La cronaca politica – o criminale? – italiana che mi capita di leggere sembra quella di un paese che non conosco, o non conosco più. Si resta indignati, ma poi? Poi, quando si va a votare, certi personaggi, come Speroni e Castelli – lecchese, ahimè – vengono rieletti. Allora davvero è un paese ch non riconosco più. Non ho parole. Ho letto molti commenti alle parole di Speroni e di Castelli, Quello dei cristiani di Busto Arsizio che allego é forse un po retorico. Ma bisogna riconoscere che è difficile commentare idiozie criminali come quelle che dicono quei due.
Lettera ai cristiani di Busto della Comunità Cristiana di base – 14.04.2011-1
Commentare è Difficile
Il Perdono
Nella scuola superiore dove ogni tanto mi chiamano per parlare agli studenti e celebrare una Messa ho notato che i ragazzi non hanno idea di che cosa sia la confessione. Allora organizzo una catechesi di un paio d’ore. Incomincio chiedendo quali sono secondo loro i valori che Gesù ci ha insegnato. Ne fanno un elenco completo e molto partecipato, si sente che molti di loro hanno capito il messaggio del Vangelo: amore per il prossimo, pace, giustizia, perdono, misericordia, verità, servizio, …. Devo interromperli perché non diventi troppo lungo. Ma l’intervento più inaspettato è quello di Joseph, un sedicenne che frequenta la prima superiore. Joseph, probabilmente per una poliomielite, ha una gamba molto debole, che a volte cede, e quindi si aiuta con una stampella. E’ sempre allegro, e prende sportivamente il fatto che ogni tanto ha bisogno dell’aiuto dei suoi compagni di classe per muoversi e per non cadere. Si fida anche molto di loro, e c’è sempre qualcuno pronto a sostenerlo.
Mentre facevamo l’elenco, subito dopo che uno studente ha detto che il valore più importante è l’amore per Dio e per il prossimo, Joseph alza la mano e, prima ancora di aver ricevuto il permesso di parlare (inusuale, perché un Africa anche i giovani danno molta importanza alla parola e rispettano il diritto degli altri a parlare, osservando semplici regole di dialogo, insomma non si comportano come nei dibattiti televisivi in Italia) dice “la gioa!”. Gli chiedo perché. Mi risponde senza esitazione che un cristiano é sempre contento perché il Signore è risorto, è vivo, ci è vicino. Mi colpisce una risposta cosi profonda e esposta in un modo molto sentito, e la sottolineo perché tutti la capiscano. Poi continuiamo con l’elenco e con la catechesi. Le loro sollecitazioni fanno emergere come la confessione, oltre a donarci il perdono di Dio, sia importante per mantenerci in pace con gli altri, e per continuare a camminare nella direzione giusta. I Masai, dice uno di loro, sanno dove andare a cercare pascoli sufficienti per le loro mandrie anche durate la stagione secca. Se sbagliano direzione mettono a repentaglio la vita degli animali e la loro stessa a vita. Anche noi dobbiamo verificare continuamente dove stiamo andando. Ci stiamo muovendo nel solco della parola di Gesù o nel perseguimento dei valori del mondo?
Dopo una settimana sono in confessionale, cioè in sala professori. Esce un penitente e ne entrano due, uno dei quali è Joseph. Penso mi vogliono avvertire dire che mi stanno aspettando per la Messa. No. Si siedono entrambi sulla panca di fronte a me, e Joseph dice “ci vogliamo confessare insieme perché ci eravamo antipatici, ci facevamo dispetti, a volte dispetti veramente cattivi, ma abbiamo capito che era una cosa sbagliata e per di più anche stupida”, poi prima che mi riesca di dire qualcosa ognuno dei due fa una confessione sincera e completa, di fronte all’altro. Una confessione da ragazzi di quell’età, ma molto onesta , personalizzata, sentita. Do penitenza e assoluzione individuale mentre fra di me cerco di analizzare la stranezza di questa confessione “pubblica” e se ci sia qualcosa che ne infici la validità. Ma sono entrambi evidentemente liberi e contenti di aver fatto pace. Successivamente mi viene un dubbio, parlo loro dopo la Messa, e capisco che nessuno dei due è cattolico, appartengono a due diverse chiese cristiane, dove la pratica della confessione non esiste. Il perdono però lo sanno praticare.
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Una statistica ufficiale ci ha fatto sapere, se ne avessimo avuto bisogno, che il costo del cibo nei mercatini di Nairobi dove si vendono le cose di uso quotidiano è cresciuto del 50 per cento in un anno. Uova, carne, ma anche patate, cavoli, carote, cipolle, sukuma wiki, tutto è vertiginosamente aumentato. Invece i salari sono rimasti gli stessi. Eppure lo stesso ufficio di statistica poche settimane fa annunciava solennemente che l’economia del Kenya negli ultimi due anni ha registrato una crescita di quasi il 7 per cento annuo. Ma chi ne beneficia?
Chirurgia Povera e Vita Piena
In viaggio verso i Monti Nuba (Nord Sudan secondo la geografia politica, Sud Sudan secondo la geografia etnico-culturale) mi son portato due libri sul Sudan di recente pubblicazione in Italia. Non so chi sia proprietario della casa editrice, ma son felice che ci siano ancora editori che pubblicano lavori su temi cosi “secondari”. Se si leggesse di più, cominciando dalla scuola, sui popoli “altri”, si allargherebbero anche i nostri orizzonti mentali, culturali e politici.
“Sudan: Un Conflitto Dimenticato. La lotta del popolo Nuba per non scomparire” di Andrea Bartolini, L’Harmattan Italia, 2010
Per i pochi che si interessano da qualche tempo delle attività di Koinonia e di Amani, questo è un tema ben conosciuto. Bartolini ne presenta una sintesi storico-politico stringata ma precisa e che aiuta a cogliere gli elementi più importanti di un quadro estremamente complicato, inserendo la questione Nuba nella storia del Sudan, partendo dal tardo ottocento fino ad oggi.
