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Una Nuova Corsa all’Africa, o l’Inseguimento alla Cina? – A New Scramble for Africa, or the Pursuit of China?

Il decennio che si apre vedrà la Cina diventare la prima potenza economica mondiale? E’ probabile. Quello che si comincia a capire, a giochi fatti, è che in Africa il decennio dell’avanzata cinese è stato quello che si è appena chiuso, e il prossimo decennio sarà quello del consolidamento delle posizioni. Dal 2000 ad oggi la Cina in Africa ha fatto progressi irreversibili, conquistandosi la fiducia di molta parte della classe dirigente, e diventando il principale donatore e partner commerciale di molti paesi.

I cinesi si sono imposti anche perché fanno infrastrutture che gli altri non fanno più, con investimenti enormi. Dopo gli errori del passato – i grandi stadi, i faraonici palazzi presidenziali – oggi i cinesi privilegiano la costruzione di infrastrutture di comunicazione, grandi strade, ferrovie, porti, aeroporti. E li costruiscono in fretta, con efficienza, senza i ritardi, senza le condizioni e sopratutto senza le false promesse che sono diventate un contrassegno della cooperazione occidentale. E’ vero che sono infrastrutture che servono anche ai cinesi per acquisire materi prime, ma servono anche localmente, e restano, e sono altamente visibili.

A Nairobi le compagnie di costruzioni cinesi stanno trasformando la faccia della città. La strada per Thika, la cittadina industriale a circa 50 km al nord della capitale, con i suoi 250,000 veicoli al giorno in transito, era diventata un incubo per gli automobilisti. I cinesi la stanno portando a quattro corsie, più due di servizio, in entrambe le direzioni, per un totale di 12 corsie. Il governo keniano finanzia 15% dell’opera, il resto lo finanzia il governo cinese. La gente guarda allibita le gigantesche opere – sovrappassi, sottopassi, svincoli – e approva. Finalmente un cambiamento, finalmente, dopo tante promesse, i fatti.

Già si parla del nuovo porto industriale a Lamu, e del collegamento con i giacimenti petroliferi nel Sud Sudan, quel Sud Sudan che fra una settimana voterà e sceglierà l’indipendenza. Il porto di Lamu sarà più grande del porto di Mombasa e i lavori dovrebbero cominciare entro la metà di quest’anno, il collegamento con un oleodotto, una ferrovia e una strada è un’opera di importanza strategica ed economica assolutamente straordinaria. Chi li costruirà? I cinesi sono i più probabili candidati. Eppure i cinesi hanno terminato oltre 10 anni fa l’oleodotto che dagli stessi giacimenti va verso nord, a Port Sudan, e quindi erano logicamente visti come alleati del Nord contro il Sud Sudan. Nonostante questo non si sono dubbi che i Sud Sudanesi accerteranno senza difficoltà l presenza cinese in un’opera di tanta importanza strategica. I cinesi non mettono condizioni, non fanno domande imbarazzanti sui diritti umani, sulle leggi per la protezione dei lavoratori, sul regime politico. Non pretendono di mantenere il controllo, fanno solo manutenzione se sono pagati. Non fanno neppure obiezioni sull’impatto ambientale. Lamu, che è un gioiello della civiltà Swahili in una laguna da sogno e dove fino ad oggi l’unica auto esistente è quella della polizia, per i resto ci si muove solo a piedi, in bicicletta o con l’asinello, potrebbe essere travolta da un porto di quelle dimensioni, ma questo per i cinesi non è un problema, è un problema per il Kenya, e se il Kenya decide di fare il porto e fanno un debito contratto, loro il porto lo costruiscono a tempo di record.

Le critiche dell’occidente a questa pesante e crescente presenza cinese non mancano, e si focalizzano sul fatto che i cinesi fanno solo puro business. I cinesi non lo negano. D’altro lato l’Occidente ha ben poca autorevolezza politica e morale per denunciare i metodi altrui. Non si può nascondere che i quasi cinquant’anni di cooperazione e aiuti all’Africa dei paesi occidentali sono stati, globalmente, un disastro da tutte le prospettive, dall’ economica alla morale, passando per lo sviluppo e la politica.

Dove dieci anni fa gli europei e americani vedevano solo i problemi, i cinesi hanno visto delle opportunità. Hanno comperato terreni, miniere, partecipazioni in concessioni petrolifere che le compagnie occidentali snobbavano perché sembrava dovessero dare profitti a troppa lunga scadenza. Oggi le acquisizioni cinsi si sono rivelate lungimiranti, in un continente dove gli occidentali cominciano ad accorgersi che non ci sono solo fame, guerre e miseria ma dove da qualche anno gli indici i crescita economica sono in costante ascesa.

Ciò che gli europei vedono in Africa è ancora un po annebbiato dalla loro visione paternalista e condiscendente di vecchi colonialisti. Gli americani stanno aprendo gli occhi, se non altro perché si vedono sfuggire il controllo delle riserve petrolifere africane. Recentemente Micheal Battle, ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Unione Africana, una posizione creata dal Presidente Bush nel 2006, in in incontro tenutosi lo scorso settembre alla University of Virginia, ha detto “If we don’t act now we will miss a golden opportunity in Africa, and wake up to find that China and India have divided up the continent without us.” Battle non avrebbe potuto essere più esplicito, e invece di invocare alti principi di intervento umanitario, cooperazione e sviluppo, ha fatto un discorso tutto centrato sulla necessità di difendere e potenziare la presenza militare americana e di sostenere l’espansione delle compagnie americane nel continente nero. Ha parlato di sollecitare i governi a “harmonising trade rules” e “simplifying regulations”. Un intervento molto concreto, da businessman. Lo stesso discorso che i cinesi hanno cominciato a fare 10 anni fa, e che hanno continuato a fare, riuscendo a non farsi notare, con costante determinazione. Ma oggi la presenza cinese e il suo successo in Africa è cosi evidente che essi stessi non riescono più a nasconderla.

