Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

Un messaggio inaspettato – An Unexpected Message

Ho aperto il mio profilo – si dice così? – su facebook per necessità, perché qualcuno ne aveva aperti due con, diciamo, parodie della mia identità, e un amico mi aveva suggerito che la strategia migliore per contrastarli era di aprirne uno genuino. Non l’ho mai usato molto, sono sempre insicuro quando tento di mettere qualche link.
Oggi, per la prima volta, facebook mi ha davvero emozionato. Nei mesi scorsi avevo ricevuto qualche simpatico messaggio da vecchi amici, come Ambrogio Piazza del Brasile o altri. Ma quello che ho ricevuto oggi ha veramente dell’incredibile, quasi proveniente da un’altra vita. Firmato Joseph, con allegata la foto che pubblico qui sotto, il messaggio è in francese e dice semplicemente “Buongiorno, questa è una foto che hai fatto durante un tuo viaggio in Ciad. Il bambino della foto sono io. Quanti ricordi!”
Ho risposto poche righe in francese maccheronico all’uomo ormai cinquantenne che nel suo profilo, con una trentina di amici, quindi aperto da poco, si dice interessato ai diritti umani e all’ecologia. Aspetto la sua risposta. Ma quanti ricordi, davvero.
Il mio primo viaggio in Africa l’ho fatto nell’estate del 1971. Ho volato con Air Afrique, ormai fallita da tempo immemorabile, con un volo Parigi – Brazzaville, che fece scalo a Fort Lamy – si chiamava cosi, col nome coloniale, la capitale del Ciad che pochi anni dopo mutò il nome in N’Djamena. Andai per un paio di settimane in Congo Brazza, poi altre due settimane in Gabon, visitando anche Lambaréné dove, nel 1913, Albert Schweitzer, premio Nobel per la Pace nel 1952, aveva fondato il suo celebre ospedale, e dove era morto pochi anni prima, nel 1965. Due settimane in Cameroun a poi di nuovo a Fort Lamy, dove restai ancora un paio di settimane prima di tornare in Italia. Era il primo viaggio come redattore di Nigrizia, per raccogliere foto, informazioni, collegamenti. Avevo 28 anni.
Il vescovo di Fort Lamy era un gesuita francese, Paul Dalmais, che pochi anni dopo sarebbe stato forzato a dimettersi perché aveva avuto l’audacia di chiedere a Roma di poter ordinare uomini sposati, per garantire l’Eucarestia alle comunità cristiane perseguitate da un regime anti-cristiano. L’evangelizzazione in Ciad era incominciata pochi decenni prima, dopo la seconda guerra mondiale, ed era ancora agli inizi, con personale sparuto su aree vastissime. I cristiani erano pochi, quelli di N’jamena erano in genere immigrati dal sud, e non c’era ancora nessun prete locale.
Quando chiesi al vescovo di poter stare qualche giorno in una missione, sperimentando la vita della gente, mi portò a Chagoua, un quartiere periferico, sulla sponde del fiume Chari. La città, ancora un grosso villaggio, con forse un centinaio di edifici in cemento, in genere uffici governativi, e le abitazioni della gente costruite con mattoni di fango essicati al sole, era perennemente riarsa e coperta dalla sabbia finissima partata dal vento del Sahara. A Chagoua, che era a pochi passi dal fiume, c’erano degli alberi e un po di verde. C’era anche padre Forobert, un altro gesuita francese, già anziano, o così mi pareva a quei tempi, che viveva di yogurt e frutta fresca ed era per tutto il giorno circondato gente che lo venerava. La missione era una casa fatta di quattro stanze spartane, con la porta che dava all’aperto, ad una estremità la cucina all’altra i servizi. La chiesa era un vecchio capannone senza pareti. Unico lusso nelle stanze era un rubinetto posto molto in alto, fungente da doccia, perché il caldo era tale che durante le notte per riuscire a dormire bisognava ogni tanto, tre o quattro volte per notte, rinfrescarsi con l’acqua, e magari ributtarsi sul letto ancora bagnati.
Ogni giorno la gente si affollava intorno alla casa. Mi ricordo le Messe e le lezioni di catechismo con traduzioni simultanee in cinque o sei lingue, perché i catecumeni erano quasi tutti immigrati dal sud, dove si parlano una miriade di lingue diverse, come succede in Sudan.
Subito alcuni dei catecumeni più giovani e intraprendendti, quasi tutti maschi, visto che era tempo di vacanze scolastiche, si incaricarono di iniziami alla vita ciadiana, e ogni mattina, quando aprivo la porta della stanza, erano già li, facendo a gara per portarmi a vedere le meraviglie del loro quartiere, a mangiare qualcosa preparato dalla loro mamma, esplorare la riva del fiume, portarmi fino al ponte al di là del quale c’è il Cameroun. Da loro ho imparato che il cibo più buono è quello che incominci a mangiare quando la mamma ti tiene in braccio. Un mattino mi offrirono bruchi vivi, grossi come un pollice, che avevano raccolto ai primi raggi del sole, sugli striminziti alberi intorno alla missione. Quando li rifiutai, perché proprio non ce le facevo a metterli in bocca ancora vivi, ci rimasero veramente male. Ma restarono sconvolti quando io, visto che dove il fiume formava delle pozze di acqua stagnante c’erano tantissime rane, suggerii che forse erano buone da mangiare, visto che al mio paese ci sono delle persone che le mangiano. Non potevano credermi, mi prendevano per pazzo. Mangiare le rane?! Ma chi ha mai sentito una cosa simile.
L’ultimo giorno promisi loro che avrei fatto delle foto e l’anno successivo avrei portato una copia per ognuno di loro. Il posto e la gente mi piacevano troppo ed avevo deciso che avrei fatto il possibile per tornarci. Li avevo sempre visti con indosso solo un paio di calzoncini stracciati, ma qual giorno arrivarono con i vestiti più belli, addirittura con le camicie. E’ cosi che fotografai Joseph e tutti gli altri.
Passarono due anni prima che potessi tornare. Le foto suscitarono grande allegria, poi padre Forobert mi affidò ad un laico che stava andando al Sud, a quasi cinquecento chilometri, su una pista di sabbia e terra battuta, con una Citroen 2 cavalli che ogni tanto si fermava nella sabbia ma aveva il vantaggio che anche solo noi due la si poteva sollevare e si ripartiva. Ci andai anche per visitare uno dei bambini che nel frattempo era entrato in seminario, a Sarh. Non mi ricordo più il nome di quel ragazzino, ma mi ricordo che il sud a me pareva molto bello, coperto di vegetazione rigogliosa, enormi alberi di mango. E il ragazzino invece rimpiangeva l’arido, sabbioso nord, perché là era cresciuto.
Continuai a scambiare qualche lettera con padre Forobert, anche dopo che andai in Zambia, fino agli inizi degli anni 80, finché inevitabilmente persi i contatti. Dopo l’uccisione del dittatoriale presidente, Francois Tombalbaye, in Ciad si scateno una guerra civile e una feroce repressione anticristiana, come aveva previsto mons. Dalmais, e molti cristiani e catechisti furono uccisi. Il Ciad, che era stato uno degli ultimi paesi africani a ricevere i missionari, attraversò lunghi anni di passione. Intanto, cosa che non avrei mai pensato durante le mie visite, nel 1977 noi comboniani andammo in Ciad e, poco tempo dopo la mia partenza per la Zambia, ci andò anche padre Celestino Celi, indimenticabile amico e collega che aveva lavorato con me nella redazione di Nigrizia, e che in Ciad mori in un incidente il 26 marzo del 1988 a soli 39 anni.
E’ difficile valutare quanto le singole persone abbiano avuto influenza nella nostra vita. Io sento molto di essere stato plasmato degli incontri che ho avuto. Non ho mai dimenticato padre Forobert e qual manipolo di monelli di Chagoua. Anch’essi hanno plasmato il mio modo di vedere il mondo, di avvicinarmi agli altri, di cercare di capirli e accettarli cosi come sono. Mi hanno insegnato a fare domande rispettose, a lasciare tempo che la conoscenza reciproca e l’amicizia maturino, che non si può sempre volere tutto e subito, che ciò che si ha e ciò che si è sono sempre sufficienti per essere felici, perchè la felicità non sta fuori, ma dentro.
Il sorriso con cui quei ragazzini aprivano la mia giornata, il loro accompagnami durante le preghiere e la Messa e poi nelle strade di Chagoua mi hanno insegnato un metodo missionario.
Davvero, quanti ricordi suscita quella foto dai colori ormai sbiaditi, che però non hanno spento la semplice felicità che si vede negli occhi di Joseph. Pensare che abbia abbia tenuto quella foto per quarant’anni, attraverso persecuzioni, guerra, carestie e la lotta per la sopravvivenza quotidiana, mi ha commosso e dato luce alla mia giornata.
E’ difficile, difficilissmo, immaginare il paradiso. Forse si può intuire qualcosa solo pensando che sarà la presenza, la comunione, la koinonia con le persone che ci hanno voluto bene, senza limiti di spazio e di tempo.