La conclusione di Bartolini resta attuale anche oggi, dopo che il Sud Sudan ha manifestato con un referendum pacifico la sua volontà di indipendenza dal Nord, che diventerà ufficiale il 9 luglio prossimo con la nascita della Repubblica del Sud Sudan. Decisione che sancisce definitivamente l’appartenenza dei Monti Nuba (ufficialmente South Kordofan) al Nord Sudan, perché cosi previsto dall’accordo di pace che il Sud ha siglato con il Nord il 9 gennaio 2005.
“Proprio la possibile secessione del Sud, rappresenta un fattore di tensione per la leadership Nuba, perché ciò vorrebbe dire trovarsi isolati all’interno di un’amministrazione che fino a qualche anno fa si è macchiata di atroci delitti e politiche da diversi autori definite genocidarie, senza poter sperare nell’appoggio degli alleati meridionali.
Ancora una volta, i Monti Nuba sembrano essere stati trattati come merce di scambio nel confronto fra Khartoum e Juba, e la situazione non potrà che peggiorare senza una forte volontà di democratizzazione e un impegno serio e puntuale per risolvere le cause che sono state alla base della sollevazione in queste zone, prime fra tutte la depredazione delle risorse naturali e umane e la politica di arabizzazione”.
In altre parole, o il Nord Sudan diventa uno stato democratico moderno e riesce ad amministrare le diversità etniche e culturali come una ricchezza piuttosto che come una minaccia, o continuerà a frammentarsi fino a scomparire. Una speranza che Bartolini non ha prevista – nessuno l’aveva prevista – potrebbe venire dalla “rivoluzione araba” che sembra essere fallita in Libia ma potrebbe avere possibilità di successo a Khartoum, pur in una contesto ben diverso da quello della Tunisia e dell’Egitto.
Il libro di Bartolini è il risultato di una seria ricerca storica e politica, ed è ciò che ci si aspetta da un giovane che si interessa d’Africa da pochi anni. Invece il libro di Giuseppe Meo – “Africa Malata. Memorie di chirurgia povera in Sudan”, della stessa casa editrice, é il frutto di una vita appassionatamente spesa a fianco dei malati negli ospedali più dimenticati dell’Africa. L’ho letto con attenzione perché Meo l’ho conosciuto vent’anni fa e siamo diventati amici, pur incrociandoci troppo raramente. Vi ho trovato pagine che di grande interesse sui principi della chirurgia povera e sulla connessione fra povertà e malattia, che mi hanno confermato la visione che ha sostenuto questo esperto di “chirurgia povera”. Ma sopratutto vi ho trovato, espressa con parole quotidiane e molto misurate, una profonda spiritualità.
Si, il titolo non deve ingannare, questo è un libro di spiritualità. Fra le righe emerge una visone del mondo che è profondamente cristiana, e un senso della propria professione – che sia la chirurgia od altro non importa – come autentico servizio agli altri. In ogni pagina il lettore trova spunti che costringono a riflettere. Mi rendo conto di quanto deve essere stato difficile per lui, sempre riservato, scrivere un testo cosi, mettendo insieme le note che ha raccolto nel corso dei sui viaggi, e nello stesso tempo facendo capire le motivazioni del suo agire.
E’ un libro da raccomandare ai giovani che cercano la proprio strada e vogliono realizzare la pienezza di vita.
Mentre leggevo questi due testi ho viaggiato per i Monti Nuba e sono sulla via del ritorno. Ho visto tante scuole, tanti giovani, (allego qui sotto una foto fatta nella scuola he era di Kerker, adesso trasportata a Sarbule) ho sentito mille opinioni e mille promesse di impegno al servizio della propria gente. Ma cosa succederà durante e dopo le elezioni previste per la prima settimana di maggio?? Chi si impegnerà per un cambiamento positivo e chi si adatterà a qualunque cambiamento avvenga per amore di vita comoda? In incontrato uno dei figli di Philip Ghaboush, prete anglicano a padre del risveglio dell’identità Nuba, fondatore nel 1965 del General Union of the Nuba (GUN). Mi dice: Nei prossimi mesi ci saranno dei passaggi decisivi per valutare il progresso del Sudan verso la modernità. La proclamazione dell’indipendenza del Sud Sudan sarà un atto importante. Ciò che avverrà qui sui Monti Nuba dipende solo da noi. O diventiamo padroni del nostro destino nei prossimi dieci anni, o scompariremo come Nuba. I nostri figli allora non sono non saranno più Nuba, ma si vergogneranno di essere nati da noi.
Un Angelo in Incognito
Ho un amico, A., che vede gli angeli. A volte anche li fotografa, e lì incominciano i problemi fra di noi, perché se non ho ragioni per metter in dubbio le visioni che mi racconta, le sue foto mi lasciano più scettico. La mia formazione da perito meccanico e da fallito aspirante fotografo mi fa vedere una lampadina sovraesposta dove lui vede una presenza angelica. Dove lui, in una foto fatta nella nostra casa di Ndugu Mdogo a Kibera vede il dito di in angelo che indica il cielo e sullo sfondo il volto di un altro angelo, io vedo una combinazione di errori di messa a fuoco e di esposizione per cui il ditino che Wallace stava per mettersi nel naso è risultato chiarissimo mentre la sciabolata di sole sul viso di Eliud circondato da volti neri nella stanza buia gli dà effettivamente un aspetto evanescente, eventualmente però più simile ad un fantasma che ad un angelo.
Settimana scorsa A. mi ha scritto, mettendo altri due amici in copia, di aver visto in una trasmissione televisiva in Italia due persone che dicono di aver fotografato degli angeli durante un incidente aereo, poi finito bene. Adesso A. li vuole contattare per comparare le foto. Uno degli amici in copia, B., che è un vero mistico e che scrive bellissime poesie, gli ha risposto: “io lascerei perdere le “immagini” del sacro. Nei suoi bellissimi scritti San Giovanni della Croce (insieme ad altri grandi mistici) ci suggerisce come ci si debba liberare delle manifestazioni “sensibili” di Dio, false o autentiche che siano. Penso che l’unica cosa interessante sia la ricerca di Dio nel cuore, dove non vi è nulla di eclatante ma solo un rapporto profondo di amore silenzioso, oscurato da tenebre che lo custodiscono.”
