Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

Educare alla Vita – Education for Life

Ian Stanley ha poco più di 17 anni, al primo contatto è timido, taciturno, riservato, al punto da poter apparire scontroso. Eppure quando è fra i suoi compagni a Kivuli emerge subito come un leader. Non si fa notare, non si mette in mostra, ma in un gruppo di coetanei Ian diventa presto un punto di riferimento. Da quando è arrivato a Kivuli ed ha ripreso la scuola, non solo ha bruciato le tappe recuperando quasi tutti gli anni perduti e riuscendo così a finire la classe ottava lo scorso novembre, ma nella scuola pubblica che ha frequentato è sempre stato capoclasse, e negli ultimi due anni rappresentante di istituto. Agli esami ha avuto risultati molto alti e ha ottenuto una borsa di studio stanziata da Equity Bank in una delle scuole pubbliche più prestigiose del paese. Il primo giorno di scuola, in gennaio, è stato nominato capoclasse.

Catherine Odongo, 21 anni, anche lei proveniente dalla strada, letteralmente da una vita randagia, in una miseria umiliante che ne avrebbe potuto fare un’eterna vittima, è invece una ragazza della Casa di Anita determinata a diventare sempre più indipendente. Sta già frequentando il primo anno di università, e basta parlare con lei pochi minuti per capire di essere alla presenza di una forza capace di superare ogni ostacolo.

Moses Chimwanga, 23 anni, ha un carattere completamente diverso dagli altri due. È una persona solare, è difficile sorprenderlo senza che sorrida. La sua storia è stata pubblicata lo scorso novembre sul quotidiano inglese The Guardian con il titolo “From street child to college boy” con una foto, ovviamente con un sorriso smagliante, nel cortile di Mthunzi. Per il suo carattere vivace la sua carriere scolastica non è stata così lineare come quella di Catherine e di Ian, ma ce l’ha fatta. I tempi in cui viveva in strada, facendo di tutto pur di riuscire a procurarsi un po’ di alcol da bere o di jenkem (solvente per vernici) da sniffare, sono un ricordo vivido ma superato.

Tre belle storie, tre persone straordinarie che ci convincono che il sostegno che abbiamo dato loro e che continuiamo a offrire con passione e amore a tanti altri bambini di strada a Kivuli, alla Casa di Anita, a Mthunzi è ampiamente ripagato.

Ma non possiamo evitare qualche riflessione. Innanzitutto misurare il successo di un’educazione alla vita, come quella che noi intendiamo offrire, col solo metro dei risultati scolastici sarebbe sbagliato. Ci sono tanti ragazzi che sono passati dalle nostre case e che non hanno avuto grandi successi accademici o che, a causa della loro storia e dei loro limiti personali, hanno smesso di studiare alla fine della scuola dell’obbligo. Ma sono meccanici, sarte, segretarie, falegnami, camerieri e cuochi che si guadagnano la vita onestamente e dignitosamente.

Non ci piace la mentalità prevalente in Kenya, dove i giornali pubblicano con grande risalto i risultati scolastici della classe ottava e della dodicesima (rispettivamente ultima classe della scuola primaria e ultima classe della secondaria). Per diversi giorni in prima pagina ci sono le foto dei migliori studenti a livello nazionale e nelle diverse province, con la classifica delle scuole che hanno avuto gli studenti migliori. Per le scuole è motivo di vanto – e soprattutto di guadagno, visto che quasi sempre le prime sono scuole private – essere nei primi posti in questa classifica. Nei giorni successivi non mancano mai, sempre riportati con evidenza, i casi di studenti che si suicidano perché non sono passati o non hanno avuto i risultati che si aspettavano. È un’educazione pensata e vissuta come strettamente funzionale ad un tipo di società che esalta la competizione e il successo. Gli esami sono test scritti, uguali per tutti gli studenti a livello nazionale, col risultato di confondere spesso educazione con memorizzazione. Se agli insegnanti, alle scuole e ai genitori interessa solo che gli studenti passino gli esami con voti alti, non c’è una vera educazione alla vita, destinata all’intera persona umana.

La Carta Africana dei Diritti e il Benessere del Minore (1990) è una lunga lista di speranze disattese. Ma è una buon punto di partenza per vedere quali dovrebbero essere gli obiettivi di un sistema educativo statale. Le prime righe dell’articolo 11 affermano che «ogni bambino ha diritto ad un’educazione. L’educazione del minore deve essere volta alla promozione e allo sviluppo della personalità del minore, dei suoi talenti e capacità fisiche e mentali, in tutto il loro potenziale, ad alimentare il rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali».

Troppo facile constare che invece in Kenya, in Zambia, in Sudan, là dove siamo presenti, il sistema educativo è ben lontano dal raggiungere tutti i bambini, e che quando li raggiunge non li educa, non li abitua a ragionare con la propria testa e a sviluppare uno spirito critico, a scegliere i valori che daranno forma alla loro vita: semplicemente li indottrina, o li ammaestra.

Gli esclusi, i marginalizzati, non hanno bisogno di un sistema educativo che li confermi nella certezza del loro senso di inferiorità e li convinca delle loro inadeguatezze. Hanno bisogno di una mano amica che offra loro la possibilità di educarsi, di e-ducere da se stessi le potenzialità della loro persona. Non scopriremo mai abbastanza quanto bene possa fare e quanto Vangelo possa annunciare una mano tesa a un bambino in difficoltà.

Catherine Odongo.

Moses Chimwanga.

Ritorni

Ritorna la guerra sui Monti Nuba
Inevitabilmente i problemi non risolti si ripresentano. Spesso, dopo un soluzione affrettata e imposta con la forza, diventano più complicati e intrattabili. Cosi è per la questione dei Nuba in relazione al Sudan e al Sud Sudan – che si interseca con la questione della mancata definizione del confine e del controllo dei campi petroliferi – non risolta dal CPA (Comprehensive Peace Agreement) del 2005 e neanche negli anni successivi. Mi è capitato di scriverlo più volte, anche in questo blog, attirandomi rimproveri di essere pessimista. Adesso, in una Guest House di Juba, capitale del nuovo Sud Sudan, dove sono arrivato ieri sera e starò per pochi giorni, rappresentanti delle organizzazioni che mi dicevano pessimista, sono i primi ad affermare che il pomposo aggettivo “Comprehensive” era un inganno, che nascondeva i problemi, rimandandone la soluzione all’esercizio di uno spirito di collaborazione che tutti sapevano non ci sarebbe mai stato. Una vecchia conoscenza, un olandese che aveva cominciato a frequentare i Monti Nuba alla fine degli anni novanta, e che sarebbe già in pensione se non fosse stato ingaggiato da un’agenzia umanitaria come consulente, mi fa notare “Tutto il personale ONU, UNICEF, UNDP, UNHCR e simili cambia totalmente nel giro di pochissimo tempo. Ormai non c’è più nessuno che era qui alla firma del CPA, ed io, in Sudan dal ’97, sono un sopravvissuto. Non c’è memoria istituzionale. Non solo nessuno sembra interessato e leggere i rapporti che i loro predecessori facevano pochi anni fa, ma nessuno riesce a capire la profondità del risentimento dei Sud Sudanesi contro il governo di Khartoum. Tutti credono o fingono di credere che la storia del Sud Sudan sia cominciata con l’indipendenza proclamata il 9 luglio dello scorso anno”.

Dal 26 al 31 marzo alla Shalom House si è riunita la comunità Nuba di Nairobi, sostenuta dalla Diaspora Nuba di tutto il mondo, e con qualche rappresentante dei campi di rifugiati del Kenya, per ricordare che la guerra sui Monti Nuba c’è ancora, se possibile ancora peggiore di quella degli anni 90. I Nuba hanno organizzato un mostra di recenti fotografie per denunciare gli orrore dei recenti attacchi contro la popolazione civile. C’è stata una buona coperture della stampa, radio e televisioni keniane. I ragazzi delle nostre case hanno animato le giornate, e in maggioranza hanno partecipato al digiuno di venerdì 30. Il problema è sempre “come possiamo aiutare per ristabilire umanità, ragione e pace?”. Le nostre sono piccole forze di fronte alle grandi forze di male che sono scatenate su questa terra da decine di anni. Facciamo un appello? Un altro dopo quello che la stessa diaspora Nuba ha lanciato attraverso Nigrizia? E poi lo stesso “genere letterario” dell’appello è abbastanza abusato e squalificato. Mi dice un rifugiato Nuba: “comincio a capire gli attivisti di altre parti del mondo che si immolano dandosi fuoco per attirare l’attenzione su un problema.”