Contro il Traffico di Persone Umane – Against Human Trafficking

Una serie di iniziative nate da Koinonia o con il supporto di Koinonia, sono poco conosciute dai nostri amici. Koinonia Advisory Research e Development Services (KARDS) è quella più nota ma ce sono altre come Consolation Est Africa (nata da KARDS con una particolare attenzione al traffico di esseri umani), Rafiki Mwafrika, REG, NAREC, SYDI, e altre ancora. Questi gruppi sono operativi, con poco o nessun sostegno dall’estero, e sono in rete con una miriade di altre organizzazioni simili a Nairobi, in Kenya e oltre.

Una piccolo successo è quello della commedia ‘A Blue Heart: la storia di Joy’ che mira a creare consapevolezza sul traffico di esseri umani e che sarà in scena al Teatro Nazionale del Kenya il 24 marzo 2012.

Da quello che so, il successo è dovuto alla caparbia determinazione del nostro membro di Koinonia Richard Muko e alcuni dei suoi amici, in particolare a Bernard Muhia del Fern Poetry, ma molti altri ci hanno lavorato. Li potete conoscere se seguite questa affascinante “storia in internet”.

Si può iniziare dalla fine, visitando il sito di UN-GIFT a
http://www.ungift.org/knowledgehub/stories/february2012/blue-heart-campaign-inspiring-artists-in-kenya.html

L’idea di usare le arti sceniche e visive per comunicare un messaggio contro la tratta di esseri umani é nata in KARDS nel 2009. Dopo aver fatto una ricerca molto seria sul tema, la prima del suo genere in Kenya, KARDS ha preso contatto con altri gruppi. A Mombasa hanno trovato Arise and Shine, un gruppo di auto-aiuto di giovani. A Nairobi ne hanno identificati molti altri, tra i quali un gruppo di artisti visivi. Vedi:
http://consolationafrica.wordpress.com/category/counter-trafficking-art/

Un altro gruppo, noto come HAART, iniziato dalle suore Medical Missionaries of Mary aveva già prodotto un CD educativo sul tema della tratta degli esseri umani.

Fern Poetry ha incominciato a visitare scuole per coscientizzare gli studenti. In questo sito c’è un video fatto durante una presentazione alla St. Hannah Secondary school.

Gli studenti dopo aver ascoltato le poesie hanno anche scritto le proprie, che sono pubblicate qui
http://consolationafrica.wordpress.com/category/counter-human-trafficking-poems/

L’idea dello spettacolo che andrà in scena la prossima settimana è iniziata con un simposio organizzato da KARDS, che lo scorso anno ha riunito varie iniziative di lavoro contro la tratta di esseri umani nella Shalom House, mettendo insieme esperienze di ricerca, di intervento sociale, di comunicazione. Durante il simposio Bernard Muhia parlato sul ruolo delle arti dello spettacolo per la lotta contro il traffico di esseri umani.
http://consolationafrica.wordpress.com/2012/01/02/the-role-of-performing-arts-in-countering-human-trafficking/

Alcuni dei gruppi voluto dare continuità al simposio, e di conseguenza si sono riuniti formando una iniziativa chiamata Blue Hearts. La storia è qui
http://consolationafrica.wordpress.com/2012/01/08/kenya-blue-hearts-grassroots-initiative-kbhgi/

Gli artisti del gruppo hanno poi deciso di creare un pezzo teatrale di conscientizzazione sul tema, usando i loro specifici talenti nel campo della danza, poesia, canto, teatro:
http://consolationafrica.wordpress.com/2012/01/11/play-a-blue-heart-joys-story/

Più tardi hanno cominciato a visitare le scuole
http://consolationafrica.wordpress.com/2012/01/20/1911/

Infine, il loro pezzo teatrale sta per essere portato al Teatro Nazionale del Kenya, ai Teatri Braeburn, Safaricom a nella hall dell’Alliance Francaise

KARDS e Consolation Est Africa, in collaborazione con gli altri, nei prossimi mesi hanno un programma di simposi per informare e formare contro la tratta di esseri umani. In marzo in Tanzania, in giugno a Mombasa e in novembre a Nairobi.