La Luce e le Tenebre, l’Incontro e la Paura

L’amico Seba per Natale ha fatto circolare fra gli amici questa riflessione che gli è nata dentro durante la sua ultima visita a Nairobi. O meglio passeggiando per “il corso” di Riruta, la favolosa Kabiria Road. Ve la ripropongo, col suo permesso.

Da sempre l’oscurità suggerisce all’immaginazione intrighi, storie di contrabbando, traffici furtivi e silenziosi: e allora si chiama penombra; oppure notti di passione, romantiche carezze che prolungano la cena e possono arrivare fino al mattino seguente: e allora si dice a lume di candela.
A me Riruta di notte ricorda il presepe.
Riruta è un quartiere. In altre parti del mondo poteva aspirare al ruolo di cittadina, forse di capoluogo. Ma con intorno una metropoli come Nairobi, diventa una modesta periferia urbana, un prolungamento informale di cittadinanza, uno sparpagliato esistere di baracche ed edifici in mattoni collegati da sterrato.
Perché nella vita la propria statura si decide anche in relazione a chi ci sta intorno.

La sera le persone tornano a casa. Chi a piedi chi in autobus, al termine di una lunga giornata. E’ così in tutto il mondo. Ma è verso il tramonto che Riruta mi appare in tutto il suo fascino, a metà tra penombra e lume di candela. Sarà per le sgangherate bancarelle di verdura che accendono le loro lampade a cherosene; sarà perché ci sono ancora animali che girano liberi e gruppi di caprette che attraversano caotiche la strada stando attente alle poche motociclette, che sopraggiungono a fari spenti; è perché i piedi che calpestano queste strade impolverate a quest’ora si moltiplicano, e le loro vibrazioni risalgono lungo il mio corpo un attimo prima di comprare un cartone di latte dalla ragazza dell’alimentari; sono i neon quasi scarichi della bottega del barbiere che aspetta anche i più ritardatari, sono le mani di una signora che conta e riconta l’incasso della giornata, sono le chiacchiere dei bambini che hanno finito la scuola, i compiti, e persino i giochi; sono gli equilibristi della bicicletta in questo magma di buche e persone; sono i cani randagi, le marmitte bucate, sono gli ubriachi che hanno perso la verve, le note country che si diffondono dalla radio a pile, è il poliziotto; sono le ricariche del telefono grattate e lasciate cadere a terra, i carboni accesi del braciere su cui viene passata una pannocchia, è il predicatore, lo sfaccendato, il conoscente dal saluto cortese, una donna corpulenta.
E’ il passo di un quartiere impegnato nello sprint finale; seguirà il notiziario della sera, un pasto caldo, forse un breve black out, fino a sfumare verso il freddo dell’altopiano che sale dalla terra e percorre le strade.

E’ notte. Attraverso Riruta da un capo all’altro per andare in città e da lì all’aeroporto. Guido col rispetto che merita un’auto presa in prestito, consapevole delle buche.
E’ allora che mi accorgo che qualcosa è cambiato: che fine ha fatto il presepe?
La Riruta al buio, quella con qualche luce a fare intendere che il quartiere continua anche in quella direzione, ma senza capirne bene limiti e contorni. Con le baracche che emergono nella notte, e lampade ad olio sparse qua e là come piccole lingue di fuoco.

L’arteria principale del quartiere ora è scandita da enormi lampioni, simili a quelli da stadio.
La strada è piuttosto illuminata, i passanti si vedono in faccia, e le cose son lì, a portata di mano, senza bisogno di immaginarsele. Inchiodo di colpo. La modernità ha distrutto la poesia anche da queste parti? mi chiedo.
Come apprezzo quando giro di notte in bicicletta per la mia città. La mia città è abbastanza piccola che se uno non si inventa delle scuse la può girare tranquillamente in bicicletta. Ci sono notti in cui nel mio quartiere si spengono i lampioni, per intere vie. Si tratta di guasti, che colpiscono le centraline collegate tra loro. E il quartiere resta al buio. E io godo, perché mi sento a Riruta. Perché non mi sembra più tutto chiaro e preconfezionato; perché mi conquisto ogni metro dovendo usare la vista ed anche gli altri sensi.
Ma non capita tanto spesso, dalle mie parti.

Così maledico l’amministrazione comunale di Nairobi, che si è ricordata di questa baraccopoli solo per toglierle il fascino del presepe, ed ora mi sembra di guidare in mezzo a un campo da rugby.

Qualche sera dopo sono in compagnia di alcune ragazze di Anita’s Home. E’ saltata una lampadina, e sparecchiamo la tavola aiutandoci con torce e qualche candela.
In questi anni le ragazze di Anita mi hanno insegnato così tante cose, che ogni tanto mi concedono un ripasso. Parliamo del buio, di qualche storia a base di fantasmi, cimiteri e spiriti del bosco. Sembra il romanticismo scandinavo. Poi una di loro racconta che la settimana precedente è tornata qualche giorno a fare visita alla nonna, che vive sola in una baraccopoli dall’altra parte della città. Lavora? Sì, lavora. Ma in un quartiere un po’ lontano, come donna delle pulizie. Tornare a casa le prende più di un’ora, e la sera deve fare presto. E’ pericoloso girare col buio. E non per i fantasmi, che sono belle storie da raccontare e far paura ai bambini. Per i ladri; i ladri veri. Quelli sono capaci di prenderti tutto, e di lasciarti con niente. Ci vorrebbero dei bei lampioni, come quelli che hanno messo a Riruta.
Ah..la magia del presepe allora può fare male..?
Prendo attentamente appunti anche questa volta: voler tenere spenti i lampioni a Riruta perché è più affascinante ed evocativo per le poche volte che mi capita di passarci di notte, non si fa. Per chi ci vive, tutti i giorni, sono una grossa risorsa, un aiuto che li fa camminare sicuri anche la notte, in contesti difficili.
Bisogna stare attenti prima di giudicare le cose.

