Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

Benedetto XVI e l’Africa

Ho letto tante cose molto belle sullo straordinario gesto di Papa Benedetto e mi è sembrato veramente inutile dire la mia. Poi gli amici di Famiglia Cristina mi hanno fatto una breve intervista al telefono e l’hanno pubblicata nel loro sito, non nel cartaceo. La trovate a

http://www.famigliacristiana.it/chiesa/dossier_2/dossier/e–l-ora-dell-africa/padre-kizito-la-chiesa-dafrica-attende-il-via.aspx

ma per vostra comodità la copio qui sotto.

Padre Kizito: «La Chiesa d’Africa attende il via»

«Questa Chiesa ha una grande ricchezza. Un laicato generoso, magari non pienamente formato, ma con enorme disponibilità a servire la chiesa e i fratelli». Padre Renato Kizito Sesana, da molti anni missionario a Lusaka e poi a Nairobi, sta parlando della Chiesa africana, quella che considera ormai la “sua” chiesa.

«Benedetto XVI», aggiunge, «ebbe un’espressione quanto mai felice quando la descrisse come il “polmone spirituale dell’umanità”. «Un potenziale, quello dei cristiani d’Africa, certamente non sfruttato al massimo, perché la spinta che aveva portato al primo Sinodo del 1994 si è poi fermata. La Chiesa africana negli ultimi 15 anni ha segnato il passo».

– Perché, padre Kizito?

«Per diverse ragioni, una delle quali è che – questo va detto – l’azione di papa Benedetto XVI è stata molto eurocentrica. Ma anche prima del suo pontificato: diciamo che, nel momento in cui il dibattito ricco ed effervescente è arrivato al suo culmine, col Sinodo del 1994, anziché decollare gli è stata messa la sordina.

– Un esempio?

«La questione dell’inculturazione, ossia la modalità con cui l’Africa incarna il messaggio evangelico, è un processo rimasto ancora tutto da realizzare. Se n’era discusso molto negli anni ‘70 e ‘80. Mentre la Chiesa latinoamerica parlava di Teologia della liberazione, quella africana parlava di inculturazione. Ad esempio, prima del 1994 si era arrivati all’approvazione del rito liturgico zairese per l’Eucarestia. Non ce ne sono stati altri, né per altre aree culturali e linguistiche, né per gli altri sacramenti. Un altro esempio è il lavoro pastorale delle piccole comunità cristiane, che doveva servire a rendere la chiesa vicina alla gente: a partire dai primi anni ’90 è stato dimenticato. Quel cammino si è bloccato, ora c’è bisogno di riprenderlo».

– Si è fermato per cause interne o esterne?

«La responsabilità non è della Chiesa africana. Se ci domandiamo perché, la risposta non è molto bella. Si è scelto negli ultimi decenni di porre alla guida delle diocesi più dei buoni amministratori che dei grandi pastori. Forse per non correre rischi. Il risultato è che oggi sembrano mancare i grandi vescovi, come pure i grandi teologi che avevano caratterizzato la “primavera” del cristianesimo africano degli anni ’70. Forse solo Peter Turkson può essere paragonato a quelle figure di allora: dei veri punti di riferimento che non ci sono più».

– Come può essere stato letto il gesto delle dimissioni del Papa nel Continente nero?

«Credo sia un segno importante, anzi un vero dono fatto alla Chiesa alla fine del suo pontificato: dopo essersi posto di fronte a Dio e alla sua coscienza, ha deciso di rompere una tradizione secolare con un gesto di libertà e che apre alla novità. Le parole di Benedetto XVI pronunciate in questi giorni “sulle divisioni che talvolta deturpano il volto della Chiesa” sono un messaggio forte anche a quella parte del clero africano troppo attento alla “carriera”, che ha portato molti a “stare buoni” in attesa di una promozione. Paolo VI, nel 1969, sollecità l’Africa ad avere “un cristianesimo africano”, a far penetrare fin nel più profondo della vita e della cultura il messaggio evangelico. Ecco, oggi c’è bisogno di chi sappia liberare le sue enormi energie».

– Alcuni vescovi hanno detto esplicitamente che forse è ora di guardare fuori dall’Europa per il prossimo Pontefice. Un africano?

«Questa è una Chiesa che fa fatica, nell’attuale momento storico. È inutile il ritornello del papa africano. Temo che, se oggi esprimesse un papa, sarebbe comunque ben poco africano».