Il lavoro continua. Grazie a Richard, a Bernard e a tutti gli amici che vi si sono gettati con tutte le forze.

In Cammino in Terra Santa – Journeying in the Holy Land

E’ ormai una settimana che sono a Betlemme. Ho il grande privilegio di non assere assillato dal tempo. Gli amici Salesiani mi hanno aperto la loro casa e comunità senza condizioni, e penso di restare qui fin oltre la metà di marzo. Ben poche persone hanno una simile opportunità nella vita.

Come ho sempre fatto quando la disponibilità di tempo me lo permetteva, arrivando in un paese o in una posto per me nuovo, non mi sono messo a correre cercando di vedere tutto. Passeggio, mi siedo su una panchina, guardo la gente passare, ascolto i suoni, respiro e assaporo l’aria, lascio che l’atmosfera o lo spirito del luogo mi conquisti. In questi giorni sono stato una sola volta nella grotta nella Natività, che è a due passi dalla casa dei Salesiani, ma ho trascorso molte ore nella piazza antistante la basilica.

Oggi sono andato con l’autobus di linea a Gerusalemme – ci vuol meno di mezz’ora, come da Riruta al centro di Nairobi – ho girato i viottoli delle Gerusalemme vecchia, ho fatto pranzo con una straordinaria spremuta di melograno fatta al momento, poi sono entrato nella chiesa del Santo Sepolcro. Non mi sono messo in fila, anche perché mi davano fastidio i monaci scostanti e maleducati. Mi sono seduto sulla panca a pochi metri di distanza dell’ingresso della tomba, e per due ore sono stato ore a guardare la gente che da tutto il mondo viene in pellegrinaggio alla tomba vuota.

Il privilegio di chi non ha fretta. Di chi si sente arrivato anche se mancano pochi metri, perché può tornarci, perché dopotutto l’importante non è essere in in luogo preciso, toccare una pietra, come in un rito magico, ma lasciarsi avvolgere dal mistero di cui il luogo è memoria. Molti, più che pellegrini, sembravano turisti, entrando alla tomba vuota dopo dieci o venti minuti di fila, tutti spesi ansiosamente controllando che la batteria e il flash del telefonino o videocamera fossero carichi, per non perdere l’istante propizio per una foto nei pochi secondi di accesso. Troppi sembravano intenti a riportarsi un ricordo a casa, più che a essere presenti, a vivere quel momento e magari lasciarsi vincere dalla Vita. Difficile pensare che qualcuno stesse vivendo un’ esperienza spirituale profonda. Ma non si può mai sapere, Dio ha le Sue strade.

La tomba vuota. Da quando le discepole prima, Giovanni e Pietro poi, ci sono entrati e ne sono usciti impauriti, sconvolti, con un primo barlume di comprensione e di fede, questa tomba vuota è un segno che sfida sia il nostro scetticismo come la nostra speranza. Dà senso a tutta la vita di Gesù, dalla nascita nella grotta di Betlemme alla crocifissione. Perché quel vuoto richiama la pienezza di vita che Gesù ha vissuto e ci ha donato. Lo rivedi sul monte che spiega dove trovare la felicità, risenti la sua voce esigente che parla di giustizia e di fraternità, ascolti come nuove le sue parole che ti liberano dall’ansia di potere e di ricchezza, immagini di vedere in un suo sorriso le sua tenerezza verso tutti. Quel segno strano, la tomba vuota, dà senso alla mia vita. Uno sprone per rimettersi in cammino per cercarlo, perché Lui non è qui, in questa tomba vuota, ma non sta più nemmeno solo nei templi e nelle chiese, perché il giorno è venuto in cui i veri adoratori adorano il Padre in Spirito e verità e i sacrifici graditi al Signore si possono offrire come fece il il Samaritano, versando olio e vino sulle ferite di chi giace ai margini della strada.

Il Tempo per Vivere

Chi come me è cresciuto quando non c’era internet fa spesso ancora fatica a adattarsi alla quantità di notizie che ci raggiungono continuamente. Anche se ogni tanto mi vanto di essere stato uno dei primissimi ad usare internet a Nairobi, e il primo comboniano con un indirizzo internet, nel 1992, a volte non riesco a vincere la tentazione di spegnere telefonino e computer per dare tempo al mio mondo interiore di lavorare a ritmi più umani..

Il pomeriggio dell’Epifania, per esempio, col lentissimo collegamento di Mthunzi, a Lusaka, in pochi minuti vengo a sapere che a Roma è morto Don Franco, un punto di riferimento per tutto il gruppo di miei amici di Monteverde, che i bambini di Ndugu Mdogo Rescue a Nairobi hanno completato l’incisione in studio del loro primo CD con nove canzoni, che a Verbania mi aspettano per il fine settimana del 14 e 15 gennaio, che la Casa di Pulcinella a Bari del mio amico Paolo Comentale è stata oggetto di un attacco vandalico, e che lui si è vendicato facendo tradurre in inglese la poetica favola che ha scritto per ricordare George e Marco, che gli scouts che ci hanno visitato a Nairobi lo scorso luglio hanno organizzato una veglia per il 28 gennaio a Cernusco e mi chiedono di essere presente, che Josè da Manila si lamenta perchè non scrivo più per Worldmission, che Ian a Nairobi è stato il migliore dei nostri ragazzi all’esame finale di classe ottava ed ha vinto una borsa di studio di Equity Bank… Come si fa ad assorbire tutto nei pochi minuti che mi restano prima di incominciare la Messa con in bambini di Mthunzi? Come avere il tempo per interiorizzare e pregare e accettare l’assenza di don Franco? Coi ragazzi di Mthunzi stiamo ancora cercando di accettare la morte di Stephen. Tutto si insegue troppo velocemente, i fatti belli e quelli che ti provocano dolore si accavallano senza respiro. Senza contare le note minatorie che io e altri di Koinonia abbiamo ricevuto nelle ultime settimane, e tutto quello che succede nel resto del mondo, gli attacchi contro i cristiani in Nigeria, la Siria senza pace, il Sud Sudan sempre più travolto dalla violenza tribale… Era meglio quando le notizie viaggiavano più lentamente, o la mia capacità di restare al passo con la vita si sta ottundendo?