Ma io, penso tra me e me, i lampioni li vorrei levare anche dal mio quartiere. Per far posto a un po’ di mistero. E creare zone dove è pericoloso camminare la notte, come era a Riruta? No.
Bisogna che ne parli con Mary, con Judit, e con le altre ragazze di Anita. Per trovare una soluzione. C’è da coniugare penombra e lume di candela; bisogna che la scoperta ed il fascino innato della natura non vengano schiacciati dall’imposizione della tecnica; al tempo stesso che le persone possano godere delle bellezze incontaminate in tutta tranquillità. Intravedere chi mi viene incontro, e lanciarmi con fiducia nella relazione; cercando di non finire tra le mani di un brigante.
Unire libertà e sicurezza, piacere e garanzia, è una sfida a cui ci richiamano i nostri giorni.
Già, bisogna che ne parli con le ragazze di Anita.
So che loro hanno spesso soluzioni intelligenti.

Miracolo a Natale – Christmas Miracle

G***** è una dei ragazzi che nel giugno dello scorso anno mi aveva accusato di aver abusato di lui. In diretta televisiva, una sceneggiata organizzata da coloro che mi avevano accusato in precedenza, dalla stazione televisiva KTN e da sua mamma. Si, sua mamma si are lasciata accecare dalle promesse di ricchezza, sperava forse di riuscire ad uscire da una vita squallida. G***** non era riuscito a resistere alle pressioni della mamma, che ha sempre amato molto pur conoscendo il tipo di vita che faceva. Dopo tutto è la persona che lo ha messo al mondo e fatto crescere. Il papà non sa chi sia.
Per dopo una settimana, attanagliato dal rimorso, era andato dalla polizia a raccontare tutto: come la mamma lo avesse psicologicamente forzato, come lo avevano istruito fin nei minimi dettagli su quello che avrebbe dovuto dire. Dopo circa sei mesi ha trovato il coraggio di cercarmi e di chiedermi scusa. Ma non ha avuto il coraggio di tornare a Kivuli. Temeva che gli amici di un tempo lo avrebbero insultato e cacciato. La mamma aveva cambiato casa, e lui aveva cambiato scuola, andando in collegio in una scuola a cinquanta chilometri da Nairobi. Durante le vacanze veniva a trovarmi, e mi parlava sempre del suo desiderio di venire a far pace con i vecchi amici di Kivuli, ma poi non trovava mai il coraggio per farlo.
Lo scorso luglio G***** ha compiuto 18 anni, ed ieri sera tardi, pochi minuti prima che iniziasse la Massa della Natività, è arrivato di sorpresa al cancello di Kivuli. Agli inizi era un po timoroso, poi ha trovato solo volti amici e sorridenti, ed ha preso il suo posto in mezzo agli altri. Tutti lo hanno ricevuto con semplicità, come se non lo vedessero dal giorno prima. E’ venuto al cenone natalizio – riso e patate bollite, spezzatino di manzo e le torte più economiche del supermercato tagliate e metà e riempito di marmellata – e poi è andato a dormire nel suo vecchio dormitorio.
Stamattina, quando mi sono messo in azione presto per preparami ad andare a celebrare Messa coi bambini di Kibera, era da solo, seduto sulla panchina di cemento appena fuori dalla porta del dispensario. Mi ha guardato serio e pensieroso, e senza enfasi, con semplicità, ha constato: Kivuli è il posto più bello che abbia mai conosciuto.

Marcia per i Diritti dei Bambini – March for Children’s Rights

Negli ultimi mesi a Nairobi Koinonia ha organizzato alcuni eventi importanti, ma io non son riuscito a tenere il passo. Provo a dar uno sguardo a ritroso, cominciando dall’ultimo evento la Marcia per i Diritti dei Bambini, che abbiamo tenuto a Kibera lo scorso sabato 11 dicembre.

La marcia è stata la conclusione di un lungo percorso iniziato lo scorso luglio. I nostri educatori di strada hanno tenuto oltre una ventina di workshops, coinvolgendo 200 educatori anche di altre ONG, e oltre mille bambini. Durante i workshops si sono aiutati i bambini a riflettere sulle loro situazioni e sui loro diritti e doveri, dando loro la possibilità di esprimersi attraverso il disegno, la recitazione e il canto. La Marcia, che ha attraversato Kibera da una capo all’altro e che ha visto la partecipazione di quasi duemila bambini e giovani, è stata quindi solo l’atto conclusivo.

Il finanziamento che abbiamo ricevuto dalla Fondazione Cariplo, con l’intermediazione del Centro Helder Camara di Milano, ci ha permesso anche di aggiornare il sito web che elenca tutte le comunità, parrocchie, organizzazioni che fanno interventi a favere dei bambini di strada a Nairobi, e di produrre un video, che dovrebbe essere disponibile entro fine mese.

Per l’occasione abbiamo creato una nuova entità, KAP (Koinonia Action for Peace), con un bellissimo logo – il logo di Koinonia in negativo sui colori dell’arcobaleno. L’anno prossimo vorremmo fare di questa educazione ai diritti un processo permanente per tanti bambini non solo a Kibera ma a Riruta, Kawangware, Nkaimurunia, incominciando fin da gennaio.

Diciamo che la marcia è per i diritti dei bambini, ma parliamo sempre anche congiuntamente di doveri, come “tu hai il diritto di mangiare, ma hai anche il dovere di non sprecare il cibo e di condividerlo quando ne hai troppo…” I bambini capiscono questo immediatamente e si sentono responsabili. Un esempio sono i due fratellini nella foto qui sotto che hanno fatto tutta la marcia tenendosi per mano, il più piccolo con una mano sul cuore in segno di impegno e responsabilità.

Buon Natale

Un caro augurio di Buon Natale a tutti.

La sera del 25 alle 11.30 circa ci sarà su Rete 4 un programma sul Kenya – credo intitolato “Storie di Confine”. Sono stato intervistato, e, se mi vedrete quella sera, consideratelo un altro modo per augurarvi Buon Natale.