Partecipo a questo scambio di corrispondenza in email mentre sono a Lusaka., in visita a Mthunzi, e, pur nel mio scetticismo, il pensare agli angeli ha stimolato una riflessione sulla vera natura di Noah. Che é un ex bambino di strada come tanti altri, che non emerge in nessun modo, solo un po più timido e obbediente. E’ arrivato da noi lo scorso giugno, avrà sei anni adesso, ed ha cominciato a frequentare la prima elementare all’inizio di quest’anno. Una caratteristica che lo distingue è di essere l’unico bambino africano che ho conosciuto in quasi quarant’anni – il mio primo viaggio in questo continente ormai risale al luglio 1971 – che non balla, non canta, non suona il tamburo, non batte il tempo in nessun modo. Ma la caratteristica più straordinaria è il sorriso.
Noah ha sorriso trasognato, interrogativo, sorpreso, ma pieno di dolcezza e di comprensione. Che non ti prende in giro, non giudica. E’ impregnato di una sapienza che viene da lontano ed ha una sfumatura di distacco, a volte di scetticismo. Che non ti mette a disagio, anzi, ti fa sentire benvoluto . Sembra che dica, mentre si mette in disparte e guarda gli altri che ballano improvvisando un ritmo su una pentola rovesciata. “ma guarda questi simpatici mattacchioni, chissà perché si divertono a fare sta cosa, comunque sono proprio bravi”. Altre volte si guarda intorno con un sorriso perplesso, come si domandasse “ma io qui, come ci son capitato?”
A. mi ha contagiato, ed ho cominciato a pensare che Noah sia un angelo in incognito. Ma quando ho tentato di fotografare quel suo sorriso più enigmatico di quello della Gioconda non sono mai riuscito a catturarne il mistero. In foto diventa un sorriso qualsiasi. Al contrario delle foto di A., dove si vede ciò che non esiste, le mie non riescono a catturare ciò che è visibile a occhio nudo. Ve ne metto qui sotto una delle tante che gli ho fatto in questi giorni, sempre insoddisfatto per non essere riuscito a cogliere le misteriose e mutevoli qualità del suo sorriso.
La sera, ogni volta che rientro a Lusaka, godo di uno straordinario privilegio; sono l’unico spettatore di uno spettacolo che i bambini di Mthunzi fanno solo per me. Mettono una comoda sedia al centro dello spazio che usano per questo scopo, io mi ci siedo, e tutti vanno in scena. Lo staff non assiste perché ha visto questi spettacoli centinaia di volte. I bambini si scatenano e fanno cose straordinarie. A me sembra sempre che questi spettacoli siano immensamente più belli di quelli che fanno davanti agli altri, perfino di quelli che li ho visti fare in Scozia, durante una delle loro uscite internazionali.
Da quando c’è Noah, il rito cambia, perché anche lui fa lo spettatore. Si siede in terra, davanti a me,e usa i miei stinchi come schienale. Ogni tanto si gira e mi guada in su, con un sorriso che vuol dire “ma ti rendi conto di quanto siano bravi questi miei fratellini?”
In una cosa Noah non assomiglia per niente agli angeli. A tavola mangia fettone di polenta con manciate di pesciolini secchi che a me manderebbero in catalessi. Forse già mentre contemplava il volto di Dio dall’inizio dei tempi, pensava ad una pausa con “pulenta e pesit”, come si usava a Lecco, e adesso che ne ha l’occasione non si tira indietro. Non lo so, non mi faccio domande di spiritualità o di teologia, mi dico solo che – sia un angelo in libera uscita o un bambino con anni di fame arretrata – io ho la responsabilità di nutrirlo. Se è a Mthunzi é perché doveva venire qui.
Ieri notte, dopo lo spettacolo, ho fatto un sogno. Era la fine del mondo, e mentre mi avvicinavo agli angeli incaricati di discernere gli eletti, ho pensato che non fossero molto simpatici, e che poi magari erano fra quelli che si divertivano a giocare a nascondino nelle fotografie di A. Un gioco un pò sciocco, a dir poco. Ho fatto male, perchè evidentemente mi hanno letto nel pensiero, mi hanno afferrato e buttato come un sacco là dove c’è pianto e stridore di denti. Mentre cadevo nel baratro, due manine, odorose di pesce secco, mi hanno afferrato e portato al cospetto di Dio. E Noah, con la sua vocina intercedeva per me “Perdonalo, Padre, è stato davvero per tanti un rompiscatole non da poco, ma con me è stato buono, mi ha dato tante buone cose da mangiare, non dimenticherò mai la sua pulenta e pesit”. E Dio ha sorriso e mi ha preso a riposare nelle Sue Mani.
Erano Sette Bambini Impauriti
Sabato scorso la polizia ci ha portato dodici bambini a Ndugu Mdogo Home, a Kerarapon., e due bambine alla Casa di Anita, dopo aver forzatamente chiuso la casa che li ospitava, a una decina di chilometri da noi. Ci hanno raccontato che in quella casa c’erano oltre cento bambini, con camere, cucina e servizi insufficienti, con pochissimo cibo e una routine quotidiana quasi militaresca, i bambini costretti ad ascoltare istruzioni su temi che non capivano. L’assurdo è che molti dei bambini hanno una famiglia normale e avrebbero potuto essere a casa, tanto che il papà di uno dei bambini portati da noi è un piccolo commerciante della zona, benestante secondo tutti gli standard.
Perché allora erano in una casa per bambini di strada? I responsabili della piccola associazione che gestiva la casa, quando si aspettavano la visita di un gruppo di donatori europei, e volevano far vedere di avere la casa piena e di conseguenza aver bisogno di sostanziosi aiuti economici, andavano nelle zone più povere di Ngong e proponevano ai genitori di lasciare che i loro figli partetipasero a un corso, un workshop, di un paio di settimane per i loro figli, il tutto gratuito. Per molte famiglie che fanno fatica a mettere in tavola cibo sufficiente per tutti, la proposta era troppo allettante per poter essere rifiutata. La cosa, sembra, succedeva con regolarità, due o tre volte all’anno. A delegazione partita, i bambini venivano riportati in famiglia, a parte un piccolo gruppo di una decina che era sempre presente nella casa.