Il ritorno di Franklin Odhiambo
Dal 2000 al 2004 il bambino icona di Kivuli era Franklin (o Francis) Odhiambo, insieme al suo inseparabile amico Mark Pesa. Franklin era una specie di Gian Burrasca, e, come succede spesso in questi casi, la sue avventure venivano anche esagerate e diventavano in poche ore parte della leggenda. Poi uno zio venne a prenderlo e lo portò al villaggio di origine, garantendo, di fronte ad un magistrato, che se ne sarebbe preso cura. Ne perdemmo le tracce. Le cose non andarono bene, lo zio scomparve e Franklin fu preso in una casa per bambini della sua zona. Pochi mesi fa, dopo aver terminato gli esami della scuola superiore con ottimi risultati, entrando nell’ufficio del direttore, vide sul tavolo una foto che il direttore aveva fatto con me lo scorso anno, e si fece dare i contatti di Kivuli. Cosi, quando son rientrato a Nairobi a fine marzo me lo son ritrovato a Kivuli. Mi ha implorato di portarlo ad incontrare Mark, che sta facendo l’ultima classe di scuola superiore a Domus Mariae.

Mark (a sinistra) e Franklin.

John Epucha torna alla vita
Nei pochissimi giorni trascorsi a Nairobi, fra Lusaka e Juba, ho incontrato i “nuovi” bambini riscatti dalla strada del nostro team di Kibera. Ci sono le storie più incredibili, dal Kevin (un altro!) tredicenne pacioccone arrivato pochi giorni fa da Mombasa nascosto sotto il vagone di un treno e subito preso dalla polizia e portato a Ndugu Mdogo, a John Epucha, un ragazzino Turkana – il popolo seminomade che vive vicino al confine con l’Uganda. John racconta in modo vivace che due anni fa ha deciso di sfuggire ad una vita di analfabetismo e povertà assoluta come quella che ha visto fare da suo padre, pastore di una stentata mandria di cammelli e capre, sempre al limite della sopravvivenza e della fame. Si è nascosto in un camion, fra un carico di capre destinate al macello di Nairobi, e per due giorni ha vissuto nascosto fra le loro gambe, riuscendo solo a bere un po dell’acqua che veniva data per mantener gli animali in vita. Quando sono arrivati a Nairobi era probabilmente svenuto dalla stanchezza e dalla fame, e il camionista deve averlo trovato, coperto di escrementi, nel cassone del camion quando hanno scaricato le capre. Lo ha messo al margine della strada, vicino al macello, forse credendolo morto. Il fresco della notte gli ha fatto riprendere le forze, e prima che la giornata finisse si era già fatto degli amici di strada, che lo ammiravano per l’incredibile avventura e per l’insostenibile puzza che emanava. Da allora ha imparato le strategie per sopravvivere in strada. Poi la scorsa settimana un ragazzo che è stato a Mdugu Mdogo lo ha convinto che può iniziare una vita nuova. Eccolo, nella foto qui sotto, nella veranda di Ndugu Mdogo, pronto a ricominciare. Ma, dice “fare i tre chilometri da Kawangware a Ndugu Mdogo è stato più lungo che da Lodwar a Nairobi. Avevo paura di essere rimproverato e punito. Non credevo che mi accettassero cosi come sono”.

Una Storia di Pasqua – An Easter Story

Pasqua, l’inizio di un mondo nuovo, ma il vecchio non vuole andarsene. Il ricco epulone resta tenacemente attaccato alle sue ricchezze, e il povero Lazzaro deve accontentarsi delle briciole. L’uomo vecchio non dà spazio all’uomo nuovo. Le promesse che abbiamo fatto, o che i nostri genitori hanno fatto per noi, al momento del battesimo sono troppo difficili da mantenere. Solo il Risorto ci aiuta a continuare il faticoso cammino, a tornare ogni volta a testa bassa al suo seguito, bisognosi del suo perdono e della forza del suo Suo Spirito.

Montagne Nuba, marzo 2012. Zeinab cammina a passo sciolto, anche se le forze sono poche, con un figlio di pochi mesi in braccio e altri due al seguito. La terra è bruciata da un sole impietoso, non piove da cinque mesi e per arrivare alla prossima stagione delle piogge di mesi ce ne vogliono almeno altri due. Oltre al bimbo Zeinab porta in equilibrio sulla testa una grande cesta contenente una coperta, pochi utensili, noccioline, durra e verdure essiccate sufficienti per mangiare per una paio di settimane, forse tre, e un contenitore di plastica con dell’acqua, ma quasi vuoto. Il maschio e la femminuccia di cinque e tre anni che la seguono, ogni tanto rallentano, e Zeinab si deve fermare spesso per non perderli.
Sono stanchi e vorrebbero fermarsi, ma non si può, Zeinab sa che nella zona ci sono pattuglie governative che sparano a vista. Per tre giorni sono stati nascosti in una grotta sul fianco di una montagna, ma poi ha deciso di tentare di passare il confine, mancano ancora una ventina di chilometri, laggiù a sud, per trovare sicurezza e qualcosa da mangiare, soprattutto da bere.
All’improvviso arrivano tre camionette. Gli alberi sono troppo radi per potersi nascondere. I soldati sparano, ridendo, per divertirsi, e Zeinab e i figli sono paralizzati dalla paura. I due figli, nonostante siano un po’ più lontani, vengono quasi subito colpiti in pieno. Zeinab stringe più forte il bambino che ha in braccio, sa che non può fare niente se non morire abbracciata al piccolo. Il comandate – pietà o fretta di andare altrove – grida “Basta, non abbiamo tempo da perdere”.
Zeinab depone il bambino e compone i cadaveri dei due figli morti sotto un albero, come per proteggerli dal sole, e li copre come può con delle pietre, in un ultimo gesto di affetto. E’ un lavoro lungo e faticoso, ma non può lasciare i corpi dei figli in pasto agli animali selvaggi.
La sera del giorno dopo arriva al campo profughi di Yida, Stremata, mangia e beve a piccoli sorsi, mentre nutre il figlio nello stesso modo. Sa che dopo la fame e sete che hanno patito deve assumere tutto con calma. Sembra non sentire niente, le parole di consolazione dei primi soccorrritori e degli altri profughi non la toccano, è in un altro mondo, tutta la sua amorosa attenzione concentrata sul figlio. Quando il piccolo sembra sazio, sempre tenendolo in braccio, gli parla come fosse un adulto, sussurrando: “Kallo, noi perdoniamo. I tuoi fratelli sono con Dio, e non vogliono altro odio e altre morti”. Poi si dà vinta e si lascia andare ad un pianto sommesso e senza lacrime.

Una storia di Pasqua? Si perché l’odio e la morte, non possono vincere contro la forza dell’amore e del perdono, che rendono possibile una vita nuova. Me l’ha raccontata un operatore sanitario keniano rientrato a Nairobi dal campo profughi di Yida, nel Sud Sudan, al confine col territorio dei Nuba che è sotto il controllo di Khartoum. Mi dice che nelle ultime settimane ha visto tante sofferenze causate dalla guerra, niente però lo ha toccato come le parole che ha sentito mormorare da Zeinab al piccolo Kallo.

Marzo 2012. I Nuba tornano nelle grotte per sfuggire ai bombardamenti. The Nuba take refuge in the caves to escape air bombings.

La forza della fedeltà – The force of faithfulness

La forza spirituale di una comunità non si misura col numero dei fedeli cristiani o con le posizioni importanti nella gerachia ecclesiasitca. La Chiesa africana è importante per la Chiesa universale – non in forza dei numeri, ma in forza della sua fedeltà a Cristo.