Nel flusso delle notizie e degli scambi, gli incontri più belli, che ti riposano dagli affanni quotidiani, sono quelli inaspettati, con le persone semplici che hanno la delicatezza di farti sapere che ti ricordano e, magari, perfino ti ringraziano.

Il 31 dicembre, al matttino presto, mentre partivo dall’aeroporto di Nairobi per Lusaka, un commesso di un negozio duty free mi blocca “Padre Kizito, ti ricordi me me? Sono Leonard, sono stato a Kivuli per un anno, nel 2000. Vieni ti voglio offrire un caffè, ti voglio ringraziare.” Onestamente non riesco a riconoscere in lui uno dei bambini di Kivuli di 11 anni fa, non posso neanche fermarmi per il caffè perchè il volo è stato chiamato, ma mi imbarco contento e rilassato.

L’aeroporto di Nairobi, di solito cosi impersonale, sta diventando un posto di amici. Le ultime due volte che sono rientrato dall’Italia a Nairobi, c’era Benjamin, figlio di un pastore protestante di una chiesa all’inizio di Kabiria Road. Cinque o sei anni fa Benjamin giocava a pallacanestro nella squadra di Kivuli, adesso fa il manovratore dei tunnel di attracco deli aerei. Appena si apre il portellone, ed io cerco di essere fra i primi a scendere, è li che mi dice, anche lui con un sorriso sorpreso “Welcome back to Kenya, Sir”. “Sir””, non “padre”, perchè come tanti protestanti non riesca a chiamarmi cosi, ma il calore del benvenuto è genuino.

E l’ altro ieri, tornando da Lusaka, l’hostess indiana della Kenya Airways che mi è passata accanto con fare profesisone mille volte durante il volo, all’arrivo mi saluta “Sono nipote di Julian, ricordati di noi, padre”. Julian è un anziano indiano cattolico, famiglia originaria di Goa, che ogni anno non si dimentica di portare un regalino ai bambini di Kivuli.

L’ultima volta che sono andato a Mombasa, in un parcheggio, sto chiedento indicazioni per andare a visitare una scuola vicino al mare dove poter mandare per una settimana di vacanza le ragazze della Casa di Anita. Passa un trentenne, si ferma “Ma tu sei padre Kizito! Io sono venuto per due o tre anni a fare karate a Kivuli. Non ti ho mai parlato, non sono cattolico e mi mettevi un po di soggezione. Cosa posso fare per te?” Gli spiego il problema, mi dice senza esistazione che conosce la scuola, è solo ad una decina di chilometri di distanza, però la strada è complicata, ma lui è pronto ad accompagnarmi, poi si arrangerà a tornare indietro. Ma è un giorno feriale, non lavora? “Si lavoro, ma posso prendermi un paio d’ore per accompagnarti.” Durante il percorso insieme mi racconta che i suoi vivono ancora sulla Kabiria Road, e chelui si è laurato in Economia e Commercio. Come tanti, dopo la laura ha fatto due anni di “tarmacking” – da “tarmac”, asfalto in inglese, verbo inventato in Kenya per indicare gli interminabili pellegrinaggi a piedi in cerca di lavoro – poi finalmente ha trovato lavoro per una ditta cinese. Cosa fa? Gli hanno dato un’auto e gira per tutte le strade del Kenya, localizzando le carcasse di auto e bus che sono state abbandonate sul posto dopo un incidente. La ditta manda un camion a prenderle, le carica su un cargo a Mombasa, e spedisce tutto in Cina, perchè in Kenya non c’è un fonderia.

Incontri veloci, semplici, ma che ti fanno sentire parte di una comunità, ti possono perfino far pensare di essere importante, cosa che non fa male. Se a me fa cosi tanto piacere sentire un “grazie” spontaneo e sincero, devo anche abituarmi a dirlo agli altri.

Story Yangu ya Kibera

I bambini che Jack raccoglie dalle strade di Kibera hanno sensibilità, immaginazione e creatività come tutti i bambini del mondo. Forse di più. La vita dura, senza pietà, che hanno vissuto dà loro ali per volare più in alto. Sentirli raccontare le loro storie, proporre le loro riflessioni, hanno donato momenti indimenticabili ai tanti amici che in questi anni hanno visitato Ndugu Mdogo.
Marita e Aija, finlandesi esperte produttrici di video che avevano già lavorato con bambini in contesti diversi, hanno proposto ad alcuni bambini di Kibera di raccontarsi davanti ad una videocamera, illustrandosi anche con immagini fatte da loro. Hanno fatto un montaggio semplicissimo e, in un documentario di trenta minuti, sedici ragazzini aprono uno spiraglio sulle loro vite. C’è chi si racconta in poesia, chi parla in terza persona, e chi si limita ad un elenco dei suoi viaggi in Kenya. Magari non lo dice, ma li ha fatti aggrappandosi per decine di chilometri sotto gli autobus di linea, le braccia indolenzite per tenere la testa lontana dall’asfalto.
Lo scorso 10 dicembre il video è stato presentato alla Shalom House alla presenza dell’Ambasciatore della Finlandia, dei nuovi Trustees di Koinonia e di un centinaio di ospiti. I protagonisti del video sono stati anche i protagonisti dell’evento. Con grande naturalezza e semplicità – non come i bambini con atteggiamenti da adulti che mi è capitato di vedere in qualche trasmissione mentre ero in Italia – hanno ricevuto e intrattenuto gli ospiti anche con i loro canti. Il video si chiama Story Yangu ya Kibera (La mia storia da Kibera), avrei voluto allegarvi un trailer ma è troppo pesante. Potete comunque visitare il blog che Marita ha tenuto durante i quasi due mesi di permanenza, dove ci sono anche tante foto. http://storiyanguyakibera.wordpress.com/
Perché siamo cosi interessati a conoscere le storie degli altri? Giornalismo, letteratura, tutta l’arte sono il racconto di storie. Le storie ci aprono al mondo degli altri. L’ incanto con cui un bambino ascolta una favola, o i miti raccontati dagli anziani, sono un’educazione alla sensibilità che poi permette di capire gli altri al di là di ciò che gli occhi vedono e che le orecchie sentono. Ci aprono alla vita, nostra e degli altri, e al suo significato profondo. Non capiremo mai tutto fino in fondo, cosi come non riusciremo mai a capire e spiegare tutte le dimensioni che una parabola del Vangelo ci fa intuire. Le storie degli altri ci avvicinano, più delle filosofia o della teologia, al mistero della nostra umanità e a mistero di Dio, e con esse capiamo meglio anche il senso della nostra storia personale. Capiamo lentamente, crescendo, che non siamo il centro del mondo, ma che la nostra vita appartiene al contesto degli altri.
Oggi, Natale, tutti i bambini di Kibera, Riruta e Kawangware che quest’anno sono entrati in contatto con gli operatori di Koinonia, sono qui con noi, a Kivuli. Un centinaio di vite che si incontrano, si raccontano e si ritrovano intorno alla storia del Bambino nato a Betlemme duemila anni fa. Anche Lui, discretamente, con pazienza e amore, come Lui sa fare, è entrato a far parte della nostra storia, la story yangu ya Kibera.