Quando sono arrivato da noi erano pulcini impauriti e bagnati. Quella sera pioveva e non avevano nessuna protezione. Il giorno dopo le due bambine e cinque bambini erano già riunificati alla famiglie. Quando ho fatto la foto qui sotto ai sette bambini rimasti, erano già abbastanza integrati e Shirò, la figlia di Anne, responsabile di Ndugu Mdogo Home, era sempre con loro.
Adesso i nostri operatori di strada stano aiutando la polizia a riunificare i bambini alla famiglie, e pensiamo che per fine settimana saranno tutti a casa.
Riccardo Muti a Nairobi – Riccardo Muti at Nairobi
Comunicato stampa del Ravenna Festival
Le vie dell’amicizia
Piacenza-Ravenna-Nairobi
É a Sarajevo che, nel 1997, è cominciata l’avventura delle Vie dell’Amicizia, il ponte di fratellanza attraverso l’arte e la cultura, divenuto momento irrinunciabile di Ravenna Festival. Oggi, come quindici anni fa, è ancora una chiamata a segnare il cammino del Festival che ora punta al cuore dell’Africa per una grande festa della musica e dello stare insieme che avrà luogo sabato 9 luglio a Nairobi, capitale del Kenya.
Una chiamata arrivata al termine del concerto che Riccardo Muti ha tenuto, con l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, poco più di un anno fa al Teatro Municipale di Piacenza a sostegno delle attività di Francesca Lipeti, medico piacentino che opera in Kenya dal 1994, e di Padre ‘Kizito’ Sesana, missionario comboniano in Africa dal 1977 e fondatore delle comunità Koinonia.
In quell’occasione furono presentati a Riccardo Muti un’idea, un sogno: dedicare un concerto alle genti delle baraccopoli cresciute al margine della metropoli di Nairobi con l’intento di sensibilizzare gli animi – grazie al messaggio universale che la grande musica contiene e trasmette senza confini – e portare un segno di tangibile solidarietà e sostegno ad alcuni progetti mirati allo sviluppo ed alla promozione sociale della baraccopoli di Kibera, mai censita nelle sue dimensioni, ma senz’altro la più grande dell’Africa sub-sahariana.
Alla disponibilità immediata di Muti si sono affiancati il Festival di Ravenna e la città di Piacenza (con la collaborazione di Amani, un’associazione laica di cui Padre Kizito è tra i fondatori e il cui impegno è rivolto in particolare alla cura, all’educazione e alla crescita dei bambini più soli in Kenya, Zambia e Sudan), Rai Trade e Rai 1 (che trasmetterà in Italia l’evento) per gettare le basi organizzative del progetto che oggi viene presentato ufficialmente.
Il progetto fin dalle prime fasi organizzative è stato accolto con grande entusiasmo dalla municipalità di Nairobi e reso possibile grazie alla preziosa collaborazione della nostra sede diplomatica in Kenya e dell’Ambasciata della Repubblica del Kenya in Italia.
Una grande festa, aperta a tutti gratuitamente, che la mattina del 9 luglio si svolgerà nella cornice del popolare Uhuru Park (Parco della Libertà) di Nairobi, cuore verde della città, per una scelta che vuole propiziare la partecipazione della popolazione degli sterminati slums che circondano la metropoli. Una festa con e per questa dolente ed umile umanità che, soprattutto nei piccoli e nei più giovani dei suoi componenti, non ha perso la capacità di sorridere ancora alla vita e di sperare in un futuro migliore.
Riccardo Muti dirigerà la Cherubini, a cui si affiancheranno i ragazzi dell’Orchestra Giovanile di Nairobi, con la presenza festante sul palcoscenico della gioventù africana accolta e aiutata dai numerosi missionari italiani (ex bambini di strada provenienti da Kibera e dagli altri slum che si esibiranno con acrobazie, canti e ritmi sulle loro percussioni tradizionali).
Il programma che prevede un’alternanza di sinfonie, arie e duetti del più popolare repertorio italiano sarà concluso dal coro del ‘Va pensiero’ eseguito da oltre 200 giovanissimi allievi delle missioni italiane a Nairobi coordinati da Padre Kizito e da Nino Valerio, ravennate da anni attivo nella metropoli africana per conto dell’Associazione Volontari per il Servizio Internazionale (Avsi).
Un Comitato Promotore dell’evento di solidarietà che affianca il concerto, presieduto dal sindaco di Piacenza Roberto Reggi, sarà costituito al fine di accogliere donazioni da soggetti privati e pubblici di Piacenza e Ravenna dando vita ad un progetto di aiuto concreto: borse di studio per ex bimbi di strada e per giovani meritevoli di proseguire in specifici percorsi formativi; sostegno sanitario per un centro-medico in terra masai, come supporto ad una realtà rurale particolarmente bisognosa di assistenza; risorse e dotazioni logistiche per garantire il funzionamento di un centro di prima accoglienza per bambini nella baraccopoli di Kibera.
Il ponte di amicizia partirà dall’Italia con i due concerti in programma a Piacenza (6 luglio) e Ravenna (7 luglio).
Il Papà di Wanjohi
Wanjohi ha 16 anni e pochi minuti fa abbiamo dovuto dirgli che suo papà é stato trovato morto in strada, al mattino. Non vittima di violenza, piuttosto vittima della vita che conduceva da anni.
La moglie era morta di AIDS da tempo. Con lui, Waweru, la malattia ha avuto un decorso molto più lento, pur senza che facesse nessuna cura, probabilmente solo perché dotato di un fisico più resistente. Lentamente però si è lasciato andare, il banchetto di frutta e verdura che dava da vivere alla piccola famiglia – Wanjohi era l’unico sopravvissuto di tre figli – si é prima ridotto a qualche mucchietto di pomodori e cipolle posati per terra, poi è scomparso del tutto, e Waweru ha cominciato a vagare per Kabiria Road prestando le sue braccia per fare qualche piccolo lavoro, poco più che sufficiente per procurargli da mangiare. Ormai da mesi dormiva in strada, rifiutando ogni aiuto. Poi la malattia ha avuto il sopravvento.