La crescita numerica della Chiesa in Africa è una realtà di grande importanza non solo per i cambiamenti profondi che potrebbe significare per i paesi in cui la crescita si svolge, ma anche per la vita della Chiesa nel suo insieme. Però, quando si parla di una realtà spirituale come il “popolo di Dio” che è la Chiesa, il significato dei numenri deve essere messo in giusta prospettiva.
Il pericolo maggiore è quello di pensare che i numeri possano darci indicazioni chiare e quasi automatiche per capire come sarà la chiesa del futuro.
Uno studio sulla crescita del cristianesimo nel mondo –The Next Christendom. The Coming of Global Christianity, di Philip Jenkins, pubblicato nel 2002 – dimostra, utilizzando statistiche disponibili in quel momento, che l’adesione alle Chiese cristiane sta vivendo una rapida crescita in Africa e in Asia, e che la maggior parte dei nuovi credenti tendono verso un cristianesimo pentecostale, carismatico e, in ultima analisi, fondamentalista. Utilizzando proiezioni statistiche, Jenkins prevede che nel 2050 il cristianesimo a livello mondiale sarà fortemente fondamentalista, più propenso ad confrontarsi in modo conflittuale con le altre fedi, piuttosto che a dialogare. La crescita numerica, infatti, sempre secondo le proiezioni statistiche eleborate da Jenkins, sarà solo fisiologica per le grandi Chiese tradizionali – Cattolica, Luterana e Anglicana – ma sarà travolgente nella costellazione delle nuove chiese di stampo pentecostale che sono Cristo-centriche ma socialmente conservatrici e politicamente disimpegnate.
E ‘vero che l’analisi statistica dei fenomeni sociali è importante per capire dove siamo e dove probabilmente andremo nell’immediato futuro. Tuttavia, è altamente discutibile proiettare le tendenze attuali per un periodo così lungo, come Jenkins fa, in particolare per quanto riguarda cultura, società e religione. Ci sono dei cambiamenti nella società che sfidano tutte le statistiche. Per esempio, la primavera araba, con tutte le sue ambiguità, non è stata prevista da nessuno. Le trasformazioni che sta provocando non sono ancora chiare e magari diventeranno evidenti solo fra una generazione, ma chi aveva costruito un quadro di come il mondo arabo sarà nel 2050, supponendo che le tendenze del 2010 sarebbero continuate per lungo tempo, ha fatto un esercizio in futilità. Allo stesso modo, cosa sappiamo dei movimenti culturali e politici che cresceranno in Africa nel prossimo futuro? Niente. Ci sarà una nuova percezione dei diritti umani che cambiarà l’auto-comprensione del mondo africano? Oppure la crescente influenza della cultura materialistica occidentale causerà il crollo della visione del mondo tradizionale in cui Dio e la religione occupano un posto importante? E le chiese cristiane perderanno il sostegno della spiritualità tradizionale che è una forte preparazione al cristianesimo? Quali trends e correnti di pensiero prevarranno? Gli elementi in gioco sono troppi e troppo imprevedibili, nessuno può neanche con relativa certezza dirci come sarà l’Africa fra trenta o più anni. Leggere i segni dei tempi non è un esercizio facile.

I numeri non significano maturità

Se i numeri non possono essere l’unico fattore per aiutarci a vedere nel futuro, non sono neanche molto utili per misurare la forza spirituale di una comunità. Quando l’Europa fu travolta dall’orrore del nazismo e della seconda guerra mondiale, era statisticamente abitata da una maggioranza cristiana. Ma quanti cristiani furono capaci di resistere a quella follia? Alcuni lo fecero, dando testimoninaza di grande coraggio, ma dobbiamo ammettere che furono pochi. Allo stesso modo, quando il Ruanda, un paese a grande maggioranza cattolica, è stato sconvolto dalla furia genocidaria del 1994, quanti si opposero in nome della loro fede? Alcuni lo hanno fatto, dimostrando eroismo civile e santità cristiana, ma sono stati una piccola percentuale. Hanno salvato vite umane, anche sacrificando la propria e dimostrando adesione totale al Vangelo, ma non furono in numero sufficente a creare un ostacolo capace di fermare l’onda del genocidio.
Alcuni giustificano il caso del Ruanda dicendo che il cristianesimo non aveva ancora messo radici profonde. Ma allora come giustificare ciò che è accaduto in Europa, dove il cristianesimo era stato presente per almeno duemila anni? Era un segno del declino del cristianesimo europeo? Il minimo che possiamo dire è che, in entrambi i casi, i numeri non sono stati un buon indicatore della maturità e della forza di quella Chiesa particolare di resistere al male.
E’ evidente che parlare di “maturità” di una Chiesa, basandosi sulla forza dei numeri o sul tempo in cui la chiesa è stata presente su un territorio non ha molto significato. Come si valuta la maturità? Spesso, una Chiesa “giovane” genera persone che sono pronte a morire per mostrare la loro fedeltà a Cristo. Abbiamo l’esempio dei Martiri d’Uganda, e molti altri. Giustamente alcuni africani non accettano che le loro chiese siano denominate “giovani” perché può dare l’idea di immaturità e di dipendenza. Oppure lo stesso aggettivo, anche se inteso in senso positivo di vitalità e di forza, può diventare un vuoto luogo comune, che si riferisce solo a danze e ululati tollerati durante le cerimonie liturgiche come si tollerano gli schiamazzi degli adolescenti.
Di recente ho sentito un missionario paragonare i leader cristiani africani a un neo-patentato che incomincia a guidare l’automobile: si concentra più sulla gestione dei comandi – come cambiare marcia, come controllare l’auto in curva, quanta forza usare premendo sui freni – che a scegliera la strada e arrivare alla meta. Con questo paragone, il vecchio missionario voleva bonariamente giustificare la mancanza di programmazione pastorale e di visione del suo vescovo africano. Ma alcuni amici africani presenti erano piuttosto infastiditi dal paragone!
Accesi dibattiti sorgono anche quando si vuol valutare se l’importanza numerica della Chiesa africana sia adeguatamente rappresentata agli alti livello della gerarchia cattolica. Prima dell’ultimo concistoro, tenutosi il 18 febbraio 2012, un sito web africano, ha pubblicato un commento molto amaro sulla mancanza di africani fra le nuove nomine. Sicuramente, a parere di chi scriveva, non vi è carenza di africani che meritano la berretta cardinalizia. L’autore esprimeva anche il suo disappunto per il fatto che, sempre secondo lui, nell’ultimo conclave il cardinale africano Francis Arinze non sarebbe stato eletto papa, come tutti si aspettavano, solo per ragioni di pregiusdizi anti-africani… Il chiaro sottinteso era: “Ci meritiamo posizioni importanti a Roma, perché siamo in molti! Ora è il nostro turno! “. Aspettative sbagliate? Troppa fiducia nella forza dei numeri? Non sono stati nominati cardinali africani perché i posti disponibili erano pochi o perché l’episcopato africano non ha molti leaders di grande livello? Tutte queste domande sono inutili. Se pensiamo che avere un papa africano sia un diritto di riparazione alle discriminazioni subite in passato, o guardiamo con orgoglio al numero dei cardinali africani che lavorano in Vaticano e pensiamo che il loro numero dovrebbe aumentare, entriamo in una logica di potere che certamente non è quella del Vangelo e che non aiuta la chiesa a spogliarsi della metalità eurocentrica. Continuiamo a ragionare con paramentri sbagliati.