Luciano Scalettari

Mogadiscio, la nuova frontiera

Kabiria Road è all’estrema periferia di Nairobi, oltre un chilometro di buche e dossi, e solo di tanto in tanto qualche metro di strada liscia. Un susseguirsi ininterrotto – e sempre in mutazione – di negozietti, bancarelle, donne che preparano frittelle, o chapati (il pane piatto di tipo indiano), o abbrustoliscono pannocchie di mais ai lati della strada. Ci sono macellerie con quarti di bue appesi a due metri dalle auto in movimento, polli in gabbia, capre legate ad un albero che cercano di mangiare tutto ciò che capita a tiro, anche i sacchetti di plastica vuoti, e dappertutto gente che compra, vende, passeggia e discute in mezzo alla strada e si sposta solo se minacci di investirli, barbieri all’aperto, posti di ristoro che offrono specialità locali come githeri (un straordinaria minestra di fagioli, chicchi di mais e patate), pensioni con due camere di lamiera e senza servizi ma con nomi altisonanti e fantasiosi come Regency Hotel Annex, o Mandela’s Hut o Mama Jane’s Villa. Il grande mondo modifica la vita di Kabiria non solo quando in televisione ci sono le partite del Manchester United e i negozianti per attirare clienti mettono una televisione accesa in vetrina, o arriva il politico candidato presidente alle ormai imminenti elezioni. La gente si muove, emigra in cerca di fortuna, e ritorna con racconti di terre lontane.

L’altro giorno vedo arrivare a Kivuli, dove Kabiria Road sta per esaurirsi nella campagna intorno a Nairobi, la mamma di un bambino che era in strada e che qualche mese fa ci è stato portato dalla polizia, pizzicato per aver tentato un furto di biscotti da una bancarella. La signora è tutta in ghingheri, strano per un giorno feriale. Non vorrei essere indiscreto e non le chiedo niente, ma dopo un po è lei che me ne spiega la ragione.”Sai, mio figlio maggiore, Caleb, quello che lavorava come magazziniere con uno stipendio da fame, che non gli bastava neanche per pagare l’affitto di una baracca e quindi viveva nella mia baracca con moglie e due figli, adesso è andato a lavorare a Mogadiscio come logistico per una ONG americana, e ha cominciato mandarmi qualche soldo ogni mese”.

La pace sta tornando in Somalia dopo venti anni di caos, e Mogadiscio è la nuova frontiera per i più intraprendenti lavoratori keniani di livello medio basso. Anni fa chi aveva delle competenze come meccanico, autista, logistico, operatore di computer, o anche semplicemente come affidabile guardiano ed era disposto a correre qualche rischio, cercava lavoro con le ONG che operavano con l’OLS (Operation Lifeline Sudan). Era una vita lontana da casa, segnata da sacrifici e incertezze, con tutti i rischi di una zona di guerra, ma si poteva prendere una salario cinque volte più alto che non in Kenya. Poi c’è stato il momento di Dubai e gli Emirati Arabi, dove cercavano mano d’opera a tutti i livelli ad anche personale con qualifiche superiori. Poi, con il trattato di pace fra Sudan e Sud Sudan, Juba la capitale del Sud, è stata per parecchi anni il nuovo punto di riferimento. Ma adesso l’OLS è chiusa da un pezzo, Dubai e gli Emirati Arabi sono pure vittime della crisi mondiale e la gente non ci va più volentieri per aver sentito raccontare troppe storie di discriminazione, a Juba i keniani erano diventati una presenza talmente ingombrante da provocare reazioni negative. Adesso, per chi è disposto a rischiare, Mogadiscio è il posto più vicino dove si può avere una buona paga senza affrontare le distanze e i rischi di un viaggio in Europa.

La città somala sta rinascendo dalle ceneri. Ovunque ci sono lavori di recupero e ristrutturazione degli edifici danneggiati dalla guerra – praticamente tutti – e se ne tirano su di nuovi. Non tutti gli esperti son convinti che questa fase di pace sia duratura, e che non sia semplicemente un momento di stallo della guerra civile in cui i contendenti stanno rafforzandosi e misurando le forzse degli altri, ma con le recenti avanzate della forza di pace panafricana AMISOM, con la sconfitta di Al Shabaab, la nuova costituzione e le elezioni la speranza che le pace possa durare è credibile.