Stephen Maningwe

Un’altro lutto, questa volta a Lusaka. Stephen Maningwe, 16 anni, un ragazzo buono e semplice è stato vittima di un incidente stradale. Nel 2007 un maestro della scuola di Tubalange, vicino a Mthunzi, dove vanno tutti i nostri studenti fino alla classe nona, ci aveva parlato del suo caso. Di famiglia poverissima, viveva molto lontano dalla scuola, e ogni giorno doveva fare due ore e mezza di cammino per arrivare a scuola, e la sera altrettante per tornare a casa. Lo abbiamo preso a Mthunzi e non ce ne siamo mai pentiti. Un po timido, non emergeva in nessuna attività, ma partecipava a tutte con entusiasmo e allegria. Sempre la spalla su cui contare. Letteralmente, perché con la sua solida corporatura era la base ideale nelle piramidi acrobatiche. .
Lunedì scorso era a Mthunzi, perché aveva appena completato la classe ottava – in Zambia l’anno scolastico è alla fine –  e alcuni degli altri ragazzi invece erano a scuola per gli esami finali. Ha aggiustato un piccolo guasto meccanico della bicicletta del suo amico Richard, studente alla scuola alberghiera, e ha dato una mano ad Edina, la “mamma”, a cucinare il pranzo per tutti. Poi ha detto che approfittando della bicicletta di Richard avrebbe portato a casa i suoi vestiti e scarpe, in anticipazione del Natale a casa, cosi che poi agli inizi delle vacanza, andando a casa a piedi, non avrebbe avuto niente da portare.
Invece sul breve tratto di strada asfaltata è stato urtato da un camion, che è fuggito lasciandolo ai margini della strada. E’ una strada poco frequentata, e chi ha visto l’incidente era lontano e non ha visto la targa del camion. Lo hanno portato all’ospedale ma quando sono arrivati Malama, il responsabile di Mthunzi, e gli altri, Stephen era già morto.
Stamattina lo hanno seppellito a Chingwere, il grande cimitero alle porte di Lusaka. Ci sono troppi ragazzi di Koinonia in Cielo.

NUBA MOUNTIANS – STOP ANOTHER WAR —————————— FERMIAMO UN’ALTRA GUERRA

APPELLO

Mobilitiamoci per i popoli dei Monti Nuba (Sudan)

Fermare il massacro

Il Kordofan Meridionale è stato teatro di ripetute tragedie. I nuba hanno subito aggressioni ambientali, economiche, culturali. Oggi Khartoum sta di nuovo bombardando quelle terre. Nel silenzio del mondo. Serve la reazione di tutti per evitare un genocidio.