Costruire un’identità africana

In “La Terza Chiesa alle Porte, un’analisi del presente e del futuro ecclesiale”, pubblicato nel 1976, Walter Bühlmann, un cappuccino svizzero che ha insegnato a Roma negli anni effervescenti dopo il Concilio Vaticano II, metteva insieme le sue riflessioni sulla crescente importanza di quella che allora era ancora popolarmente chiamata “Chiesa missionaria.” Per la prima volta, un eminente studioso occidentale (gli africani avevano già cominciato venti anni prima) sistematizzava in un quadro teologico, le nuove tendenze e le aspirazioni che già emergevano dal “Terzo Mondo” e in particolare dall’Africa, e acutamente inventò il termine “Terza Chiesa”. “Terzo Mondo” era già in uso comune e non aveva la connotazione negativa che prese più tardi, e certamente Bühlmann usò “terza chiesa” in modo positivo. Il suo era un testo pieno di speranza, con le braccia tese verso la terza chiesa, e pronto ad accettare i cambiamenti che le comunità cristiane emergenti avrebbero potuto portare alla Chiesa universale.
Bühlmann aveva ragione: il suo approccio è ancora valido. I numeri non dovrebbe essere visti come potere, ma la Chiesa africana deve vederli come un segno della sua responsabilità a scoprire e svolgere la sua chiamata all’interno della Chiesa universale, e per rafforzare la sua determinazione a seguire il Vangelo di Gesù. Per tutta la Chiesa cattolica, il crescente numero di cristiani africani è una fonte di gioia e un incentivo a far loro spazio nell’assemblea, in uno spirito di fratellanza e nel riconoscimento delle diverse lingue e culture che possono esprimere la fede comune. La Chiesa africana ha il suo giusto posto nella Chiesa universale, non per la forza dei numeri, ma in forza della sua fedeltà a Cristo, in forza dei doni che porta nella comunione universale. Lo Spirito di Dio crea sempre cose nuove in mezzo a noi, e dobbiamo aprirci a Lui.
La Chiesa africana deve fare un bilancio dei suoi successi – soprattutto di quelli recenti, avvenuti dopo gli anni delle indipendenze, con alla guida dei Pastori africani – e andare avanti, costruendo la propria identità. L’inculturazione, la giustizia sociale, la partecipazione dei laici nella vita della Chiesa, sono solo alcune delle linee di identità che sono emerse durante i due Sinodi africani, nel 1994 e nel 2009. Sono questi i doni che la Chiesa africana può portare alla comunità cattolica in tutto il mondo.
I numeri non sono la cosa più importante. Gesù parlava di sale, di lievito, di piccolo gregge. “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”. (Lc 12,32). Nella chiesa l’unico titolo di merito dovrebbe essere la fedeltà al Vangelo.

Pace su Roma

Ho ricevuto questa lettera da Michele, un cristiano di Cremona, ed la metto sul blog perché la condivido nella sostanza, magari non in tutti i dettagli, anche perchè non li conosco.

Sono anche sicuro che Michele, come me, ha grande rispetto per il soldato morto facendo il suo dovere.

La critica è tutta e solo per chi dice bugie quando ci spiega perché i soldati italiani sono in Afganistan nonostante che l’Italia “ripudia la guerra”, e per chi non condanna la guerra, condannata da tutti i papi recenti, e non ci ricorda che l’ideale cristiano è “Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio.”

Michele rappresenta i tanti che stanno riscoprendo le esigenze del Vangelo e non capiscono più i compromessi della Chiesa con il potere politico.

Carissimo Don Enrico, Vescovo di Cremona,, Padre Alberto Vicario Generale dei Comboniani, Padre Guglielmo dei Saveriani, Padre Kizito,

sono veramente a pezzi. Ho ascoltato la predica di Monsignor Pelvi, Ordinario Militare, riguardo alla celebrazione liturgica per il funerale di Michele Silvestri, l’ennesimo soldato morto in Afganistan. Sto male nel vedere la Basilica di Santa Maria degli Angeli a Roma piena dell’esercito italiano che armato è in guerra in un altro paese. Sto male nel vedere un Vescovo della Chiesa prostrarsi a quel modo davanti ai potenti italiani, responsabili della morte di quel ragazzo. Non posso accettare le parole del Vescovo, venduto e pagato dall’esercito Italiano, che porta addirittura le stelle da generale sull’abito da Prete.

Non posso accettare le sue parole di vocazione cristiana per un soldato armato all’estero in una guerra piena di bugie, una guerra chiamata di pace, per controllare politicamente e militarmente i paesi che producono petrolio. Non posso accettare che un Vescovo possa paragonare le parole di Maria “Eccomi!” dette all’Angelo Gabriele, alle parole “Eccomi” di un soldato italiano che va a morire in una guerra. E’ una menzogna, è usare la Chiesa e le parole del Vangelo per prendere in giro i cristiani e vendere la parola di Dio a chi usa la propaganda e la ritualità per difendere i ricchi e i loro interessi, a scapito della vita di povera gente, sempre più meridionale che non trova altro modo per avere un lavoro. Sono disgustato dal vostro silenzio: siete preti!

Siete complici di tutto questo, perché voi che siete Apostoli, e Presbiteri, voi potete dire di no! Potete disobbedire a questo scempio della Casa di Dio e della Parola di Gesù: questa colpa è gravissima! Vi prego, mostrate una Chiesa che è viva, dovete reagire, non potete restare in silenzio. Addirittura Angelo Bagnasco che diceva le stesse menzogne durante la guerra in Iraq, mentre i soldati italiani armati difendevano i pozzi dell’Agip a Nassirya, e gli americani, i loro alleati, usavano armi al fosforo bianco sui civili, quel Vescovo che portava le stelle da generale sul suo abito, adesso è Presidente della CEI.

Per carità, vi prego, non possiamo tacere e accettare questa propaganda, la Chiesa non può diventare la cassa di risonanza di questa logica militarista che giustifica nel nome di Gesù ogni azione anche la più barbara!

Anche l’Angelo di cui porto il nome è stato nei secoli dipinto come un soldato, con tanto di spada o di lancia, ma se non capiamo noi che la guerra non può essere cristiana, cosa resta del Cristo morto innocente su una croce? Se poi alla fine giustifichiamo come vocazione cristiana l’andare in guerra, come se fosse una missione di Pace, cosa resta del Vangelo? Per tutta la celebrazione dalla televisione i commentatori ripetevano che era in missione di pace, ma quale pace?

Io non posso fare niente se non scrivervi la mia sofferenza, ma voi, che siete Preti e Vescovi e vivete il Ministero che vi pone così vicino all’Eucarestia, voi, per favore, datemi un po’ di speranza, reagite, disobbedite, protestate, richiamate la Chiesa alla sua missione!

Vi prego,

Michele La Rosa

Pace su Jerusalemme – Peace upon Jerusalem

Ultimo giorno a Betlemme. Quasi due mesi di pace che mi hanno permesso di pregare, ripensare, rifocalizzare tante cose nella mia vita. Ho anche capito un po’ meglio, vivendo in comunità con palestinesi, siriani, libanesi, i problemi di questa Terra Santa che rischia di essere presto teatro di una nuova guerra.

L’ipocrisia, le doppiezze, le ingiustizie che la “comunità internazionale” ha creato in questa terra non hanno pari. Certo, nel mondo ce ne sono anche più brutali, e il razzismo purtroppo è in recrudescenza ovunque, qui però è ufficiale, sancito dalla legge. Mentre negli ultimi decenni abbiamo visto la discriminazione razziale diventare illegale negli Stati Uniti d’America e in Sudafrica, qui lo si pratica ancora in nome di Dio, di quel Dio che è “sempre presente in questo luogo”, come dice un cartello accanto al Muro del Pianto, a Gerusalemme.

I cristiani palestinesi si sentono minacciati, presi fra il fuoco dell’apartheid israeliano e la violenza degli estremisti islamici, e se ne vanno appena ne hanno l’occasione. Comunità con tradizioni millenarie si sfaldano. Nazareth e Betlemme che trent’anni fa erano cittadine cristiane, oggi sono a maggioranza musulmana.

Tutta l’area vive sotto l’incubo di un imminente scontro nucleare fra Israele e Iran. O, come viene subito semplificato negli scambi di opinioni per la strada, fra Stati Uniti e l’Islam. Le guerre che perdurano da un decennio in Afganistan e Iraq, e che erano state iniziate con la promessa che si sarebbero risolte in pochi mesi, hanno aggravato la tensione fra Israele e il mondo arabo. Oggi si parla di un imminente guerra preventiva di Israele contro i siti nucleari Iraniani. Tutti lo sanno, ci sono articoli su tutti i giornali del mondo, pur non ancora in prima pagina. Quando la guerra scoppierà dovrà sembrare un fatto ineluttabile. Si fanno già i calcoli del tipo di bombe che si useranno e di quante, di quanti morti ci saranno. Si dice che sarà una guerra che definirà le future alleanze, come i potenti si spartiranno il mondo. Gli esperti la danno inevitabile entro la fine di quest’ anno. Le domande che i grandi strateghi si pongono si possono riassumere in poche righe: E’ più pericoloso lasciare che l’Iran fabbrichi la sua bomba atomica o cercare di impedirglielo attaccandone le installazioni nucleari? Stati Uniti e Israele possono vincere contro l’Iran? In termini geopolitici possono guadagnare più di quello che rischiano di perdere, per molto che sia? Sarà Obama, prematuro un premio Nobel per la Pace, a dichiarare giusta una guerra solo perché ha la forza militare necessaria per imporre i suoi interessi, perché solo i suoi interessi sono giusti? O è tutto un bluff?