Waweru avrà avuto poco più di 40 anni, apparentemente una vita fallita, eppure c’era una cosa che lo rendeva orgoglioso e felice, e la raccontava sempre a tutti: “mio figlio Wanjohi vive a Kivuli, anzi negli ultimi due anni frequenta la scuola superiore, alla Domus Mariae, e gli insegnanti dicono che è un ragazzo molto bravo e intelligente”. Quando riusciva a mettere da parte qualche spicciolo, magari il corrispondente di un euro in una settimana, lo portava a Wanjohi perché si comprasse qualcosa di più. Era una scena che si svolgeva davanti agli occhi di tutti, quest’uomo che sembrava ormai un vecchio, che aspettava pazientemente il figlio vicino al cancello di Kivuli, e quando lo vedeva rientrare dalla scuola gli metteva in mano qualche soldo.
Adesso, alla notizia della morte del papà, Wanjohi cerca di trattenersi, poi si lascia andare in un pianto da bambino. Io prego che il semplice gesto d’amore del papà gli resti sempre inciso nell’anima.
Sudan: i Nuba e l’Imminente Indipendenza del Sud
Nelle scorse settimane l’attenzione internazionale è stata richiamata dal referendum sull’indipendenza del Sud Sudan, un voto storico che corona l’Accordo di pace globale (CPA) firmato nel 2005 dal governo centrale del Sudan e dall’Esercito di liberazione popolare del Sudan/Movimento (SPLM/A) per mettere fine a una lunga guerra civile che ha causato oltre due milioni di morti.
Dai primi risultati sembrerebbe che i sud sudanesi abbiano scelto di separarsi formando un nuovo Stato. Le immagini dei sud sudanesi euforici perché si lasciano finalmente alle spalle un passato di sangue sono state ampiamente diffuse da giornali e televisioni, ma in tutta questa copertura mediatica emerge un vuoto eclatante: la sorte delle popolazioni dei Monti Nuba, una regione schiacciata tra il Nord e il Sud Sudan, che durante la guerra civile ha combattuto dalla parte del Sud.
L’ex presidente dell’SPLM, John Garang, si recò per la prima volta in visita sui Monti Nuba nel dicembre 2002. Incontrò centinaia di delegati all’ombra di un bosco di manghi a Kauda, cittadina nel cuore delle zone liberate dallo SPLA. Motivo della sua visita era partecipare alla All Nuba Conference (Conferenza di tutti i Nuba), istituzione politica democratica unica dei Monti Nuba durante la guerra civile, costituita dai rappresentanti di tutte le comunità Nuba e delle tribù arabe nomadi allo scopo di deliberare su questioni riguardanti la sopravvivenza del popolo Nuba. Yusuf Kuwa, il carismatico leader dei Nuba e alto comandante dello SPLA, aveva convocato per la prima volta la All Nuba Conference nel 1991, dopo che il regime di Khartoum aveva scatenato una repressione senza pietà e una jihad contro i Nuba. Kuwa chiese ai Nuba se volevano continuare la loro rivolta o arrendersi. La risposta collettiva fu a favore della continuazione della ribellione contro Khartoum.
Fu una decisione senza ritorno. Da allora i Nuba hanno appoggiato pienamente lo SPLA e vissuto anni di reinsediamenti coatti, distruzioni, bombardamenti, uccisioni, senza mai vacillare nella loro determinazione di stare con il Sud.
Davanti a quei delegati a Kauda, Garang promise che «lo SPLA non vi deluderà. Qualsiasi accordo raggiungeremo… includerà anche voi». Fu solennemente promesso ai Nuba che sarebbero stati presi in considerazione nell’accordo di pace che si stava allora negoziando a Naivasha. Due giorni dopo le parole di Garang, presi nota del commento di Adam, un vecchio amico Nuba che era rimasto nella sua terra a Kauda: «Ora siamo sicuri. Garang ha parlato. Staremo con il Sud».
Non sarebbe stato così. La promessa solenne non è stata mantenuta. I Nuba – che avevano dato mandato allo SPLA di garantire che durante i negoziati sarebbero stati rispettati i principi di autodeterminazione, equa distribuzione del potere, delle ricchezze e soprattutto della terra e che il loro destino sarebbe stato strettamente legato a quello del Sud – sarebbero andati incontro a un’amara delusione. Quando l’Accordo globale di pace (CPA) fu finalmente firmato a Nairobi, i Nuba scoprirono che non avevano nemmeno ottenuto il diritto di partecipare al referendum sull’indipendenza. Con il CPA, lo SPLA/M accettò il principio che i Monti Nuba, ufficialmente parte dello Stato del Kordofan meridionale, sarebbe rimasto al Nord. La stessa sorte fu decisa per la popolazione del Nilo azzurro meridionale, un altro territorio conteso vicino al confine del Sudan con l’Etiopia. I due territori hanno condiviso la sofferenza degli anni di guerra civile ma sono ora esclusi dal risultato dell’autodeterminazione. È soltanto ad Abyei – piccola area di confine che non ha mostrato alcuna particolare volontà di combattere con il Sud durante la guerra civile – che alla popolazione è stato garantito il diritto di scegliere a chi vuole appartenere. Ma la gente di Abyei gode anche di un vantaggio particolare: la loro terra è ricca di riserve petrolifere.
I Nuba sono la prima popolazione etnicamente e culturalmente africana che si incontra viaggiando verso sud da Khartoum. La loro posizione geografica (con un deserto al Nord e le paludi al Sud) li ha sempre mantenuti isolati e, nei secoli, la loro determinazione a restare ancorati alla propria cultura e religione ancestrale è stato un ostacolo alla diffusione della cultura araba e musulmana nella zona attualmente conosciuta come Sud Sudan. Soltanto all’inizio del secolo scorso sono avvenute alcune irruzioni/incursioni. Tuttavia, fu nei Monti Nuba che, già nel 1965, un prete anglicano Nuba, Philip Ghabbush, formò l’Unione Generale dei Monti Nuba (GUN) e avviò la campagna per l’autodeterminazione.