Il 10 novembre, un aereo militare Antonov del governo di Khartoum è entrato nello spazio aereo del Sud Sudan per circa 15 km e ha bombardato il campo profughi di Yida, dove oltre 20mila persone nuba – per lo più bambini, donne e anziani – avevano trovato scampo, dopo essere fuggiti dai loro villaggi nello stato sudanese del Kordofan Meridionale, perché vittime di una feroce repressione. Almeno 12 i morti; 20 i gravemente feriti. Le agenzie umanitarie dell’Onu stavano proprio in quei giorni organizzando l’assistenza dei rifugiati per aiutarli a sopravvivere nel nuovo e ostile ambiente.
Questa azione, compiuta nella più totale mancanza di rispetto delle leggi internazionali e contravvenendo a numerose convenzioni internazionali – oggi Sudan e Sud Sudan sono due nazioni indipendenti e sovrane – è soltanto l’ultimo dei numerosi crimini commessi dal regime di Khartoum contro il popolo nuba. Il bombardamento ha avuto luogo poche ore dopo che il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir Mayardit, aveva condannato un precedente attacco, avvenuto il giorno 8, contro un villaggio della contea di Maban (7 morti), e accusato il governo di Khartoum di cercare la guerra.
Quel bombardamento di un territorio straniero è stata l’ennesima prova che nulla fermerà il regime di Khartoum dall’usare ogni mezzo per piegare la volontà dei nuba di affermare il loro diritto all’autodeterminazione. Pare ormai certo che il governo di Omar El-Bashir è deciso a riprendere il genocidio culturale e fisico del popolo nuba, interrotto momentaneamente dal cessate-il-fuoco del 2002 e dall’Accordo globale di pace del gennaio 2005 tra il regime islamista di Khartoum e l’Esercito/Movimento popolare di liberazione del Sudan (Spla/m), e forse anche pronto a provocare una nuova guerra tra il Sudan e il Sud Sudan.
Noi, nuba della diaspora e amici del popolo nuba sparsi nel mondo, seguiamo con profonda preoccupazione il conflitto armato che è deflagrato nel giugno di quest’anno, e condanniamo con decisione questi nuovi atti di repressione barbarica da parte del governo di Khartoum.
In passato, lo stato del Kordofan Meridionale è stato teatro di ripetute tragedie: tratta schiavista, colonizzazione, prolungato isolamento del popolo nuba, totale privazione dei servizi scolastici e sanitari, negazione del diritto di proprietà e di uso delle risorse naturali locali… In particolare, i nuba hanno sofferto innumerevoli invasioni di razziatori di schiavi e una forzata arabizzazione-islamizzazione. Sono stato costretti con la forza a combattere in guerre che non erano per la loro difesa, ma per il beneficio di regimi lontani, se non proprio stranieri.
Nonostante queste ingiustizie, i nuba sono riusciti a far fronte a spaventose condizioni di vita e a sviluppare una straordinaria capacità di ripresa e un forte senso di identità. Il regime di Khartoum li ha tenuti sotto controllo attraverso una diabolica combinazione di meccanismi economici, sociali, ambientali e politici, ma non è stato in grado di spezzare la loro volontà.
In campo economico, Khartoum sta avvantaggiando persone o gruppi disposti a sposare i suoi orientamenti politici e a servire nelle sue strutture amministrative.
In campo sociale, ricorre alla denigrazione di tutto ciò che non è arabo e alla diffusione di norme sociali, tradizioni e costumi importati nella regione attraverso o un’esplicita imposizione dall’alto o matrimoni misti e pratiche religiose.
A livello ecologico, il regime sta gestendo l’ambiente in maniera scriteriata al solo scopo di avere il totale controllo dei mezzi di sussistenza in materia di cibo e sicurezza alimentare.
Dal punto di vista politico, con una linea programmatica sfacciatamente discriminatoria, ha impedito ai nuba di svolgere un loro ruolo a livello locale, nazionale e internazionale.
Infine, la popolazione dei Monti Nuba è stata testimone di vere e proprie aggressioni culturali, perpetrate per promuovere lingue, religioni, tradizioni, danzi, usi e costumi “altri”. Quasi tutte le culture imposte hanno mirato a instillare nei nuba un senso di inferiorità, quasi dovessero vergognarsi di essere ciò che sono. Tutti i mezzi di comunicazione, radio e televisione in particolare, sono stati – e sono tuttora – monopolizzati da chi detiene il potere e controlla le ricchezze nazionali.
L’Accordo globale di pace del 2005 non ha voluto affrontare il destino del popolo nuba e di altri gruppi marginalizzati del Sudan, né osato esaminare le molte cause di conflitto presenti in quelle aree. Questa la ragione principale che sta dietro l’attuale ritorno alla violenza, il pericolo di una nuova guerra civile e la possibilità di un conflitto interregionale se non addirittura internazionale. Oggi Khartoum uccide persone indifese che sono fuggite da zone di guerra, raggiungendole perfino nei campi profughi.
Cosa bisogna fare per fermare le violenze e evitare una nuova guerra? Di sicuro, serve la partecipazione di molti. Pertanto, ci appelliamo:
1. ai tutti i nuba della diaspora, perché sostengano il loro popolo, usando ogni mezzo possibile per far conoscere le sue sofferenze e le sue lotte, coinvolgendo i mezzi di comunicazione della nazione in cui vivono, così che il regime di Khartoum non possa più continuare impunemente a fare ciò che sta facendo sui Monti Nuba e nel Kordofan Meridionale;
2. alla comunità internazionale e agli organismi non governativi, perché approntino e inviino subito sui Monti Nuba e nel Kordofan Meridionale commissioni d’inchiesta per raccogliere documentazioni sui crimini che vi sono commessi, e nello stesso tempo mandino aiuti ai civili indifesi;
3. alle potenze mondiali e alle agenzie dell’Onu, perché esercitino pressioni sul governo di Khartoum, affinché consenta il libero accesso alle zone colpite dalle nuove violenze e promuovano un dialogo politico tra tutte le parti interessate.
Invitiamo tutti a fare in fretta, ad agire ora, quando un genocidio vero e proprio è ancora evitabile.

Firme

Mohamed Yassin (Diaspora nuba) – Acli Cremona – Acli Milano – Amani Italia – Arci Darfur Milano – Arci Milano – Campagna italiana per il Sudan – Commissione giustizia e pace comboniani Italia – Fondazione Nigrizia onlus – Ipsia Milano – Iscos Emilia Romagna – Koinonia Kenya – Koinonia Roma – Nexus Bologna – Tavola della Pace.
Altre adesioni possono essere comunicate a info@developmentdays.net e forum@nigrizia.it

AMICI E MARTIRI – FRIENDS AND MARTYRS

Domenica scorsa, a Castel di Guido, una zona rurale alle porte di Roma, mi son ritrovato con altri vecchi amici intorno a Don Franco, il parroco.
C’erano gli ex-giovani che agli inizi degli anni 70 partecipavano al gruppo Mani Tese della parrocchia della Trasfigurazione nel quartiere Monteverde e che erano diventati amici di Nigrizia. In quegli anni avevamo la redazione a San Pancrazio, a due passi dalla loro parrocchia. Erano liceali o poco più, contribuivano con le loro idee, dando una mano a correggere le bozze, a stampare le foto – in un bagno adibito a camera oscura. Poi nel 1987 – queste date fanno un po impressione – si sono organizzati nella Onlus che si chiama pure Koinonia, facendo piccoli progetti in diversi paesi. Oggi alcuni sono vicini alla pensione. Michele, introducendo la Messa, ha parlato di amicizia, perché questa Onlus è in realtà più che altro un gruppo di amici, con “un legame profondo di vita, nella condivisione, attraverso le varie scelte di ognuno e sapendo che ieri come oggi possiamo contare un sull’altro per ogni evenienza bella o dolorosa che la vita ci propone, e sempre tenendo aperta una porta in noi e nelle nostre. case a coloro che erano e che sono meno fortunati”.
Uno di questi amici si sposò alla Trasfigurazione. Lui e la moglie arrivarono al matrimonio in blu jeans, e dopo la cerimonia offrirono a tutti un gelato, in un locale adiacente. Domenica scorsa era presente con moglie, figli e nipoti, e mi fece una riflessione su quanto sia difficile per i suoi figli oggi fare amicizie solide e durature.
Abbiamo ricordato George, che era stato ospite in una delle loro case, e Marco, ma anche Don Andrea Santoro, che quarant’anni fa insieme a don Franco fu una presenza importantissima per i giovani della Trasfigurazione. Successivamente scelse di dedicarsi alla presenza e al dialogo nel mondo musulmano, andando a vivere in Turchia, dove fu ucciso da un fanatico nel febbraio del 2006.
Per tutta la giornata ho pensato al collegamento fra amicizia, amore e martirio. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici”. Le lettere di don Andrea ci dicono che si sentiva circondato da molti amici musulmani, e che la sua scelta di vivere in mezzo a loro era fondata sul desiderio di comunione. Pochi giorni prima del nostro incontro era stata uccisa suor Valsa John, una religiosa indiana che aveva lottato per proteggere i suoi amici sfruttati nelle miniere di carbone. E Graziella Fumagalli, Annalena Tonelli, suor Leonella Sgorbati in Somalia, Monsignor Romero… Tutta gente che amava Dio, ma che amava davvero anche le persone attorno a loro.
Nella chiesa non è facile trovare amore. O meglio lo si trova più facilemente fra i comuni fedeli e meno negli altri livelli di responsabilità. E’ difficile amare ed esercitare il ministro del servizio. Chi è in autorità tende naturalmente a privilegiare legge e strutture piuttosto che l’attenzione alle persone. L’ho amaramente sperimentato in questi giorni, incontrando persone che hanno responsabilità importanti nella chiesa, e a parte un paio di felici e positivissime eccezioni, ho trovato tanto desiderio di salvaguardare gli interessi della chiesa, di mantenere gli equilibri di potere, di evitare scandali, di difendere il proprio piccolo potere, di non apparire troppo ingenuo, eccetera eccetera. Ma amore per i poveri, disponibilità a mettersi in gioco per il loro servizio, ne ho percepito molto poco. Spero che la mia sia una percezione sbagliata e non voglio giudicare chi ho incontrato magari solo per pochi minuti. Perchè la chiesa senza amore non esiste.
Pochi giorni fa, su Avvenire, il cardinal Ravasi citava la romanziera tedesca Luise Rinser: “Questa è la mia idea dell’inferno: uno se ne sta seduto là, completamente abbandonato da Dio, e sente che non può più amare, mai più e che mai più incontrerà un’altra persona per tutta l’eternità”. Forse alcuni si creano il loro inferno personale in terra, illudendosi che cosi facendo si meriteranno il paradiso. All’opposto, il martirio è il dono e sigillo per chi ama.