La mamma di Caleb dice che suo figlio le racconta al telefono di centinaia e centinaia di lavoratori keniani impiegati a tutti i livelli nella ricostruzione della città. I rifugiati somali che ritornano in patria – per approfittare del momento economico favorevole ma anche perché sono stanchi dai continui controlli e pressioni del governo keniano che non perde occasione per far loro capire che ormai è tempo di tornare a casa – sono per lo più scaltri commercianti con pochissime competenze in altri settori. D’altro canto la lunga guerra ha causato la sparizione di tutte le competenze lavorative, e quindi subito dopo essere rientrati i somali chiedono ai loro ex-dipendenti keniani di raggiungerli, come autisti, contabili, operatori di computer, tecnici del telefono, muratori, capomastri, falegnami, cuochi nei ristoranti che stanno riaprendo vicino alle spiagge dove i pirati somali tornano a fare i pescatori.

Ormai, continua la mamma di Caleb, accarezzandosi con orgoglio il bel vestito dai colori sgargianti, sono almeno una trentina gli abitanti di Kabiria Road che si sono trasferiti a Mogadiscio: “Le paghe sono ottime. Pensa che mio figlio prende quasi 400 dollari americani al mese!”

Paternità

Avevo intitolato “Fallimento” uno di questi post, qualche tempo fa, ricordando un desolante incontro che avevo avuto pochi giorni prima con un ragazzo che anni fa avevamo tentato di riscattare dalla strada. Commentandolo, l’amico Alessandro mi aveva giustamente fatto notare che noi non possiamo illuderci di salvare, c’è solo Cristo che salva. Anche se, scriveva Alessandro, comunque “l’uomo deve collaborare al disegno di Dio: mica possiamo stare con le mani in mano ad aspettarla passivamente questa benedetta salvezza”… Si, proprio perché noi non salviamo nessuno, perché siamo cosi incapaci e deboli, e nello steso tempo siamo sempre tentati di crederci al centro del mondo, abbiamo bisogno che i fatti ci ricordino i nostri fallimenti, ma anche che di tanto in tanto qualcuno ci faccia credere che il nostro impegno serva a qualcosa, che Dio lo usi per salvare e per far crescere gli altri.
L’altro giorno ho vissuto uno di questi momenti. A Kivuli, in cucina, stavo lavando un abbondante raccolto di verdure provenienti dall’orto della Casa di Anita. Ero con tre ragazzi, ed uno di loro, che era sempre stato in silenzio, dopo un po mi ha chiesto di parlarmi. Allora sono andato con lui a sedermi sui gradini fuori dalla porta di casa, ed ha incominciato a raccontarmi la sua vita. Non conosce il padre, ha un vago ricordo della mamma che e’ morta quando lui aveva sei anni. E’ cresciuto in casa di uno zio che ha nove figli. Anni di povertà, di fame profonda, permanente, fin quando ha deciso di scappare in strada. Dopo altri tre anni di vita allo sbando, è stato avvicinato in strada dal nostro Bonny che l’ha convinto a venire a Kivuli. Tutte cose che sapevo già, e, sapendole, ho sempre apprezzato come questo ragazzo abbia saputo gestire un passato tanto pesante. “Adesso – mi dice – son qui da otto anni, ne ho ventitré, e se penso alla mia famiglia, ho momenti di sconforto, anzi di disperazione, mi sembra di non valere niente, di essere nato e vissuto per caso. Anche Dio, in quei momenti, aiuta poco. In quesi ultimi tempi sono più tranquillo perché Bernard mi ha chiesto di essere il riferimento per un gruppo di bambini appena arrivati dalla strada, la sera, quando rientro dalla scuola di ragioneria. Mi accorgo che la mia presenza per loro è importante, che mi guardano come ad un esempio, e mi sembra finalmente di avere uno scopo nella vita. Vorrei continuare a fare questo lavoro di assistente sociale per sempre, mi da la certezza che potrò avere dei figli miei e aver cura di loro, farli crescere amati e felici”. Il suo sfogo, che ho riassumo in poche righe, è durato a lungo, inframmezzato da lunghi silenzi e da faticose riprese. Gli confermo che il suo impegno è apprezzato, che in tanti gli vogliono bene. Poi mi dice “Sai padre, hai notato una cosa? Io non ti chiamo mai padre Kizito, ti chiamo sempre e solo padre, fin da quando sono arrivato qui. Vedi, un bambino che chiama suo padre non lo chiama col nome, lo chiama semplicemente padre, perché per lui il padre è quello, e non altri. Io ho sempre segretamente pensato che tu sei veramente mio padre, solo mio. Questo pensiero mi da forza. Voglio che tu sappia che quando io ti chiamo padre lo faccio perché mi sento tuo figlio, non perché tu sei un prete. Posso continuare a chiamarti solo padre? Me ne dai il permesso?”