Avrete probabilmente già tutti visto il comunicato stampa di Koinonia – fatto ampiamente circolare da Amani – in cui si dice che l’Attorney General del Kenya ha dato istruzioni alla polizia di chiudere definitivamemte il mio “caso”, visto che in oltre un anno di indagini non è stata trovata una prova, una persona, che sostanziasse le tremende accuse che mi sono state fate lo scorso anno.

Questo per me è stato il più bel regalo di Natale.

Chi non avesse visto il comunicato, lo trova sul sito di NewsFromAfrica, a www.newsfromafrica.org

Felicità – Happiness

Scritto per World Mission, Manila, Filippine

La costituzione americana si apre con un altisonante dichiarazione di diritto alla felicità. Nella vita quotidiana questa ricerca, in America come in tutti i paesi occidentali, si riduce per molte persone all’accumulo di cose – che siano soldi, gadget elettronici, rombanti auto. L’idea che essere felici coincida con avere molte cose è diventata parte della cultura moderna. Se e quando la felicità mantiene la sua qualità immateriale, diventa “fun”, divertimento. “Have fun” si augura in America a chi va a partecipare ad una festa, ma anche a chi va a un concerto, o a una conferenza o a fare acquisti. Sembra che la vita senza divertimento non sia più vita. Ma la felicità è sinonimo di accumulo e di divertimento?

In contrasto all’ “have fun” americano ci sono le mille quotidiane storie di disperazione. Un segno è che nel sempre più ricco mondo occidentale il numero dei suicidi continua a crescere. Sembra che la crescita del benessere materiale vada di pari passo con un aumento dell’ infelicità, delle malattie della mente – ma soprattutto di quelle dell’anima, come la depressione – e del disperato tentativo di comperarsi la felicità con le droghe, i festini, l’abbigliamento firmato, e tutti i segni esterni dell’apparenza delle felicità. Mi diceva recentemente un amico che vive in Francia “ogni tanto vado per curiosità nei luoghi di divertimento frequentati da mio figlio ventenne, magari con la scusa di offrirgli un passaggio per rientrare a casa. Nel ritorno mi sento sempre angosciato, con la sensazione di aver incontrato mille disperati, mille infelici che credono di divertirsi facendo chiasso tutti insieme e imbottendosi di alcool e altre droghe. Vado in crisi e mi domando se mio figlio va in quei posti solo perché sono di moda i se non ci vada perché non ha mai conosciuto la felicità interiore che in una persona adulta nasce dalla coerenza con le proprie scelte, dall’aver rispettato i proprio valori. E’ un immaturo o una persona senza ideali?”.

Qualche tempo fa, una domenica mattina nella chiesetta di Tubalange, alla periferia di Lusaka. Piccole, povere case di contadini, per lo più costruite in fango e lamiere zincate. Terra rossa, campi ormai secchi dopo che le ultime pannocchie di mais sono state raccolte, Un gruppo di visitatori italiani partecipa alla Messa. Prima della benedizione finale il laico responsabile della comunità mi chiede di presentarli. Poi tutti si mettono in fila per dare personalmente il benvenuto e stringere la mano. Poi qualcuno accenna un ritmo col tamburo, altri si uniscono battendo le mani. Incomincia un canto. Poi un altro e un altro ancora, e entro pochi minuti la piccola comunità di un centinaio di persone canta e balla, le donne ululano di gioia, e gli ospiti sono completamente coinvolti ed esilarati. Dopo la benedizione finale uno degli ospiti mi dice: “Questa è stata la festa più spontanea e più sentita cui abbia mai partecipato. Una cosa cosi non la si improvvisa, può essere solo l’espressione di una felicità che questa gente ha nel profondo del cuore!”.

Qual’è dunque il segreto della felicità? Secondo i filosofi la felicità consiste nella piena realizzazione di se stessi, non può stare nelle cose che possediamo e nei riconoscimenti che riceviamo dagli altri, come prestigio, soddisfazioni, potere. Ma per realizzarci non dobbiamo desiderare ciò che è irraggiungibile, non compatibile con la nostra situazione presente. Oppure evadiamo dal mondo aspirando ad una felicità che può esistere solo un in altro mondo, che è irraggiungibile qui ed ora, come ci propone una certa visione cristiana spiritualista ed oltremondana. O, ancora, possiamo essere felici solo quando raggiungiamo la razionale consapevolezza della nostra situazione esistenziale e controlliamo i desideri, non ne formuliamo di irrealizzabili. Allora si è felici anche quando si è poveri e non si possono comperare medicinali per il figlio malato, perché razionalmente si sa che non si può fare di più.

Ma tutti questi sembrano più che altro modi per evitare la delusione e non precipitare nell’infelicità, piuttosto che una strada per essere felici. Sono una rinuncia a priori, e chi si comporta cosi diventa un cinico che rischia di non sperimentare mai la felicità.

Gitau è un ex bambino di strada di forse dieci anni, con alle spalle una desolante storia di abbandono. Eppure basta anche solo guardarlo con affetto perché il volto si apra ad un sorriso che è l’icona dell felicità. Gitau ha già sperimentato tutte le possibile delusioni del mondo, quelle più drammatiche, l’abbandono della mamma, il tradimento degli amici, e conosce tutti i possibili modi per giocare d’anticipo contro la delusione. Ma Gitau sa di essere una storia dentro una storia più grande, in comunione con le tante storie che ha intorno. Forse, e credo che non sia un’esagerazione attribuirgli certi pensieri anche se Gitau ha appena incominciato a studiare il catechismo per diventare cristiano, ha già capito la visione di Gesù nel discorso della montagna “Beati voi, felici voi….” perché in tutto vedete e respirate la presenza di Dio, e non perdete mai la speranza, anzi la certezza, che Dio e il Suo Amore vinceranno.