Alla fine degli anni Ottanta, la leadership dei Nuba passò a Yusuf Kuwa, un uomo più giovane e carismatico, nato in una famiglia musulmana. Dopo diversi tentativi falliti di ottenere una garanzia politica per il riconoscimento dei diritti Nuba – soprattutto il diritto alle terre strappate ai Nuba e assegnate a società e gente di Khartoum per avviare «fattorie meccanizzate» – Kuwa si unì allo SPLM/A nella lotta armata e diventò il punto di riferimento per tutti i Nuba.
Ne derivò una brutale repressione governativa, che rimase inosservata e incontrastata per oltre un decennio. Con l’attenzione internazionale puntata sul conflitto nel Sudan meridionale, Khartoum isolò la regione dal 1991 al 1995. Dal 1991, i Nuba, tagliati fuori perfino dallo SPLA del Sud, combatterono da soli senza rifornimenti, dipendendo unicamente dal supporto locale. Tuttavia, con la leadership di Kuwa e nel bel mezzo di una carestia di tre anni, istituirono un’amministrazione civile operativa e un sistema giudiziario che integrava la legge tradizionale. Kuwa sostenne fermamente la tolleranza religiosa e sotto la sua leadership i Nuba non hanno mai conosciuto i conflitti intertribali che hanno invece sconvolto lo SPLA in altre zone del Sud. Ma tutti questi risultati non hanno sempre giocato a favore di Kuwa. Molti leader del Sud erano chiaramente infastiditi dalla crescente popolarità che aveva raggiunto prima di morire nel marzo 2001.
Al suo culmine, la guerra civile sui Monti Nuba non fu un semplice conflitto per sconfiggere i ribelli che avevano importato la ribellione dello SPLA dal Sud “Africano” al Nord “Arabo”. Come ha osservato Julie Flint, giornalista inglese e prima outsider a visitare i Nuba nel 1995, «si è trattato di un programma di ingegneria sociale per spostare l’intera popolazione dalle aree in rivolta in campi che avrebbero cancellato l’identità Nuba. Agli inizi degli anni Novanta, l’esercito e le milizie paramilitari delle Forze di difesa popolare (PDF) hanno ucciso tra i 60 e i 70 mila Nuba in appena sette mesi. Massicce offensive militari sono state condotte nel nome della jihad. È stato negato l’accesso agli aiuti umanitari. Leader di comunità, gente istruita e intellettuali sono stati arrestati e uccisi per fare in modo che i Nuba non avessero più voce per denunciare la loro situazione».
Migliaia di giovani Nuba sono partiti per il Sud, mettendo a rischio la propria vita, per combattere nelle forze dello SPLA. Il loro contributo al lungo conflitto in corso non è sempre stato pienamente riconosciuto. Ora, con l’imminente proclamazione dell’indipendenza del Sud, i Nuba si ritroveranno isolati nel Nord Sudan, sotto un governo che appena pochi anni fa intraprese azioni genocide contro di loro e potrebbero non ricevere alcun aiuto dal Sud. «Ancora una volta – mi racconta uno sconsolato Nuba – siamo stati trattati come merce di scambio nel confronto tra Juba e Khartoum». La prospettiva che il presidente del Nord Sudan possa diventare ancora più intollerante in campo religioso fino al punto di applicare la sharia non è un buon auspicio per un futuro democratico e rappresenta una grave minaccia per le decine di migliaia di Nuba convertiti al cristianesimo. Anche i resoconti degli spostamenti militari non sono positivi: fonti molto attendibili riportano che la presenza militare nel Kordofan meridionale è aumentata con truppe pesanti passate da 15 a 45 mila uomini, la maggior parte dei quali dislocati lungo la linea di confine della parte più meridionale dei Monti Nuba – e dello Stato del Nord – con il Sud.
Oggi, mentre i Nuba si uniscono ai loro fratelli e sorelle dei Sud nel celebrare la nascita di una nuova nazione, il loro destino è molto incerto. Un rapporto del 2008 del Gruppo internazionale di crisi ha parlato dei Monti Nuba come del «prossimo Darfur», a causa della loro marginalizzazione, dell’incertezza politica e della potenzialità di scoppio di un conflitto. Quello che il CPA prevede per i Nuba e per l’area del Nilo azzurro meridionale nell’immediato futuro dipende da quelle che vengono denominate «consultazioni popolari». La separazione tra Nord e Sud Sudan sarà completata entro il 9 luglio di quest’anno; una consultazione popolare dovrebbe avere luogo prima di quella data per determinare il destino dei Nuba. I termini di questa consultazione non sono molto chiari nel CPA: secondo l’interpretazione comune, ci saranno elezioni governative e parlamentari nel maggio o giugno 2011, e i leader eletti indicheranno la strada da percorrere in seguito. Se il nuovo governatore e la maggioranza dei parlamentari locali vengono dal ramo dello SPLM nei Monti Nuba, ci sarà la vaga possibilità che possano indire un referendum per chiedere ai Nuba se vogliono staccarsi con il Sud o restare nel Nord. Altrimenti, la partita è conclusa e i Nuba, in un prevedibile futuro, resteranno parte del Nord. E data la loro situazione di marginalizzazione, la possibilità di elezioni manipolate dal Nord è estremamente alta.
Si può solo sperare che la volontà di pace e riconciliazione prevalga anche nel Nord e che il regime di Khartoum, avendo imparato la lezione dal lungo conflitto nel Sud e nel Darfur, si impegni ad affrontare le questioni da lungo tempo irrisolte alla base della battaglia dei Nuba: per prima cosa, il riconoscimento della dignità dei Nuba e il loro diritto a godere di un certo grado di autonomia nell’amministrazione della loro area; in secondo luogo, la depredazione delle risorse naturali e la politica di arabizzazione e islamizzazione insieme al tentativo concreto di sradicare la cultura indigena Nuba.