Spizzichi di cronaca e links.

Le riflessioni, le emozioni, a volte gli smarrimenti e la stanchezza, che avrei voluto condividere con gli amici che ogni tanto mi leggono sono troppi. Difficile trovare il tempo per fermarsi e scrivere.

Ultimo dell’anno a Mthunzi. Diluvia. Manca la corrente fino alle 21 e quando torna tutti si radunano nel salone, correndo e ridendo sotto la pioggia torrenziale. Nshima (polenta) e spezzatino e poi si improvvisa uno spettacolo, per stare insieme. Ma dopo un’ora siamo di nuovo al buio. Ritorna la luce alle 23.30, ci si raduna ancora, tutti bagnati, e si comincia a cantare. Alle 0.15 Baisikolo (cosi chiamato da quando quasi 10 anni fa si mise nei pasticci per una bicicletta, o “baisikol” in inglese) guarda il telefonino e grida, “Il 2013 e’ già incominciato”. Improvvisa una preghiera sconclusionata come la sua vita, ma fatta con un trasporto che Dio non può non ascoltarla. Danze a canti fino al mattino, per chi resiste.

A Lusaka, due novità: la Kasupe Road, che porta fino a 100 metri da Koinonia, è stata asfaltata. Quando Koinonia si trasferì qui da Bauleni, nel 1982, ci avevano assicurato che entro pochi mesi la strada sarebbe stata migliorata. Ci sono voluti 30 anni, ma ce l’abbiamo fatta. Adesso, come vedete dalla foto qui sotto, si arriva fino alla Rivonia Farm su una strada che a chi ha visitato Koinonia e Mthunzi in questi anni, sopratutto a chi l’ha fatta sul cassone del mio camioncino, sembra un sogno. Invece è solo una normale strada asfaltata.

L’altra novità è la rivalutazione della kwacha, la moneta locale. Quando sono arrivato in Zambia nel 77 con un dollaro si avevano 80 centesimi di kwacha. Poi una svalutazione lenta, finché a metà anni novanta c’è stato il crollo: un dollaro è arrivato a valere 4,000 kwacha. Infine kwacha si era stabilizzata da molti anni intorno a 5,800 per un dollaro. Dallo scorso 1 gennaio si usa la “kwacha rebased” e sono in circolazione le nuove banconote, e si sono tagliati tre zeri. Un dollaro adesso vale 5.8 kwacha e un euro vale 6.9 kwacha. Speriamo che la svalutazione che è inevitabile in queste operazioni non ci faccia rimpiangere i tempi in cui andavamo a comperare salsicce e brioche per cento persone e spendevamo solo seicentomila kwacha.

A Mthunzi è successo anche un quasi-miracolo. Nei primi giorni ne avevo ricevuto delle versioni molto esagerate, ma il miracolo resta. Malaika Bweupe aveva circa 10 anni quando è arrivato a Mthunzi nel 2002, dalla strada dov’era insieme a Joe. Bweupe è sordomuto dalla nascita e con Joe aveva inventato un suo linguaggio a gesti. Da qualche anno le mandiamo ad una scuola specializzata e sta facendo molto bene nella scuola secondaria. Le visite specialistiche che gli avevamo fatto fare nel corso degli anni avevano dato tutte lo stesso responso: “Non c’è niente da fare”. Lo scorso agosto lo abbiamo messo nel gruppo che è andato in Scozia per uno scambio culturale. Anche in Scozia Marian, organizzatrice degli amici scozzesi, lo aveva fatto visitare, con lo stesso responso, solo con una vaga speranza e un invito a continuare e provare le nuove tecnologie man mano che si affinano. Marian non si è data per vinta, e mentre visitava Lusaka lo scorso ottobre, ha portato Bweupe in un centro specializzato appena aperto. Dopo una mattinata passata a provare apparecchi diversi, improvvisamente Bweupe ha fatto segno che sentiva, e che bisognava abbassare il volume perché gli dava fastidio! Adesso la difficoltà per Bweupe è imparare a parlare. Anche se legge e scrive perfettamente in inglese, imparare a fare il legame far i segni e i suoni, alla sue età, non e’ cosi semplice… Al momento frequenta delle costosissime sessioni di logo-terapia, ma avrebbe bisogno di qualcosa di molto più serio. Mike, il nostro video amatore di Mthunzi, sta preparando un piccolo video sulla storia di Bweupe da metter su Youtube. Appena sarà pronto ve lo segnalerò.