Perché?

Perché la storia dell’Africa postcoloniale è stata dominata da tiranni megalomani come Idi Amin, Mobutu Sese Seko, Bokassa, Menghistu, Siad Barre, Daniel Arap Moi, Dos Santos, Adjio, Omar Bongo, Mubarak, Al Bashir, Afewerki, tanto per fare un elenco dei primi che vengono in mente, vivi e morti? O anche, perché gli africani sono così vulnerabili dal fascino di leader che poi si tramutano in tiranni?

È difficile rispondere. Occorre non solo una buona conoscenza della storia africana, ma anche tanto tempo, o tanta carta, per sviluppare l’argomento e dare una risposta che non sia superficiale.

In queste ultimi mesi si è aggiunta una domanda ancor più complessa, che nelle ultime settimane ho sentito fare decine di volte in incontri, conferenze e seminari: perché l’onda della “primavera araba” non tocca l’Africa nera?

Guardo alla grande mappa dell’Africa appesa nella mia stanza e, muovendo per grandi semplificazioni, penso a quali possano essere le similitudini e le differenze fra i paesi dell’Africa araba e quelli dell’Africa nera.

Le somiglianze sono molte e importanti. Innanzitutto sono paesi dove una minoranza ricca governa una maggioranza povera, con un divario in continua crescita. Dove per chi nasce nella povertà è quasi impossibile uscirne: non esiste o quasi mobilità sociale. Sono tutti paesi giovani, dove mediamente il 50% della popolazione ha meno di 18 anni, e dove da decenni la disoccupazione giovanile è un problema nazionale che spinge all’emigrazione i giovani più istruiti e desiderosi di cambiamento. Sono tutti paesi dove le recente crisi economica globale e la crescita inarrestabile del costo del cibo sta avendo conseguenze dirette e immediate sulla vita quotidiana delle fasce più povere della popolazione.

Però appena si incomincia a pensare alle differenze, ci si accorge che le somiglianze sono tutte di tipo economico-sociale, mentre sono macroscopiche le diversità storico-culturali. I paesi del Nord Africa sono eredi della cultura araba, e sono unità socio-politiche da diverse generazioni, anche se magari sono indipendenti solo da mezzo secolo. I paesi dell’Africa nera invece sono sì indipendenti da mezzo secolo, ma hanno alle spalle secoli di frammentazione, schiavitù e colonizzazione di una brutalità straordinaria. Le indipendenze hanno coagulato altre frammentazioni – l’Africa è il continente con il più alto numero di stati – rendendo problematico il sorgere di un senso diffuso di unità nazionale.

Bastano queste differenze a spiegare perché in Africa non ci sono ancora state “primavere”?
Molti dittatori, come Museveni e Mugabe, si sono affrettati a dire che da loro non potranno succedere le stesse cose che in Egitto. In un certo senso saranno salvati dal tribalismo, come essi stessi hanno brutalmente chiamato la frammentazione. Diventati esperti nel gioco del divide et impera, non si troveranno mai di fronte a qualcosa di simile alla folla compatta di Tahir Square. Contro i dittatori non si muoverà neppure la classe media, per quanto stia diventano sempre più numerosa, perché i suoi membri o si compiacciono di essere stati cooptati dall’élite dominante o comunque si sentono troppo fragili di fronte allo strapotere economico delle poche famiglie in cui esso si concentra.

Che cosa potrebbe allora far sbocciare queste “primavere nere”? John Githongo, in un articolo pubblicato dal quotidiano americano International Herald Tribune, dà la più seria e sintetica delle risposte che mi sia capitato di leggere. Githongo è stato nel primo governo Kibaki in Kenya “sottosegretario per la governance e l’etica”, un posto che era stato creato per lui e che poi è stato cancellato quando egli non ha esitato a prendere sul serio il suo lavoro e si apprestava a denunciare per corruzione acuni suoi colleghi di governo. Dovette fuggire all’estero per salvarsi.

Secondo Githongo oggi in Kenya, ma in genere in tutta l’Africa nera, c’è un crescente numero di giovani che sono quotidianamente provocati dai simboli della crescente diseguaglianza economica e dalla mancanza di partecipazione alla vita sociale. Il risentimento, per esempio, contro il figlio del presidente che si compra una Ferrari scatena una rivendicazione più forte della rabbia causata dal vedere in televisione i simboli della ricchezza dell’Occidente. La globalizzazione ha cambiato le aspirazioni dei poveri e le loro aspettative, paradossalmente, sono diventate più locali. Githongo sostiene che la rivoluzione araba ci ha fatto capire come ormai il problema non sia più la povertà globale, ma la diseguaglianza e la sua percezione all’interno di un paese. Di conseguenza oggi il compito più urgente è mitigare le diseguaglianze all’interno di uno stesso paese, e non quello di “make poverty history” (mettere fuorilegge la povertà), come diceva la campagna di solo pochi anni fa.