Sudan: the Nuba Identity
The Nuba Question in South Sudan’s Imminent Independence
For the past few weeks, much attention has focused on the independence referendum in South Sudan, a historic vote that rounds off the Comprehensive peace agreement (CPA) signed in 2005 by Sudan’s central government and the Southern rebel Sudan People’s Liberation Movement/Army (SPLM/A) to end a protracted civil war that claimed over two million lives.
Preliminary results show that the South Sudanese have chosen to secede into a new country. Images of elated Southerners celebrating this imminent break from the bloody past are fast becoming a news staple, but one glaring aspect has remained missing from this coverage – the fate of the people of the Nuba Mountains, a region sandwiched between Sudan’s North and South, and which fought alongside the Southerners during the civil war.
The late SPLM Chairman, John Garang, visited the Nuba Mountains for the first time in December 2002. He met hundreds of delegates under the shade of a vast mango thicket in Kauda, a small town in the heart of the SPLA-liberated areas. The occasion of his visit was to attend the All Nuba Conference, a democratic political institution unique to the Nuba Mountains during the long civil war, in which representatives of all Nuba communities and the nomadic Arabic tribes used to meet and deliberate on issues related to the survival of the Nuba people. Yusuf Kuwa, the charismatic Nuba leader and high ranking SPLA commander, had convoked the All Nuba Conference for the first time in 1991, after the Khartoum regime had unleashed a merciless repression and a Jihad against the Nuba. Kuwa asked the Nuba people if they wanted to continue their rebellion or surrender. The overwhelming answer was for the continuation of the rebellion against Khartoum.
It was a decision with no return. Since then, the Nuba sided fully with the SPLA and bore years of forced resettlement, destruction, bombing, killings, never wavering in their determination to stand with the South.
Unfulfilled Promise
Before these delegates in Kauda, Garang promised that “the SPLA will not let you down. Whatever agreement we reach… we will include you.” It was a solemn promise to the Nuba that they would be considered in the peace agreement that was then being negotiated in Naivasha. Two days after Garang spoke, I wrote in my notebook the comment of Adam, an old Nuba friend who had stood firm in his homestead in Kauda: “Now we are sure. Garang has spoken. We will go with the South.”
It was not to be. The solemn promise was not kept. The Nuba – who had mandated the SPLA to guarantee that the principles of self-determination, fair distribution of power, wealth and especially land would be kept during the negotiations, and that their fate would be strongly linked to the fate of the South – were to be bitterly disappointed. When the Comprehensive Peace Agreement (CPA) was finally signed in Nairobi, the Nuba discovered they had not even won the right to participate in the independence referendum. In the CPA, the SPLA/M accepted the principle that the Nuba Mountains, officially a part of Southern Kordofan state, would remain a part of the North. The same fate was decided for the people of Southern Blue Nile, another contentious territory close to Sudan’s border with Ethiopia. The two territories shared in the suffering of the civil war years but are now excluded from sharing in the fruit of self-determination. It is only in Abyei, a small border area that did not shown any particular will to fight alongside the South during the civil war, that the people were granted the right to chose where they wanted to belong. The people of Abyei however have a distinct advantage: their area is rich in oil reserves.
The Nuba are the first people who are ethnically and culturally African that you encounter as you travel southwards from Khartoum. The geographical location of their homeland (with a desert to the North and swamps to the South) has always kept them isolated, and throughout the centuries their determination to stick to their ancestral culture and religion had been an obstacle to the spread of the Arab and Muslim culture to the area now known as South Sudan. Only at the beginning of last century were some inroads made. Yet, it was in the Nuba Mountains that, as early as 1965, a Nuba Anglican priest, Philip Ghabbush, formed the General Union of the Nuba Mountains (GUN) and started campaigning for political self-determination.
At the end of the 1980s, the Nuba leadership mantle was taken up by Yusuf Kuwa, a younger, charismatic man born into a Muslim family. After several failed attempts to achieve a political guarantee for the recognition of the Nuba rights – especially their right to the lands that were taken from the Nuba and allocated to companies and people from Khartoum to start “mechanized farms” – Kuwa joined the SPLM/A in the armed struggle and became the point of reference for all the Nuba.
A program to destroy the Nuba identity
A brutal government repression ensued in the Nuba Mountains. It went unnoticed and unchallenged for more than a decade, and with international attention focused on the conflict in southern Sudan, Khartoum sealed the region off from 1991 until 1995. From 1991, the Nuba, cut off even from the southern SPLA, fought alone without resupply, dependent solely on local support. Yet, with Kuwa’s leadership and in the middle of a three-year famine, they established a working civilian administration and judicial system that incorporated traditional law. Kuwa stood firmly for religious tolerance and under his leadership the Nuba never experienced the inter-tribal fighting that plagued the SPLA in other parts of the South. These accomplishments did not always play in Kuwa’s favour however. Many Southern leaders were clearly annoyed by his raising popularity by the time he died in March 2001.
At its height, the civil war in the Nuba Mountains was not a mere fight to defeat the rebels who had taken the SPLA’s rebellion from the “African” South and into the “Arab” North. As it has been noted by Julie Flint, a British journalist who was the first outsider to visit the Nuba in 1995, “It was a programme of social engineering designed to resettle the entire population from insurgent areas into camps that would eliminate the Nuba identity. In the early 1990s, army and government paramilitary Popular Defence Forces (PDF) killed 60,000–70,000 Nuba in just seven months. Massive military offensives were dignified in the name of jihad. Humanitarian access was denied. Community leaders, educated people and intellectuals were detained and killed to ensure that the Nuba couldn’t speak for themselves.”