Credere nella promesse del Regno dei cieli significa vivere in pienezza già qui, in attesa di una dimensione diversa. Non significa illudersi con ciò che è razionalmente impossibile, ma solo negare la disperazione alimentata dai cultori dei deserti dell’anima. Tanto meno significa negare la felicità terrena in attesa delle felicità futura, ma vedere nel buono e nel bello che c’è qui una bagliore dell’eternità. Felicità è vivere il fatto che la nostra piccola vita e storia ha senso solo all’interno della grande storia della salvezza.

Gitau lo sa. Mi si avvicina e mi dice “Padre, hai tempo per giocare con me?”.La felicità è un dono che solo gli altri, o l’Altro, possono farti. Gitau, cercandola, me la dona.

Piedi e Piatti

Ho appena finito di leggere un libro che mi hanno portato in regalo degli amici italiani, Un arcobaleno nella notte, di Dominique Lapierre. Ben scritto, ma, per i miei gusti, uno stile troppo enfatico, troppa retorica, che alla fine fa passare in seconda linea la storia del Sudafrica che vorrebbe raccontare. Non dà l’idea del disprezzo e abusi che l’intero popolo sudafricano di pelle scura – e un manipolo di bianchi di buona volontà – hanno dovuto sopportare negli anni tremendi dall’apartheid, istituito da un gruppo di fanatici razzisti alcuni dei quali si ispiravano a Hitler.
Di tutto il testo mi ha colpito solo una frase attribuita a Helen Lieberman, una giovane dottoressa bianca che lavorava in un ghetto nero: “Qui, nessuno è mai abbandonato. Un piatto non resta mai vuoto accanto a un piatto pieno. Qui, il cibo è un oggetto sacro di condivisione”.
Mentalmente ho associato questa frase ad una foto fatta lo scorso mese nel nostro Ndugu Mdogo Rescue Centre di Kibera. L’occasione era un incontro di un giorno intero per i bambini che sono ancora sulla strada, riflettendo insieme su ciò che significa per loro la carta dei diritti dei bambini. Era uno dei oltre venti incontri previsti da agosto a fine novembre da un piccolo ma efficace programma, finanziato dal Centro Helder Camara di Milano, che si innesta sulla gestione ordinaria sostenuta da Amani e portata avanti quotidianamente da Koinonia con gli infaticabili Jack e Sabuni.
Abbiamo servito i piatti di cibo su alcune panche, perché l’unico grande tavolo non bastava. Appena Jack , Kevin, Sabuni e Bonny hanno finito di servire, i bambini si sono alzati tutti in piedi, pronti per la preghiera di ringraziamento a Dio.
Il fotografo, credo sia stato Eliud – che con i suoi sedici anni è il maggiore di un gruppo semi-stabile e sta incominciando a fare lavoretti di maggior responsabilità – ha ripreso solo i piatti colmi e i piedi nudi di questi bambini che camminano tutto il giorno per i vicoli di Kibera in cerca di qualcosa da mangiare. Davvero, un buon piatto di cibo ben cucinato, in questo caso polenta e pesce, è un sacramento di comunione.