Mi dice un conoscente italiano incontrato per caso qualche giorno fa in un vicolo di Gerusalemme, “ragionava cosi anche Gesù, non ricordi? Quale re, andando in guerra contro un altro re, non siede prima a calcolare se con diecimila soldati può affrontare il nemico che avanza con ventimila? Se vede che non è possibile, mentre il nemico è ancora lontano, gli manda messaggeri a chiedere quali sono le condizioni per la pace”.
No, Gesù usava la parabola della guerra per dimostrare che le vie della pace sono ancora più impegnative. Immediatamente prima e immediatamente dopo, quei versi, dice “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle ed anche la propria vita, non può essere mio discepolo. Chi non porta la propria croce e non viene dietro di me, non può essere mio discepolo. Così, dunque, chiunque di voi non rinuncia a tutti i propri beni, non può essere mio discepolo”. Sta parlando esattamente dell’opposto, della guerra contro se stessi, il proprio egoismo, il desiderio di potere e di dominazione sugli altri. Sta attento, sta dicendo all’ascoltatore, calcola bene le tue forze, perché seguirmi sulla strada della pace è difficile, molto più difficile che non fare la guerra.

Invece il criterio fondamentale di questa nuova guerra annunciata è calcolare il momento che dà la certezza di poter annientare l’avversario. La due parti sanno bene che non sono i vinti a scrivere la storia e a istituire i processi per crimini contro l’umanità. Quando hai vinto, hai ragione. Guai ai vinti! L’importante è vincere, usa tutti i mezzi che vuoi. Che arma usò Caino per uccidere il fratello? Oggi, a parte le armi, non abbiamo fatto molti progressi sulla strada dell’umanizzazione.

Stamattina ho fatto una visita alla grotta della Natività, poi sono andato a Gerusalemme, per un’ultima preghiera vicino al Santo Sepolcro. II due estremi della vita che Gesù ha vissuto con un corpo come il nostro. Perfino le pietre in questi luoghi gridano “basta con le guerre”. Con la guerra perdono tutti, con la pace vincono tutti. La guerra non elimina le ingiustizie e le sofferenze, ne crea altre. Ingiustizia, oppressione, odio vanno superate con l’incontro, il dialogo, il rispetto della reciproca umanità. Anche i teologi di tutte le fedi, sempre tentati dal fondamentalismo, cominciano a capire che non non ha senso di parlare di guerra giusta. Guerra e giustizia oggi sono antitetiche, perché le armi sono diventate ancora più ingiuste – si, perché se si poteva pensare che una spada potesse essere usata per ristabilire la giustizia, una bomba atomica non potrà mai essere usata per fare giustizia – e anche perché sta crescendo una coscienza, una consapevolezza più alta. La pace è umana, la guerra non lo può più essere.

E’ stato un periodo prezioso. Il tempo per la riflessione e la preghiera serve per ricaricarsi e ripartire. Anche se certi luoghi – come il Monte delle Beatitudini – ti fanno pensare che sarebbe bello restarci, ho poi sempre sentita imperiosa la voce interiore che mi intimava di andare a cercare il Risorto altrove, insieme alla persone con le quali ho camminato in questi anni.

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Don Andrea Santoro, era giovane prete della Parrocchia della Trasfigurazione a Roma, durante i primi anni settanta, quando alcuni giovani della parrocchia frequentavano la redazione di Nigrizia. Don Andrea fu ucciso in Turchia, da un esaltato, mentre pregava con la Bibbia fra le mani il 5 febbraio 2006, aveva pochi mesi prima scritto un bel testo sul tema “Silenzio e deserto” da cui estraggo qualche passo.

Silenzio e deserto: due termini che sia nell’Ebraismo, sia nel Cristianesimo che nell’Islam sono non soltanto simbolo ma realtà vissuta. Israele è nato nel deserto: quello “interiore” di Abramo che tutto lascia per entrare nella solitudine di Dio, quello “fisico” di Mosè che proprio nell’assenza di tutto scopre “Colui che è” e conduce davanti a Lui il suo popolo. Il Cristianesimo di Gesù è nato nel silenzio di una notte, nel silenzio di alcuni anni in Egitto, nel silenzio di molti anni trascorsi in un villaggio sconosciuto, nella solitudine di 40 giorni nel deserto a tu per tu con Dio e faccia a faccia con Satana. L’Islam è figlio dei deserti sconfinati dell’Arabia e delle notti silenziose trascorse da Mohammed sul monte Hira.

Ebraismo, Cristianesimo e Islam sono concordi nel dire che Dio si “ri-vela” solo quando l’uomo “vela” ogni altra immagine o parola. La paura e l’angoscia terribile che derivano da questa solitudine sono seguite subito dopo da una luce e da una gioia immensa. E’ solo dal silenzio e dal deserto che nasce un uomo nuovo, capace cioè di stare in mezzo agli uomini, di annunciare una parola e indicare una direzione.

Silenzio e deserto significano “ascolto” e l’ascolto di Dio è l’inizio dell’incontro con Dio e della preghiera. “Ascolta Israele” è il ritornello più ripetuto nell’Antico Testamento. “Chi ha orecchi per intendere intenda”, dice spesso Gesù a conclusione delle sue parabole e in un altro luogo dice che “suo fratello, sorella, madre” è chi “ascolta” la parola di Dio e la mette in pratica. A Mohammed, secondo il Corano, lo “Spirito fedele (cioè Gabriele) pone nel cuore la parola di Dio” perché poi “ammonisca gli uomini”.

Ma come è possibile che dalle profondità del silenzio e dei deserti sconfinati di queste tre religioni sia nato così spesso il rumore assordante della guerra, il clamore dell’odio, del disprezzo e dell’intolleranza, i deliri di grandezza, di onnipotenza e di distruzione dell’altro?

Dio ha parlato ma l’uomo si è “impadronito” della Parola di Dio e si è fatto onnisciente ai propri occhi. Dio ha manifestato le sue vie ma l’uomo si è “appropriato” dell’agire di Dio e si è reso onnipotente. In nome di Dio giudica, emette sentenze e le esegue. Occorre spingere più lontano quella logica di “silenzio e deserto” da cui le tre religioni hanno avuto origine. Se è davvero Dio che parla, l’uomo non può sopraffare la Sua voce urlando agli altri uomini. Se è Dio che agisce l’uomo non può strafare sostituendosi a Lui. Se è davvero Dio l’arbitro dei popoli e il detentore della vita l’uomo non può asservire gli altri popoli o distribuire a suo piacimento vita e morte. Se è Dio che di sua iniziativa si rivela e chiama, l’uomo non può forzare il cuore, la coscienza, l’anima di un altro uomo.

La logica del silenzio e del deserto è l’umiltà, il camminare lento, l’attesa di Dio e il rispetto del suo mistero, il lasciare che sia Dio a toccare il cuore di ogni uomo, il rispondere ai propri richiami di grazia senza imporre la propria grazia agli altri. “In principio è Dio”, così è scritto all’origine delle tre religioni nell’esperienza di silenzio e di deserto da cui sono nate. In principio non può esserci l’assoluto di un uomo. Non c’è peggior Dio di un uomo che voglia farsi Dio.

Silenzio e deserto parlano di spogliamento, di povertà di spirito, di essenzialità, di interiorità, di apparizione di Dio in tutto il suo fascino, di gioia intima che viene dall’abbraccio di Dio ma che si propaga per irradiazione, non per violenza.