Thousands of Nuba youth travelled to the South, risking their lives, to fight in the SPLA forces. Their contribution to the long running struggle was not always fully recognized. Now, with the imminent proclamation of independence of the South, the Nuba will find themselves isolated inside North Sudan, under a government that just a few years ago meted out genocidal actions against them, and they may not be able to get any support from the South. “Once more,” – one disconsolate Nuba tells me – “we have been treated as an exchange commodity in the ongoing confrontation between Juba and Khartoum.” The prospect that President Omar al-Bashir of North Sudan could become even more religiously intolerant to the extent of applying Sharia law does not augur well for a democratic future and is flatly scary for the dozens of thousand of Nuba people who have since become Christians. Reports of the military movements are not positive either: very reliable sources say that the military presence in South Kordofan has risen from 15,000 to 45,000 heavily armed troops, most of them deployed along the line where the southernmost part of the Nuba Mountains – and of the Northern state – borders with the South.
Uncertain future
Today, as the Nuba join their Southern brothers and sisters in celebrating the birth of a new nation, their fate is very unclear. A 2008 report by the International Crisis Group described the Nuba Mountains as the “next Darfur”, because of its marginalisation, political uncertainty and potential for conflict. What the CPA foresees for the Nuba and the Southern Blue Nile area in the immediate future depends on what are termed “popular consultations”. The separation between North and South Sudan will be completed on July 9 this year; there should be a popular consultation before this date to determine the fate of the Nuba. The terms of this consultation are not very clear in the CPA, the normal interpretation being that there will be a gubernatorial and parliamentary election in May or June 2011, with the elected leaders indicating the way forward. If the new governor and the majority of the local parliamentarians come from the SPLM branch in the Nuba Mountains, there is a vague chance that they could demand for a referendum to choose on whether to secede with the South or remain in the North. If not, the game is over and the Nuba will remain part of the North for the foreseeable future, and due to their marginalized situation, the possibility of election rigging by the North are extremely high.
One can only hope that the will for peace and reconciliation will also prevail in the North and that the Khartoum regime, having learned some lessons from the long confrontation in the South and in Darfur, will commit itself to addressing the longstanding issues that have always informed the Nuba struggle: firstly the recognition of the Nuba dignity and their right to have a degree of autonomy in the administration of their area, then the depredation of natural resources and the policy of Arabization and Islamization alongside the sustained efforts to eradicate the indigenous Nuba culture.
Il Cuore di Lusaka – The Heart of Lusaka
Come tante altre città africane, Lusaka è nata per soddisfare le esigenze dei pragmatici colonizzatori britannici, costruita intorno alla linea ferroviaria che serviva principalmente per esportare il rame. I criteri che ne hanno guidato la pianificazione della città sono fondamentalmente gli stessi dell’apartheid: tre strade parallele alla ferrovia per sistemarci alberghi e negozi, un quartiere per gli uffici governativi, un quartiere per i coloni inglesi e, allontanandosi dal centro, prima un quartiere indiano, poi una corona di quartieri africani, poi fattorie (di proprietà dei coloni) per rifornire la città di viveri. Unica concessione alla fantasia, o meglio ai sogni imperiali, il nome della strada più importante, Cairo Road. Nel 1931, quando Lusaka è stata fondata come capitale della Rhodesia del Nord, si poteva partire da Città del Capo, e, passando da Cairo Road, raggiungere la capitale egiziana sempre muovendosi in territori dominati dagli inglesi.
Il valore complessivo del rame che gli inglesi hanno esportato sulle rotaie che attraversano Lusaka fino al 1964, anno dell’indipendenza, senza un euro di compenso alla popolazione locale, fa girare la testa se si cerca di calcolarlo. Quando gli inglesi allentarono la stretta e la Zambia divenne formalmente indipendente, ci fu un periodo di grande prosperità. Gli Zambiani affermavano con orgoglio che Lusaka era la città africana con la più grande percentuale di crescita, e paragonavano Cairo Road al Miracle Mile di Los Angeles, perché in negozi elegantissimi vi si trovava di tutto, anche le ultimissime novità tecnologiche del tempo. Oggi, dopo anni disastrosi politicamente ed economicamente, la risalita del prezzo del rame e l’arrivo di compagnie e capitali cinesi, stanno ridando splendore a Lusaka, anche se la maggioranza della gente continua a vivere in grande povertà
Per conoscere una città pensata per il business bisogna andare al mercato. Fra cassette di pomodori e peperoni, sacchi di pesce secco, di fagioli e di riso. caschi di banane, montagne di cavoli – un panorama che cambia a seconda dei prodotti della stagione – si incontra tutta la Lusaka che non conta agli occhi del mondo, gli uomini che portano al mercato il prodotto dei loro orti, i facchini, le donne che col piccolo commercio mantengono la famiglia, le casalinghe che tutte le mattine vengono qui a cercare i prodotti più economici. Qui si incontrano anche i bambini di strada, che si muovono svelti in piccoli gruppi, innocenti e scaltri, pronti a fare sia un servizio a pagamento sia a non lasciarsi sfuggire l’occasione di un piccolo furto.
Oggi mi viene incontro Lavu, il più anziano di una banda di adolescenti. Mi mostra Ouma. “Lo vedi? Ha otto anni, la mamma si è messa con un altro uomo che lo ha cacciato di casa. Da ieri è con noi. Ma perché la gente è tanto cattiva?”. Domanda che farebbe tremare i polsi ad un teologo. Ouma ha ancora i segni delle lacrime sul viso sporco, e segni di percosse su tutto il corpo. “Lavu – gli dico – non è vero che tutta la gente è cattiva. Fra la gente ci siete voi, e voi avete accolto Ouma. Non si può essere al mondo senza aver a che fare con ingiustizia a violenza, ma noi siamo qui per aiutarci, per vincere con l’amore, facendo ciò che è bene. L’amore vince il male, e voi lo state dimostrando. Io vi prometto che vi aiuterò ad aiutare Ouma, voglio imitarvi, perché voi state facendo quello che farebbe Gesù”.
Mi guardano sbalorditi, Sorridono felici. Mi promettono che se hanno troppa fame o si ammalano cercheranno aiuto a Mthunzi, dove già decine di ex ragazzi di strada hanno trovato rifugio, e in pochi secondi scompaiono di nuovo, inghiottiti dalla fiumana di gente che si muove intorno a noi. Ancora una volta mi hanno confermato che sono loro il cuore vero di questa città.