Le Sfide della Missione – The Most Pressing Mission Challenges

Non c’è niente di più deprimente per un missionario che vive e opera agli estremi confini della chiesa che leggere articoli e libri sulla missione della Chiesa. Esperti e teologi ci spiegano come dovremmo essere e quali azioni dovremmo intraprendere per affrontare le grandi e nuove sfide della missione. Poi , di fatto, si resta soli. Col tempo ogni missionario impara a discernere quali sono le cose che è capace di fare, in cui ha qualche talento da spendere, e, con l’aiuto di Dio, cerca di fare qualcosa al servizio del Vangelo. I fallimenti sono inevitabilmente più numerosi che non i successi. Poi, naturalmente, ti rimproverano di esserti isolato. Ti nasce il dubbio di aver sbagliato tutto, di aver tradito la tua vocazione e il carisma del tuo istituto. Di essere missionario solo per un’etichetta che ti hanno cucito addosso.
Qualche anno fa mi ero iscritto per partecipare ad un ritiro spirituale diretto da un grande teologo e scrittore di temi missionari. Avevo letto alcuni suoi testi e li avevo trovati ricchi di ispirazioni. Il tema era stimolante, “Le sfide per la Missione, oggi”. Il corso si sarebbe dovuto tenere in Malawi, un paese Africano normalmente considerato un paradiso turistico. Ma non lo si tenne, perché il famoso teologo lo cancellò all’ultimo momento quando gli fu detto che in Malawi c’è il rischio malaria… Decisi di usare quella settimana per fare un altro viaggio, ma in Sudan, sui Monti Nuba, in Sudan, dove c’erano cristiani per i quali la celebrazione dell’Eucarestia e del sacramento della Riconciliazione erano un lusso che si potevano permettere solo ogni due o tre anni. Fu un’esperienza che mi vaccinò contro le belle parole, parlate o scritte. Imparai a credere di più alla sapienza delle persone semplici – agli stimoli e alle sfide che ci vengono da loro – piuttosto che alla sapienza dei dotti..
Naturalmente non smisi di riflettere su ciò che facevo e che faccio, e non smisi di leggere tutto ciò che gli altri scrivono sul tema, per lo meno i testi che riesco a trovare. Il tenersi vivi e attenti, vigilare, come ci dice Gesù nel Vangelo, non solo nell’attesa del ritorno del Signore, ma anche per approfondire la conoscenza della società e della cultura della gente in mezzo alla quale si vive, è parte integrale della vita di un missionario.
Dopo questa lunga premessa, è chiaro che le sfide che si parano davanti a me, missionario “di strada” – o, come direbbero a Nairobi, “jua kali” cioè che lavora sotto il “sole cocente” – sono frutto delle mie scelte e di una visione assolutamente personale. Non voglio usare, forse non sarei più capace di farlo correttamente, parole come “pneumatologia”, “modelli di chiesa” e “paradigmi missionari”. Posso parlare delle sfide alla mia vita di missionario solo ripensando agli incontri che ho avuto in questi ultimi tempi, agli sguardi che hanno cercato i miei occhi, ponendomi domande magari senza neppur aprire bocca.
Jeannine è nata in Ruanda. Ne è fuggita nei mesi immediatamente seguenti il genocidio del 94, aveva 19 anni, ed è arrivata a Nairobi insieme alla mamma dopo due anni di calvario fra Burundi, Tanzania e Uganda. Adesso è sposata con un connazionale, hanno tre figli, lui fa lo scultore di legno a Kivuli, il centro per ex bambini di strada dove vivo, lei fa i lavori di casa, e,da pochi mesi, cioè da quando i rifugiati ruandesi in Kenya possono legalmente risiedere in Kenya e quindi non si devono nascondere ogni volta che passa un poliziotto, quando ha tempo libero si mette fuori dalla porta della baracca che affittano a Kawangware per abbrustolire e vendere ai passanti pannocchie di mais. Ma questa non è la sua casa e la sua cultura. Vorrebbe rientrare ma non si sente sicura. Lo stesso vale per i molti sudanesi che sono venuti qui ai tempi della guerra civile nel loro paese, e non vogliono tornare perché temono che la pace non duri. I rifugiati a causa di guerre nel mio quartiere sono almeno uno su cinque.
Denis invece è un keniano di 16 anni. La mamma è single, economicamente arrivata, di quella prima generazione keniana di donne emancipate che hanno voluto avere un figlio senza avere un marito. Denis frequenta una scuola privata di ottima reputazione, pagando una retta mensile che corrisponde al salario mensile medio di tanti lavoratori a Nairobi. E’ un privilegiato. Eppure domenica scorsa mi si è avvicinato fuori dalla chiesa dicendomi che voleva confessarsi. Ma come fai a confessarti se non sei cattolico? In realtà Denis voleva fare un colloquio per parlare delle paure e dei sogni del suo futuro, del suo confuso desiderio di approfondire il suo rapporto con Gesù e entrare nella chiesa cattolica, dalla sua incerta identità sessuale, della sua disperata necessità di qualcuno a cui chiedere consigli per orientarsi nella foresta della vita. Mi dice una frase rivelatrice: “I nostri anziani, al villaggio, diventavano adulti attraverso l’iniziazione. Io sono diventato adulto guardando la televisione. Non posso negarlo, mi piace, mi fa sentire in contatto col mondo. Ma non trovo risposte alle mie domande. Mia mamma? E’ un’estranea, anche se le voglio bene perché mi dà tutto”. I giovani in tutta l’Africa non hanno più guida. Le statistiche da decenni ci dicoo che in Africa il 50% della popolazione ha meno di 18 anni. Anche se in molti di loro c’è una forte domanda di spiritualità, la chiesa riesce a raggiungerne pochi, e spesso in modo superficiale, per mancanza di personale apostolico.
Kivuli è punto di ritrovo anche per un gruppo di giovani Luhya, numericamente la seconda etnia del Kenya, tutti adolescenti o poco più, tutti immigrati recentemente dalla stessa zona, tutti in cerca di una borsa di studio e di un lavoro per poter studiare la sera. Anche loro in cerca di un senso per la loro vita. Si ritrovano quasi ogni giorno, si scambiano storie di frustranti giornate sui marciapiedi di Nairobi e si divertono facendo un po di danza e di teatro. Hanno ancora grandi speranze ed un grande senso dell’umorismo sulla loro situazione. Ieri Kasuko, una bellisssima ragazza, imitava gli atteggiamenti lascivi di un potenziale datore di lavoro, mentre Kevin raccontava come avesse rischiato il linciaggio per aver inavvertitamente urtato un anziano passante che si è messo ad urlare “al ladro!”, temendo fosse un borsaiolo. Charles invece è troppo stanco per continuar a andare in giro a cercare un lavoro decentemente retribuito – non chiede molto, gli basterebbero 100 euro al mese – ed ha deciso di aiutare una zia dandole il turno per vendere frutta in un banchetto abusuvo, ai margini della strada. Il papà è una dei tanti sconfitti dalla città, ormai permanentemente ubriaco. Eppure questi ragazzi, nonostante le esperienze negative che hanno sotto gli occhi, continua ad inurbarsi in cerca dell’eldorado, anche perché in campagna, dove in teoria potrebbero avere un vita più dignitosa, il governo non provvede i servizi essenziali.