Fra meno di una settimana ci sarà a Nairobi un grande evento per la pace: Amka Kenya, Children for Peace. Una nostra amica finlandese, Marita Rainbird, con il piccolo gruppo di Koinoniani appassionati di musica e video, ci lavorano ormai da quattro mesi. Un grande concerto nel piazzale all’ingresso di Kibera. Saranno solo i bambini di Ndugu Mdogo e di altre piccole realtà a cantare e parlare, anche se si prevede l’intervento di altri artisti che pero hanno accettato la condizione che abbiamo imposto, di ascoltare prima i bambini. I bambini di Ndugu Mdogo non sono per niente emozionati dall’andare negli studi di registrazione per preparare il DVD, dalle interviste, dalla tensione che c’è fra gli organizzatori. Per loro tutto è semplice e normale.
Marita ha un blog in cui presenta l’iniziativa e i bambini, che vi consiglio di visitare. http://amkakenya.wordpress.com/

Naturalmente troverete aggiornamenti anche sul sito di Amani, che vi ripeto nel caso qualcuno non lo conoscesse
hhttp://www.amaniforafrica.it

In questi giorni viene consegnato il premio Altropallone ad un’atleta che si è fatta conoscere per le sua serietà e impegno sociale. Dieci anni fa lo stesso premio venne dato a me! E’ vero, non scherzo. Comunque potete controllare sul sito di Altropallone, a http://www.altropallone.it/

Un’altra associazione con una forte base in Lombardia ha lanciato un premio per ricordare un comune amico, Federico Ceratti. Il premio è per giovani talenti. Trovate il bando a http://www.consumietici.it/

Il coro di Amka Kenya è arrivato a Shalom House per una delle ultime grandi prove, ed esigono la mia presenza prima di incominciare. Devo andare a salutarli!

Lusaka, l’indicazione per Koinonia sulla Kasupe Road.

Natale – Christmas

Ci si aspettava che almeno 18 milioni di cittadini keniani si registrassero per le elezioni del prossimo 4 marzo. Alcuni speravano che si potesse arrivare a 22 milioni. Se ne sono registrati solo 14,3 milioni, e la giustificazione per un cosi basso numero é la paura di violenze durante le elezioni. Non si capisce come il non votare possa diminuire il rischio delle violenza, ma certo le notizie quotidiane impensieriscono. Esplosioni di bombe, scontri che avvengono apparentemente tra razziatori di bestiame e che lasciano dozzine di morti. Il timore che questo sia solo l’inizio di una stagione di violenze molto più grandi é fondato.
Ieri mattina andando a Kibera sono passato vicino ad un palazzo di cinque piani che era crollato durante la notte. Per fortuna era ancora in costruzione e non era abitato, e solo due persone sono rimaste ferite in modo non grave. Il crollo di un palazzo costruito illegalmente, senza che il progetto sia stato approvato oppure che é stato approvato pagando una tangente, si merita sul giornale di oggi solo poche righe.

I ragazzi hanno terminato al prima fase del corso del Tome la Maji Circus Project, con uno spettacolo nel teatro di un centro dei Salesiani. Per la prima volta ad un nostro corso di circo hanno partecipato con successo otto bambine della Casa di Anita. Oltre quaranta studenti delle case di Koinonia a Nairobi hanno terminato la classe ottava sono andati per la prima volta al mare, a Mombasa, per una settimana. Venticinque maschi sono stati circoncisi ed sono stati istruiti sulle loro responsabilità di adulti. Tutte le nostre case si stanno mobilitando per una grande concerto per la pace che sarà tenuto dai bambini di Ndugu Ndogo il 26 gennaio, per implorare elezioni senza violenza. Oltre centoventi ragazzi e ragazze ieri sera hanno animato la Messa di Natale a Kivuli. La loro fede, la loro speranza in un possibile mondo migliore, il loro affetto sincero ci rinnovano, ci rincuorano ad affrontare il cammino che ci resta e ci garantiscono che davvero un mondo migliore possibile, l’umanità ne ha il potenziale, dobbiamo lavoraci tutti insieme.

Ho ricevuto degli auguri di Natale con una poesia di Efrem il Siro dedicata al Bambino Gesù. Ve la ripropongo, con la foto dell’ultimo bambino accolto a Kivuli Ndogo.