A Witness – Un Testimone

Ieri sera Jean Vanier era a Betlemme, dove due anni fa il movimento mondiale da lui fondato – L’Arche – ha avviato una comunità per persone disabili. Parlava in un posto nemmeno a 50 metri da dal collegio dei Salesiani che mi hanno dato ospitalità, non potevo mancare. Dall’inizio di Koinonia, in Zambia, oltre trent’anni fa, abbiamo usato il suo libro “Community and Growth” (pubblicato in italiano con il bel titolo “Comunità, Luogo del Perdono e della Festa”) per capire cosa significa concretamente vivere in una comunità, la non-violenza, l’accettazione degli altri.

Vanier adesso ha 83 anni, e la forte corporatura di questo ex ufficiale della Marina canadese si è un po piegata, e parla seduto su una sedia in mezzo al palco. Ma il messaggio è espresso con grande forza, toccando il cuore di tutti i presenti. Quando si ritirò dalla Marina, dopo la seconda guerra mondiale, ottenne un dottorato in filosofia e insegnò questa materia per alcuni anni in una università canadese. Quando accettò la sfida di vivere in comunità con alcune persone disabili la sua vita cambiò, iniziando un cammino personale per diventare umano, o “Becoming Human”, come scrisse nel libro con questo titolo – pubblicato in italiano con il meno felice titolo “Abbracciamo la nostra Umanità”.

Ieri ha parlato sul tema “Essere umani vuol dire essere fragili”. Ho messo giù qualche nota di quello che ha detto: “Il potere e la forza dividono le persone, mentre la debolezza e la necessità di aiuto creano comunione. Quando si è deboli, si ha bisogno degli altri. Quando si è forti, non si ha bisogno di nessuno. Si può fare tutto da soli. La persona debole ha bisogno di stare con gli altri, e questo grido di aiuto, risveglia negli altri, i forti, gli aspetti più belli della persona umana – la compassione, la bontà, l’apertura agli altri … La nostra debolezza unisce le persone “.

Pensieri abbastanza semplici, che potrebbero essere banali in una omelia pronunciata da un povero prete che non ha avuto il tempo di prepararsi, ma certamente non sono banali quando li si sente da questo laico che parla per esperienza, che ha vissuto una vita ricca e appagante al servizio dei deboli e poveri. Vanier è un testimone del Vangelo, e ascoltandolo si può capire perché tanti hanno avuto fiducia in lui e hanno seguito la sua esperienza. Ora L’ Arche ha oltre 130 comunità sparse in tutto il mondo, o stranamente solo due in Africa, in Zimbabwe e Uganda. Perché non in Kenya? Da ieri penso che farò il poco che posso per facilitare la presenza de L’Arche a Nairobi.

Questa mattina ho capito cosa significa essere debole. Mi sono svegliato molto prima dell’alba con un mal di schiena che diventava sempre più forte, fino a che ogni minimo movimento era impossibile. Ho avuto bisogno dell’aiuto di due Buon Samaritani, del tipo Salesiano, per essere vestirmi, arrivare alla loro auto, ed essere portato a una piccola clinica gestita da un medico palestinese, che mi ha visitato, dato dei farmaci, fatto quaranta minuti di fisioterapia e massaggi, e mi ha rimesso in forma. Alle parole di Vanier è seguita la lezione pratica!

Ecco alcune citazioni da Jean Vanier “Community and Growth”.

“I poveri sono sempre profetici. Come veri profeti sempre sottolineano, rivelano il disegno di Dio. Ecco perché dobbiamo prendere il tempo di ascoltarli. E questo significa stare vicino a loro, perché parlano raramente, e con il silenzio. Hanno paura di parlare, non hanno di fiducia in se stessi perché sono stati spezzati e oppressi. Ma se li ascoltiamo, ci riportano a ciò che è fondamentale.”

“La solitudine vuol dire sentirsi indesiderati e non amati. La solitudine ha il gusto della morte. Non c’è da meravigliarsi se le persone che sono disperatamente sole sono preda della malattia mentale o della violenza, per tentare di dimenticare il dolore interiore “.

“Quando i bambini sono amati, vivono circondati di fiducia, la loro vita e il loro cuore si aprono a coloro che li rispettano e li amano, che li capiscono e li ascoltano.”

“Una comunità è vera e viva solo quando i suoi membri accettano che non saranno capaci di realizzare grandi cose, che non saranno eroi, ma semplicemente vorranno vivere ogni giorno con nuove speranze, come i bambini, con stupore, come sorge il sole e in ringraziamento dal tramonto all’alba. La comunità si crea solo quando i membri riconoscono che la grandezza dell’uomo è quello di accettare la sua insignificanza, la sua condizione umana e questo mondo, e ringraziano Dio per aver messo in un corpo finito i semi di eternità, che diventano visibili nei piccoli quotidiani gesti di amore e di perdono “.

“Dobbiamo ricordarci sempre che non siamo i salvatori. Siamo semplicemente un piccolo segno, tra migliaia di altri, che l’amore è possibile, che il mondo non è condannato al ripetersi di una lotta tra oppressori e oppressi, che la guerra di classe e di popoli non è inevitabile. “

Immagino Jean Vanier offrire quest’ultima frase con lo stesso tono del suo discorso di ieri, cosi pacato che anche se l’ascoltatore si identificasse più con il cane che non con il padrone, non potrebbe sentirsi offeso…

“… Il progresso materiale individualista e il desiderio di guadagnare prestigio imponendosi sopra tutti gli altri sono diventati più importanti che non l’amicizia, la compassione e la comunione con gli altri. Ora le persone vivono più o meno isolate nella loro casa, proteggendo gelosamente le loro proprietà, sempre occupate a acquisirne altre, con una scritta sul cancello che dice ‘Attenti al Cane”.

Costruire Giustizia in un’Africa che Cambia – Building Justice in a Changing Africa

L’Africa è il luogo per eccellenza delle grandi crisi. O almeno tale è nella mente di molti occidentali. Parlando di Africa sembra inevitabile evocare l’interpretazione popolare dei cavalieri dell’Apocalisse: Pestilenza, Guerra, Carestia e Morte. Poi la litania di negatività continua inesorabile man mano che l’analisi si fa più specifica: sottosviluppo, corruzione, violazione dei diritti umani, malaria e AIDS, disastri ecologici, land grabbing, sfruttamento delle donne e dei bambini, traffico di esseri umani, bambini soldato, bambini stregoni, bambini di strada, e, è proprio il caso di dirlo, chi più ne ha più ne metta.

La maggioranza degli interventi proposti, anche con le migliori intenzioni, parte dal presupposto che l’Africa non può farcela da sola, ha bisogno di noi, anche semplicemente per sopravvivere anche ai livelli più bassi.
In questi giorni un video postato in internet ha attirato l’attenzione del mondo. Si propone di fermare Joseph Kony, il leader delle Lord Resistance Army, un gruppo ribelle senza causa nato un Uganda ormai oltre vent’anni fa. Intitolato Kony2012, per gli aspetti comunicativi è innovativo ed esemplare, ma invoca l’intervento militare statunitense per fermare Kony. Ancora una volta sembra che la salvezza per l’Africa possa venire solo dall’esterno.

Da decenni nel mondo missionario ci si è posti la domanda se sia etico usare immagini negative sull’Africa per raccogliere fondi (o per invocare interventi), e la maggioranza dei missionari oggi rifiuta questa strategia, anche se c’è occasionalmente qualche eccezione. Ma tante organizzazioni di aiuto, anche di rilevanza internazionale, ancora usano questi metodi.
La controprova? Quando ho aperto il computer stamattina ho visitato il sito di un quotidiano italiano. Da parecchie settimane avevo notato fra i link un’icona con il volto di un bimbo africano che chiede di essere adottato a distanza. Stamattina ho cliccato l’icona e mi è apparso questo testo, firmato da una grande agenzia umanitaria.
Nel 2011 il Corno d’Africa è stato colpito da una terribile siccità, la peggiore degli ultimi 60 anni. Siamo nel 2012, ma migliaia di bambini continuano a morire di fame e di sete ogni giorno. L’area orientale è solo una tra le più problematiche dell’Africa. L’intero continente è costantemente afflitto da guerre, carestie, malattie e povertà estrema. I bambini rimangono la parte della popolazione che soffre di più, sempre. Assieme, possiamo cambiare il loro destino.
E’ una semplificazione estrema che esacerba gli aspetti negativi dell’Africa. Eppure è solo un esempio, e non quello che usa le immagini e le parole più forti, dei tanti appelli umanitari che magari con l’intento positivo di muoverci a una maggiore solidarietà, finiscono per rafforzare l’immagina di un’Africa in via di fallimento, dove l’Apocalisse è già iniziata.