Mameo è un prode guerriero Samburu. O meglio, lo era. Adesso è venuto in città per accumulare qualche soldo prima di sposarsi, e fa la guardia privata nientemeno che a Kibera, lo slum più grande e più povero di Nairobi. Il primo lavoro, che fa tuttora, è stato per i residenti di un gruppo di baracche poverissime dove non si capisce che cosa si potrebbe rubare. Lo hanno assunto per fare la guardia durante il giorno, quando sono tutti fuori per lavoro, a parte un bambino di 4 anni, gravemente malato, che la mamma è costretta a lasciare in casa da solo. Lo pagano 40 centesimi di euro al giorno. Poi ha trovato lavoro anche come guardia notturna per una famiglia della classe media, in un quartiere residenziale a poca distanza. Quando dorme? Risponde serio serio, non c’è tempo per dormire, adesso devo raccogliere i soldi per poter sposare una buona ragazza. Sospeso fra nomadismo e vita urbana, Mameo è nomade anche religiosamente, ogni domenica va in una chiesa diversa, dove gli capita di passare. Par lui la chiesa non è importante, l’importante è pregare il Creatore.
Sabato il gruppo di donne volontarie che una volta alla settimana vanno a visitare e incoraggiare persone che hanno l’AIDS conclamato, o sono comunque gravemente malate, avevano solo storie tristi da scambiarsi. Due dei loro malati, su circa centoventi, erano morti nella settimana precedente. Altri si stanno lasciandosi morire, avendo perso la speranza di poter accedere ai farmaci antiretrovirali. Un bambino è morto di malaria, e la tubercolosi continua a rovinare vite. Ammalarsi anche di una malattia curabilissima nel mondo ricco, in Africa è una condanna a morte. Agnes scuote la testa, sconsolata, “La cosa migliore che possiamo fare è aiutare i malati a morire sereni, affidandosi a Dio”.
A Kibera, vicino alla casetta che ospita il nostro progetto di prima accoglienza per bambini di strada, vive Musa, musulmano quarantenne. Non un fanatico, ma di fede granitica. Commercia in vestiti usati e nel tempo libero fa l’allenatore di un gruppo di giovani che praticano la lotta tradizionale. Un paio di mesi fa mi ha rivolto la parola per la prima volta, avvicinandomi con un discorso conciso e ovviamente preparato con molta cura: “Mister Kizito (così mi ha chiamato), sono due anni che osservo ciò che tu e gli altri di Koinonia fate per il recupero dei bambini e l’educazione dei nostri giovani. Mi piace ciò che fate. Perché non facciamo delle attività insieme?”. E’ nata cosi l’iniziativa di una competizione di lotta tradizionale. E’ facile collaborare con Musa, è un uomo giusto, senza inganno. Spero che insieme si possano fare anche cose più impegnative a livello di formazione umana.
Sono tutti questi volti che mi vengono in mente. Con loro sono parte del fiume della vita , che mi porta e mi fa sentire immerso nell’inesauribile e sempre mutante complessità della condizione umana. Sono persone povere, umili, che faticano a mantenere se stessi e la famiglia, ossessionati dal mettere insieme ogni giorno qualcosa per mangiare, per pagare l’affitto a fine mese. Sono persone che in molti modi sono in transizione, fra la tradizione e la modernità, in balia di forze sociali, economiche e culturali immensamente più forti di loro. Quando si parla con loro di Dio manifestano una fede genuina. Sono aperti al Vangelo anche se provengono da tradizione religiose diverse. Hanno una carica di speranza e positività che li aiuta a superare difficoltà inimmaginabili.
Io, proveniente da un mondo impregnato da un grande senso di superiorità culturale, rafforzata dalla supremazia tecnologica, con queste persone, non con altre, vorrei condividere il Vangelo di Gesù di Nazareth, anch lui un popolano povero, semplice e buono, un uomo che era capace di avvicinarsi a tutti, con comprensione, affetto, per farli rinascere portarli a Dio Padre. Gesù, che vuol bene alla gente, che accetta tutti e perdona tutto a tutti, che a tutti tende una mano invitandoli a crescere in umanità accettando l’amore del Padre.
Come essere missionario per tutte queste persone che incontro? Quali sono le sfide che mi pongono? Potrei elencare i problemi di giustizia e pace legati alla povertà e al mancato sviluppo, l’urbanizzazione, l’attrazione di una cultura moderna che è impregnata di materialismo, il dialogo con le fedi diverse, sopratutto l’islam. Queste sembrano essere, almeno per me in Africa, le sfide maggiori che ci vengono dall’esterno. C’è una serie di altre sfide che nascono dalle nostre insufficienze di chiesa e di missionari, e che potrebbero essere elencate come: tendenza a presentare la fede come fosse una serie di precetti piuttosto che come rapporto personale con Gesu risorto; la poca attitudine al cambiamento, e quindi l’incapactà di promuovere un’ inculturazione profonda, che non riguardi solo l’esteriorità come gli strumenti musicali o la gestualità durante le celebrazioni, ma le relazioni comunitarie e la formazione cristiana di un popolo di giovani; una presentazione della sessualità umana che ancora risale, nel migliore dei casi, ad una elaborazione fatta in Europa alla metà del secolo scorso, centrata sul cosa non si può fare piuttosto che sul come essere.
Ma la sfida vera sono sono le persone, il loro bisogno di senso e di relazioni. Non un problema, ma una ricchezza, la sola autentica ricchezza della chiesa. La metodologia missionaria è la metodologia di Gesù: andare diritto al cuore delle persone e costruire relazioni e comunità. Se sono cristiano posso guardare agli altri solo come a fratelli o sorelle da capire e da amare. Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo protestante così vicino alla gente da morire in campo di concentramento nazista, ha sintetizzato in una frase l’atteggiamento con cui bisogna bisogna porsi di fronte altri: “Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Chi non sa ascoltare il fratello ben presto non saprà neppure più ascoltare Dio.”
Allora, certamente, la sfida più grande è la mia conversione.