La povertà, afferma Githongo, è diminuita a livello globale, ma sono aumentate le diseguaglianze locali. Lo sviluppo economico – molti paesi africani crescono oggi al ritmo del 5% annuo – insieme alla presa di coscienza dei propri diritti, ha reso i giovani consapevoli del ritardo rispetto al villaggio globale.
Scrive Githongo, facendo un paragone preso dall’informatica, che “la Primavera araba è avvenuta nel momento in cui lo sviluppo economico ha distanziato lo sviluppo politico. Sistemi politici ossificati non riescono più a soddisfare la richiesta di nuova libertà che viene dalla gente. L’esplosione democratica del mondo arabo è quindi il risultato del suo successo economico, non del suo fallimento. Un paese può vivere una crescita economica e dotarsi di tutto il corretto hardware di governo (educazione, salute, infrastrutture) ma nel contempo dotarsi del software sbagliato (diritti fondamentali, leadership, controllo delle ineguaglianze, risposte alla domande dei giovani). Alla fine il sistema brucia”.

Githongo non lo scrive, ma la conclusione ultima che possiamo trarre dalla sua argomentazione è che il crescente divario fra un sistema ossificato e un’élite di predatori da un lato, e dall’altro la richiesta di diritti fondamentali e la consapevolezza delle diseguaglianze economiche, finirà inevitabilmente per far fiorire la primavera anche nell’Africa nera.

Resta una domanda: quando?

Kenya senza Pace

I colletti delle camicie degli studenti cominciano a sfilacciarci per l’usura dei continui lavaggi. E’ segno che l’anno scolastico sta per finire. Sono alla nostra scuola superiore, la Domus Mariae a a fine ottobre venticinque studenti i loro cominceranno gli esami finali, per poter eccedere all’università o comunque a scuole di terzo livello. Ieri, come ogni domenica, ho celebrato la Messa con loro e poi mi sono fermato nella scuola per respirarne un po l’aria..
Su richiesta di un gruppo di studenti abbiamo fatto un po di riflessione e preghiera per il Kenya. Naturalmente, come con tuti gli studenti del mondo, chi ha studiato di meno durante l’anno ha pregato con maggiore intensita, che Dio gli doni forza, salute e intelligenza durante gli easmi… A parte questo, gli argomenti per lo scambio di idee e la preghiera non sono mancati.
Nella scorsa settimana sono successi in pochi giorni alcuni disastri, di natura ormai ricorrente.
Lunedì l’incendio del piccolo slum chiamato Sinai le cui immagini orrende hanno fatto il giro del mondo. Quasi cento persone morte bruciate in un rogo scatenatosi mentre una folla era accorsa e cercava con tutti i contenitori possibili di raccogliere oltre centomila litri di carburante che si erano riversati in un canale di scolo dalla tubatura difettosa di una vicina raffineria. .
Due giorni dopo in due diverse località quasi venti persone morte, e altre diventate cieche, per aver bevuto dell’alcool distillato illegalmente, senza eliminare la testa e la coda che normalmente, e lo sanno tutti, sono tossiche.
Sabato sera quattro morti e cinque feriti per il crollo di un edificio in costruzione.
Disastri causati della disperazione, dal desiderio o dalla necessità di far soldi a tutti i costi, e in fretta.
Queste notizie hanno fatto passare in secondo piano la tremenda carestia che sta devastando tutto il nord del paese e che era stata nelle prima pagine dei giornali nel mese precedente
Sono tragedie che hanno responsabilità precise, e il comun denominatore è la corruzione. Per pochi soldi si chiude un occhio se una casa non è costruita secondo i minimi standard, se l’alcool viene distillato nel cortile dietro casa, se un oleodotto regolarmente ha perdite che inquinano e potrebbero innescare un disastro.

Ho interrotto quanto avevo incominciato a scrivere qui sopra, pensando di riprendere dopo poche ore, ma poi sono venuto in Italia per la Perugia – Assisi ed una serie di incontri che mi ha portato da Bolzano a Modica, da Bari a Torino, da Alghero a Conegliano Veneto…
Nel frattempo in Kenya e in tutto il Corno d’Africa la carestia continua, centinaia di persone muoiono ogni giorno, gli interventi umanitari sono assolutamente insufficienti come denunciato degli stessi responsabili degli aiuti, fiumane di persone disperate hanno cominciato a riversarsi in Kenya dalla Somalia in cerca di cibo per sopravvivere, i militanti islamici somali hanno rapito turisti in Kenya, e il governo keniano non ha trovato altra soluzione di inviare l’esercito in Somalia.
Si può pensare che il Kenya riesca a pacificare la Somalia, quando ha fallito l’America e poi l’Etiopia? Anche se negli anni la situazione è cambiata e l’esercito keniano ha il supporto dietro le quinte degli americani, è fin troppo facile prevedere che il risultato sarà nel migliore di casi una serie infinita di scaramucce e scontri.
La violenza, le armi, non vincono mai contro le legittime aspirazioni dei popoli. Nel migliore dei casi nascondono sotto il tappeto di una falsa pace una situazione che riesploderà ancora dopo pochi anni. In Somalia ci si può seriamente domandare quali siano le legittime aspirazioni o se non si sia creata una situazione di violenza cronica che è diventata uno stile di vita. Ma certamente una mamma che sa con certezza che sta morendo per fame insieme ai figli, non si ferma davanti al rischio di essere uccisa da una pallottola.
Addirittura leggo che qualcuno in Kenya sogna di stabilire uno stato cuscinetto fra Kenya e Somalia, da chiamare Azania. E’ la stessa linea di pensiero espressa tre anni fa da un editorialista del Nation di Nairobi che si domandava se il Kenya non avesse la responsabilità di invadere e colonizzare la Somalia, per lo meno fino a che i somali non diventassero capaci di autogestirsi. Intanto, com’era da aspettarsi, dal 6 novembre sono iniziate le reazioni dei fondamentalisti islamici in Kenya, che hanno tirato una granata nel cortile di una chiesa pentecostale, a Grarissa, facendo due morti e tre feriti.

Non sarà facile fermare questa spirale di violenza. Speriamo sempre nei giovani. Che la generazione degli studenti della Domus Mariae capisca che il rispetto dei diritti degli altri e dialogo sono le chiavi della pace. E’ una strada lunga e faticosa, ma non c’è altra via per diventare più umani.

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