viene usata a mo’ di cuscino. Mi hanno chiesto di celebrare per loro e l’ho fatto molto volentieri, pero’ siccome ne avevo sentiti parecchi che durante la notte si erano messi a pregare, anzi a urlare, in lingue, li ho pregati di controllarsi, perche’ avevo un’ altra Messa nella frazione della parrocchia poco lontano da noi. E’ stata una celebrazione molto partecipata e con canti molto belli.

Poco dopo, nelle chiesetta di Tubalange, erano di turno le “stelle” (cosi qui chiamano i chierichetti femmine, per intenderci) ad animare la Messa. Scatenate, sono entrate per la processione iniziale, e solo dopo mi son reso conto che le magliette bianchissime, che sembravano nuove, avevano la pubblicita’ di una concessionaria d’auto di Figino Serenza, che per chi non lo sapesse e’ un paese delle Lombardia. Gli amici di Figino Serenza che potrebbero averle portate son passati di qui almeno 3, forse 4, anni fa. Come queste magliette siano ancora nuove e’ un mistero che non sono riuscito a chiarire.

Ma, sono parziale, lo so, le celebrazioni sono veramente speciali quando sono con i ragazzi di Mthunzi. Bisogna essere presenti –foto e video e registrazioni non bastano – per lasciarsi permeare dalla gioia del loro canto. In questi giorni di Pasqua poi, nei momenti dopo la Comunione il canto, la danza, le parole e il corpo diventano un’unica cosa. Io, goffo e stonato, li guardo, e mi pare che alcuni non tocchino neanche piu’ terra. E’ un’esperienza spirituale solo lasciarsi travolgere dalla forza che emanano. La gioa delle semplicita’ e della gratuita’.

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