Sudan: Grandi Manovre – Great Manoeuvres

Per anni è stata la “guerra dimenticata” per antonomasia. Ogni volta che un giornalista “riscopriva” che in un angolo d’Africa chiamato Sudan – un angolo per modo di dire, visto che il solo Sud Sudan è vasto ben oltre tre volte l’Italia – c’era ancora in corso una guerriglia cominciata nel 1982, l’inevitabile cliché diventava parte del titolo. Poi, da quando il 9 gennaio 2005, dopo due anni di negoziati, a Nairobi è stato firmato un complicatissimo trattato di pace – che gli addetti ai lavori chiamano Comprehensive Peace Agreement (CPA) – è diventata la “pace dimenticata”. In attesa che si riaccenda la guerra?
Scetticismo a parte, è impressionante che ci siano stati tanti sforzi per far terminare la guerra e poi si sia fatto molto poco per consolidare la pace. Stati Uniti ed alleati europei non hanno esitato e evocare, durante i negoziati, sia al Nord che al Sud, da un lato, il bastone di sanzioni internazionali, tagli alla cooperazione e isolamento politico e, dall’altro, la succulenta carota dello sviluppo economico, esportazioni di petrolio senza limiti, abbondanti aiuti umanitari. Oggi però sembrano tutti disinteressati a quanto sta avvenendo.
Ho visitato il Sud Sudan poco tempo fa. Le aspettative e le emozioni in preparazione del referendum previsto dal CPA entro gennaio 2011 hanno creato un’atmosfera di euforia che offusca i pericoli reali. La popolazione è chiamata a scegliere tra una forma di federazione col Nord e l’indipendenza. Non ho mai conosciuto un sudsudanese che non volesse la completa autonomia dal Nord. Nemmeno John Garang, che pure affermava la sua voglia di unità solo per ragioni di politica internazionale.
Che quindi il prossimo gennaio il Sud Sudan voti quasi unanimemente per l’indipendenza è scontato. Le divisioni storiche, culturali, sociali, religiose fra il Nord e il Sud sono troppo profonde per essere sanate in cinque anni. E questo era facile da prevedere. Ma si dovevano prevedere e prevenire anche le condizioni che potrebbero portare al ritorno della guerra, o alla frammentazione del Sud Sudan in un non-Stato, che rischia di assomigliare molto da vicino all’attuale Somalia.
È evidente, infatti, che il Nord non ha nessuna intenzione di lasciar che il Sud si separi, portandosi via tutto il petrolio che contiene, e farà di tutto per dividerlo e indebolirlo.
In settembre, il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, in un discorso a un comitato del Congresso americano, ha solo brevemente accennato al Sudan. Rispondendo a una domanda specifica, ha aggiunto che i rapporti fra Nord e Sud Sudan, nel contesto del referendum che si sta preparando, sono «una bomba a orologeria pronta a scoppiare». Bella scoperta!
La lista dei ritardi e delle inadempienze del CPA è lunga. Non solo si è fatto poco per rendere l’unità del Paese appetibile ai sudisti, come prevede il CPA, ma si è stati a guardare – o si è fatto finta di non vedere – che le due parti si stavano riarmando. Si sono lasciati proliferare gli abusi dei diritti umani e la corruzione. Si sono accettate senza batter ciglio le elezioni come quelle dello scorso aprile, ben lungi dall’essere libere e democratiche. Si è lasciato che nel Sud si consolidassero le tendenze accentratici e dittatoriali dell’Splm. Il Sud Sudan – o comunque si chiamerà il nuovo Stato che nascerà dall’inevitabile scissione – sta ripetendo tutti i peggiori errori delle indipendenze fallite. Come il Congo, la Nigeria, la Repubblica Centrafricana, per nominarne solo alcune: Paesi che dopo anni di indipendenza formale sono ancora tutti da inventare come Stati dignitosamente indipendenti.
Per il Sudan l’inadempienza più grave, nonché quella che potrebbe avere le conseguenze più drammatiche – è connessa alle rivendicazioni sugli enormi campi di petrolio che giacciono sul confine fra Nord e Sud. Confine che avrebbe dovuto essere definito entro sei mesi dalla firma del CPA e che non è ancora stato demarcato. Alcuni lunghi tratti non sono ancora tracciati per ragioni etniche, altri sono stati contestati. Ormai il tempo stringe. Superare l’impasse non è più solo un compito da tecnocrati: deve intervenire la volontà politica di Khartoum e di Juba.
Invece la tensione sale ogni giorno. Alle tanto bellicose quanto inopportune dichiarazioni dei rappresentati del Sud, il Nord reagisce ostacolando metodicamente il dialogo e il lavoro di preparazione del referendum. Più si avvicina il mede di gennaio, più aumenta la possibilità che si torni a un conflitto armato. Non c’è volontà di superare insieme gli ostacoli, piuttosto ciascuna delle due parti fa ogni possibile mossa perché, nel caso si ritorni al conflitto armato, la responsabilità appaia essere dell’altra parte.
La minoranza di islamisti intransigenti e fanatici che controlla il Nord sembra contare sulla sua capacità di lasciar passare le tempeste, riassorbire il dissenso, alimentare le divisioni nel campo avversario. Vedi il silenzio mediatico che sono riusciti a far calare sul Darfur, nonché l’inefficacia del mandato di cattura spiccato da parte della Corte Penale Internazionale contro il Presidente Omar al-Bashir.
Forse il Sud pensa che, nel peggiore dei casi, sia possibile una veloce guerra di secessione, immaginando si essere appoggiati dalla comunità internazionale. I leader sudisti, infatti, non si considerano più dei “ribelli”, ma rappresentanti democraticamente eletti dalla popolazione, in elezioni che sono state per lo meno formalmente riconosciute come libere.
Anche lo scontro per il controllo delle riserve petrolifere, con tutti i mezzi e mezzucci possibili, é inevitabile.
A meno che non ci sia qualche accordo o qualche piano conosciuto solo nei corridoi della diplomazia internazionale, e delle companie che commerciano in armi. Non è possibile, infatti, che Hillary Clinton e la cosiddetta “comunità internazionale” non si accorgano di cosa sta succedendo, non abbiano previsto tutti gli scenari possibili e non abbiano dei piani di intervento. Davvero Obama e la Clinton stanno solo ad aspettare che la bomba ad orologeria scoppi prima di intervenire? Il Sudan non è solo terreno di scontro economico. È un banco di prova importantissimo per i rapporti fra Stati Uniti e mondo arabo. Agli inizi degli anni Novanta, Khartoum era la base operativa di Osama bin Laden e senz’altro molti nordisti sarebbero pronti a dare ospitalità ad Al-Qaeda. In questo scenario, un nuovo conflitto armato in Sudan sarebbe un fattore di destabilizzazione gravissimo, in un Corno d’Africa che è già una polveriera.
L’indipendenza del Sudan, sia del Nord che del Sud, è ancora un lungo e difficile processo, ad alto rischio di diventare sanguinoso. E’ un treno in corsa, e se anche al momento alcuni dei manovratori paiono distratti, saranno loro che al momento opportuno cercheranno di intervenire per determinarne la direzione.

Famiglia Cristiana Online

Sto faticosamente tentando di scrivere un blog che riassuma come personalmente vedo l’evoluzione del “processo di pace” del Sudan. Spero di finire entro la settimana.

Intanto vi segnalo una serie di interessanti servizi di Luciano Scalettari, su Kenya e Uganda, che trovate sul sito di Famiglia Cristiana. Non è necessario essere abbonati. Il primo servizio è a:

http://www.famigliacristiana.it/Informazione/i-grandi-servizi/articolo/l-africa-che-spera-1—i-palazzi-di-kibera.aspx

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