Ma in Africa – sorpresa! – c’è anche un’accelerazione delle sviluppo economico. Mentre l’occidente è in crisi, e Cina e India danno segni preoccupanti di stanchezza, le economie dei maggiori paesi africani continuano a crescere al passo del 6 o 7 per cento annuo. Tramontata l’era delle tigri asiatiche si annuncia l’era dei leoni africani.

Secondo l’FMI il Ghana nel 2012 crescerà del 13,5 per cento, il Niger del 12,5, l’Angola del 10.5. Un buon numero di altri paesi, tra di essi il Kenya, si attesteranno intorno al 7 per cento di crescita annua. Senza considerare la Sierra Leone per la quale ci si aspetta un balzo di oltre il 51 per cento! Mediamente la crescita economica del continente sarà intorno al 6 per cento. Emblematico il caso dell’Angola, che sta trattando col Portogallo, tendendo una mano per soccorrere l’ex-potenza coloniale.Il settimanale inglese Economist, un’autorità nel suo campo, lo scorso dicembre ha dedicato un intero numero alla crescita economica africana e all’ancora più alto potenziale per il prossimo futuro

Come si conciliano queste due visioni cosi contrastanti? I luoghi comuni, i pregiudizi, sono duri a morire, ma ciò non può essere sufficiente a spiegare un tale divario tra percezione e realtà.
Forse la spiegazione più semplice e più vera è che entrambe le immagini dell’Africa, quella di un contenitore di problemi immani o di potenziale leone economico, sono vere. In Africa sta avvenendo velocità accelerata ciò che avviene in tutto il mondo e che Paolo VI denunciava già quasi 40 anni fa “i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”.

Secondo i calcoli del gruppo finanziario Credit Suisse la metà più povera della popolazione adulta globale è proprietaria solo dell’1% della ricchezza globale. Un totale di 3.051 milioni di adulti, pari al 67,6% della popolazione adulta globale, possiede appena il 3,3% della ricchezza. Al contrario, il 10% più ricco dispone dell’84% della ricchezza globale, l’1% più ricco possiede il 44% e lo 0,5% più ricco il 38,5%.
La crisi economica ha solo esaltato questa tendenza alla concentrazione di elevate proporzioni della ricchezza nelle mani di una piccola minoranza. Le imprese Capgemini e Merrill Lynch Wealth Management hanno pubblicato nel 2010 un rapporto sulla situazione dei ricchi del mondo, dove si legge che il numero totale di individui con redditi elevati nel mondo è cresciuto di un 17.1% nel 2009, malgrado vi sia stata una contrazione globale dell’economia di un 2%. La ricchezza totale di questi individui si è incrementata del 18.9%.

A Nairobi la coesistenza di due economie parallele è sempre più visibile, almeno per chi ha ancora gli occhi per vedere. Opulenza, sviluppo tecnologico, mass media sofisticati sono accessibili al 20 per cento della popolazione, mentre un altro 60 per cento vive in situazione di gravissimo degrado. Il 20 per cento che vive nell’area intermedia si assottiglia sempre più, man mano che chi vi appartiene riesce salire al livello superiore o viene riassorbito dalla povertà. La stessa situazione si ripropone a livello nazionale: la siccità che lo scorso anno ha provocato carestia e morte nel nord-est del paese è stata vissuta a Nairobi da una consistente parte delle popolazione non per quello che era – cioè un problema nazionale di ridistribuzione delle risorse e di giustizia – ma come un evento mediatico, che ha dato occasione alle grandi compagnie di sfoggiare i loro programmi di “corporate responsibility”.

Allora, cosa dobbiamo fare? Rifiutiamo di aiutare chi potrebbe essere aiutato dai suoi connazionali? Chiudiamo l’epoca degli aiuti per aprire quella degli scambi commerciali? Lasciamo che siano le multinazionali a lavorare per la giustizia con i loro programmi di responsabilità sociale? Ci arrendiamo a che il nostro livello di progresso sia stabilito dell’indice di crescita economica? Accettiamo che i nuovi equilibri mondiali vengano stabiliti da chi ha più armi ed è più prepotente? Meglio ancora, ci garantiamo di essere nel gruppo dei ricchi, lasciando perdere i poveri? Che imparino ad arrangiarsi da soli se non sono capaci di competere nella scalata sociale!
Nella tradizione sociale cristiana esistono principi che si chiamano bene comune, responsabilità, giustizia e solidarietà, tanto per citarne alcuni. Sono principi che per loro dinamica chiedono di essere applicati su scala globale.
Negli ultimi anni invece abbiamo visto che con la globalizzazione e i nuovi mezzi di comunicazione aumenta e diventa sempre più visibile l’interdipendenza, ma non sembrano aumentare ne il senso di responsabilità globale, ne la solidarietà ne la giustizia.
Il piccolo contributo, in Africa come in Europa, che noi possiamo offrire è la pratica e l’insegnamento della giustizia e della solidarietà. Senza stancarci, senza imporci, senza violenze di nessun tipo. Con perseveranza e rispetto. Adagio adagio scopriremo insieme nuove vie per imparare ad essere una sola umanità.

Nairobi. Dawn

Crisi di Identità!

Una persona ignota ha creato un profilo in facebook usando il mio nome, i miei dati, le mie foto e disegni. Praticamente ha clonato il mio sito. Da questa base scrive e chatta chiedendo soldi per emergenze ovviamente inventate. Non rispondete, non mandate soldi.
Non ho mai usato e non intendo usare in futuro ne facebook, ne la posta elettronica, ne questo blog per chiedere soldi e dare istruzione su dove mandarli. Quelli che abitualmente sostengono i bambini di strada e le diverse attività sociali di Koinonia in Kenya, Sudan e Zambia conoscono bene i canali da seguire.
Per chi volesse contattarmi è meglio usare la posta elettronica, e il contatto è padrekizito@gmail.com
Per ulteriori istruzioni si come comportarsi se contattati dal falso profilo, leggete il seguente testo preparato per me da una persona amica ed esperta di facebook, che ho già postato anche sul mio vero profilo

UTILI INFORMAZIONI AGLI AMICI di RENATO KIZITO SESANA (e amici di questo profilo)
e fino a quando il FALSO profilo (aperto da sconosciuti senza nessuna mia autorizzazione eo con utilizzo improprio delle mie informazioni) non sarà bloccato da fb…
1. Prima di accettare un’amicizia da un profilo con nome “Renato Kizito Sesana” assicuratevi e cercate di ricordarvi se già avete avuto il contatto di amicizia con il profilo autentico. Se avete accettato o avuto il contatto prima di circa 2 giorni fa, allora il nuovo o più recente risale sicuramente alla falsa identità
2. Se non si riesce a ricordare il punto 1. Un altro controllo da fare prima di accettare l’amicizia del FALSO profilo è fare: clic col tasto destro proprio sul link del nome che richiede l’amicizia | Scegliere quindi “Apri in un’altra finestra”
L’identità FALSA viaggia infatti con link fb =
http://www.facebook.com/profile.php?id=100003514346987
L’idemtità VERA ha un link fb =
http://www.facebook.com/profile.php?id=100000889433187
3. Fino a questo momento il FALSO profilo (rispetto al VERO) non ha l’aggiornamento dell’interfaccia a DIARIO, ma usa ancora quella vecchia ad elenco
4. Gli amici del FALSO profilo anche se apparentemente fermi nelle ultime due ore sono in lenta crescita… in questo momento sono 117…

Un sistema per fare in modo che ognuno avverta eventuali propri amici è vedere i propri amici in comune al profilo falso (sono propri amici che eventualmente già hanno creduto alla richiesta e già accettato!)
Un sistema più efficace potrebbe essere anche quello di mandare un msg di alert agli amici del FALSO profilo. Occorre però ricordare che fb dopo un po’ bloccherebbe il vostro profilo per spam, quindi per ora l’unica possibilità è Segnalare/Bloccare in tanti…
Per chi volesse intraprendere l’azione di invio msg agli amici già “caduti nel tranello” occorrerebbe dividersi cmq il compito magari per lettera alfabetica… chi si prende tutti quelli che iniziano con A, con B, eccc… dovrebbe esserci quindi l’azione concordata di almeno 21 persone.

5. Per le FAQ sul Centro Assistenza il link è | http://www.facebook.com/help

Bambini e Cacciabombardieri – Of Children and Fighter Jets

Nairobi. Bambini di strada preparano la cena, in un'aiuola fra Kibera e il traffico della Ngong Road. Street children cook supper, in a strip of land between Kibera and Ngong Road.

Pochi giorni fa L’UNICEF ha presentato in contemporanea in tutto il mondo il suo ultimo rapporto annuale, intitolato “La condizione dell’infanzia nel mondo 2012: Figli delle città”, che esamina la condizione dei bambini e ragazzi che vivono negli ambienti urbani. Nella presentazione del rapporto il direttore generale Anthony Lake, scrive “Quando pensiamo alla povertà, le immagini che tradizionalmente ci vengono in mente sono quelle dei bambini nei villaggi rurali. Oggi, sempre più bambini vivono nelle baraccopoli e sono tra i più svantaggiati e vulnerabili al mondo, privati della maggior parte dei servizi di base e del diritto di crescere bene. Escludendo questi bambini che vivono negli slum non solo li priviamo della possibilità di sviluppare il proprio potenziale, ma priviamo anche le loro società di benefici economici che derivano da una popolazione urbana in buona salute e ben istruita”.
E’ una dichiarazione fredda, asettica, di fronte alla realtà sconvolgente che emerge dal rapporto. Leggendolo, al di là dei numeri si percepisce la sofferenza di milioni di bambini, il loro pianto e la loro richiesta di aiuto. Dati che dovrebbero impegnarci a un cambiamento radicale.
Riassumo solo alcuni dei dati. I bambini e i ragazzi – di entrambi i sessi – che vivono oggi in ambiente urbano sono più di un miliardo. Entro il 2020 saranno quasi un miliardo e mezzo, e almeno mezzo miliardo vivranno nei cosiddetti “insediamenti non ufficiali”, cioè baraccopoli o slum.
Le città sono oggi il luogo di ocncentrazione delle ingiustizie e disparità sociali, tra le cui vittime, i bambini sono i soggetti più vulnerabili. Disparità nell’accesso ai servizi igienico-sanitari, all’istruzione, al diritto alla proprietà, alla protezione e a un ambiente sano, sono in crescita, non in diminuzione. Un terzo di tutti i bambini delle aree urbane non esiste: non sono stati registrati alla nascita, una percentuale che, in Africa sub-sahariana arriva a toccare il 50%. Ci sono nel mondo 215 milioni di “lavoratori” di età compresa tra i 5 e i 17 anni. Tra questi, 115 milioni fanno lavori pericolosi. Nelle aree urbane periferiche e degradate le famiglie non sono in grado di sostenere i costi per l’istruzione dei propri figli e scelgono così di farli lavorare. Nel 2010, quasi 8 milioni di bambini sono morti prima di aver raggiunto i cinque anni di età, la maggioranza di loro nati in insediamenti informali. Il più alto tasso si registra in Somalia, 180 decessi ogni 1000 nati vivi, mentre a Nairobi – dove i due terzi della popolazione vive in slum – si contano 151 bambini morti su 1000 nati vivi. Nei quartieri urbani più poveri delle grandi città Africane un litro di acqua costa 50 volte di più che nei quartieri più ricchi. L’accesso inadeguato all’acqua potabile e l’insufficienza della quantità di acqua necessaria ai fabbisogni igienici quotidiani, minaccia la salute dei bambini che abitano gli slum e favorisce il diffondersi di epidemie.
Solo una notizia parzialmente positiva: nel 2010 meno bambini sono stati contagiati con HIV e si sono malati di AIDS rispetto agli anni precedenti, grazie al miglioramento nell’accesso ai servizi di prevenzione durante la gravidanza e l’allattamento. Ma c’è una bomba pronta ad esplodere: in tutto il mondo, 2,2 milioni di adolescenti tra i 10 e i 19 anni convivono con l’HIV, e per la maggior parte non sono consapevoli della loro sieropositività.
Ovvia conseguenza delle statistiche precedenti è che negli slum cresce la violenza, di cui bambini e ragazzini ne sono prima le vittime e ne diventano poi gli autori.
Continuando il rapporto l’UNICEF elenca, “con forza” come sottolineano i comunicati ufficiali, le cose che si dovrebbero fare, le “buone pratiche”, il programma delle “città amiche dei bambini”, e le “cinque azioni urgenti”: comprendere la natura della povertà e dell’esclusione nelle aree urbane; individuare ed eliminare gli ostacoli all’inclusione; mettere i bambini al primo posto nel quadro di una ricerca più ampia dell’equità nella pianificazione urbana, nello sviluppo delle infrastrutture, nella governance e nella fornitura di servizi; promuovere la collaborazione tra i poveri delle aree urbane e i loro governi; lavorare tutti insieme per ottenere dei risultati indispensabili per l’infanzia.
Cosi il dramma umanitario, la sofferenza di centinaia di milioni di bambini che è stata già mezza nascosta dalla fredde cifre, viene definitivamente diluito dal gergo degli esperti, da parole che che sembrano fate apposta per lenire piuttosto che spronare l’azione. Ma dove sono le “buone pratiche” se ci sono mezzo miliardo di bambini in sofferenza cronica!? No, evitiamo lo sdegno, fingiamo di convincerci che conosciamo le soluzioni e che è solo una questione di tempo prima che le mettiamo in pratica. L’incongruenza delle proposte rispetto alle necessità e sopratutto alle urgenze lascia senza fiato.
Riusciranno queste blande proposte a mobilitarci, noi tutti, perché solo noi tutti potremmo insieme trovare una soluzione? Eppure qui è il banco di prova per dimostrare d’essere un’umanità sola, di credere che ormai siamo tutti legati ad un unico destino. Se affrontassimo coraggiosamente il problema e fornissimo educazione e cure mediche a questo mezzo miliardo di bambini fra vent’anni averemo anche vinto il sottosviluppo, il degrado ambientale, i nazionalismi e i razzismi, le guerre, la crescita demografica incontrollata. L’istruzione, un’istruzione vera, che dà la consapevolezza della dignità umana e del proprio posto nel creato, è la strada maestra per cambiare il nostro futuro.
Invece il rapporto dell’UNICEF, in sé importante e commendabile, sembra essere stato solo occasione di incontri, conferenze, cene benefiche, cocktail parties, e genericamente di fund raising, almeno giudicando da quanto è stato riportato dai media. E’ passata una settimana e non se ne parla più. Abbiamo fatto il nostro dovere, abbiamo denunciato queste cose tremende, adesso passiamo alla cose serie, sembra essere il sottinteso.
Bene, passiamo alle cose serie. Il governo italiano vorrebbe comperare 131 cacciabombardieri F35 che costano quasi 150 milioni di euro ciascuno. Con quale logica? E’ logico investire enormi capitali in armi mentre il grido dei poveri, in Italia e nel mondo, si fa sempre più disperato? Con il costo di uno di questi cacciabombardieri si potrebbe dare istruzione, cure mediche, futuro e dignità a diverse decine di migliaia di bambini. Formare cittadini consapevoli e competenti, una straordinaria azione preventiva contro le guerre possibili future. Molto più efficaci di un cacciabombardiere.
Nel frattempo ricevo un altro rapporto, molto più ridotto, di uno degli “operatori di strada” di Koinonia a Kibera. Mi elenca tutti i bambini che ha recuperato dalla strada lo scorso anno e i primi commenti dei maestri delle scuole dove sono stati inseriti. Mi racconta delle giornate e notti passate in strada a cercare i bambini più in difficoltà. Le piccole conquiste fatte: Njiru della quale ha conquistato la fiducia curandole un taglio al piede, Shikuku, l’albino, che ieri ha finalmente accettato di giocare al pallone con gli altri.
Ma è possibile che siamo così in pochi a pensare che bisogna investire in fraternità e pace invece che in muri divisori e in macchine da guerra?
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