Come sei sfacciato, o Bambino,
che ti getti nelle braccia di tutti!
A chiunque ti trova, tu sorridi;
a chiunque ti vede, tu vuoi bene.
È come se il tuo amore
avesse fame degli uomini.
Forse non sai distinguere
tra i tuoi genitori e gli estranei?
Tra la tua mamma e le serve?
Tra colei che ti nutre col suo latte e le donne impure?
Questo è la tua sfacciataggine oppure il tuo amore?
Tu, che tutti ami!
Come sei irrequieto,
che ti getti nelle braccia di chiunque ti vede!
È lo stesso se sono ricchi o se sono poveri;
tu cerchi rifugio in loro, senza bisogno che ti chiamino.
Donde ti viene questo essere così affamato degli uomini?

Kongamano la Vijana kwa Base

L’8 dicembre 2012 più di duecento giovani che hanno avuto qualche esperienza di vita di strada e sono stati riscattati da istituzioni di beneficenza a Nairobi, si sono riuniti per il loro primo Forum.

Chiamato Kongamano la Vijana kwa Base (swahili per Forum della Gioventù della Base, base é come i gruppi di bambini di strada designano il loro abituale punto di incontro) il forum si é tenuto alla Shalom House e ha riunito i beneficiari di oltre dieci istituzioni.

Kongamano la Vijana kwa Base è stata un’iniziativa di KOBWA (Koinonia Old Beneficiaries Welfare Association) ed ha visto la partecipazione di altre organizzazioni molto importanti come KESCA, Consolation Africa, Thomas Bernardo’s Home, Rescue Dada e altre. E ‘stato il culmine di un processo iniziato nel mese di agosto 2012.

I beneficiari hanno avuto l’opportunità di condividere le loro esperienze di vita e la possibilità di proporre la via da seguire su come migliorare il processo di riabilitazione e reinserimento sociale .

Il documento finale é pubblicato nel blog in inglese.

Questi due partecipanti al Kongamano sembra abbiano superato la disperazione scritta sulla maglietta. These two participants to the Kongamano seem to have overcome the desperation wirtten on the T-shirt.

Nuovo Consiglio Esecutivo di Koinonia – New Executive Council of Koinonia

Durante l’assemblea annuale di Koinonia tenutasi a Elementaita dal 14 al 16 dicembre, abbiamo anche eletto il nuovo Consiglio Esecutivo. Nella foto sotto sono i primi cinque accosciati, da sinistra: Tony Litunya, Esther Kabugi Masera, Herber Wamalwa (chairman), Tiberius Mogwasi (tresurer), Simon Ng’anga (secretary).

Il Bambino che porta il Perdono

Ogni celebrazione dell’anno liturgico viene abitualmente associata a un valore cristiano. Il Venerdì Santo è il sacrificio e il perdono, la Pasqua la resurrezione e la vita nuova, la Pentecoste la testimonianza e l’impegno nel mondo, il Natale è la famiglia, i bambini, l’amore, la pace.
Chissà perché quest’anno per me il Natale si colorisce soprattutto di perdono, che di solito non è considerato il messaggio più immediato che viene da Betlemme.
È stato il presepio preparato da Frederic Sibomana che mi fa pensare al Natale nella prospettiva del perdono. Frederic e’ uno dei migliori scultori in legno che hanno il laboratorio all’interno di Kivuli, il centro al servizio dei bambini di strada e dele persone in difficolta’ che ho iniziato nel 1997 con i miei amici della comunicta’ Koinona di Nairobi (Kenya). Quest’anno ha fatto un presepio davvero speciale, intagliato a mano, su una tavola di legno di jacaranda. Rappresenta tutta la vita di Gesù: al centro c’è la Natività, intorno scene di vita africana che evocano la missione di Gesù secondo Isaia «Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato e mi ha inviato a portare ai poveri il lieto annunzio, ad annunziare ai prigionieri la liberazione e il dono della vista ai ciechi; per liberare coloro che sono oppressi». Vi si vedono i bambini di strada che sniffano la colla, gli schiavi incatenati, i malati trasportati in barella tradizionale, i mendicanti, gli anziani, i ciechi, i bambini, la vita di villaggio. In secondo piano si vede la Crocifissione e all’orizzonte il sole che sorge rappresenta la Resurrezione. Tutta la vita di Gesù e’ simbolicamente descritta in questo grande quadro di un metro per un metro e mezzo. Probabilmente anche tutta la vita di Frederic, che è di origine ruandese, rifugiato in Kenya dal 1994, cercatore di fortuna in Mozambico e Sudafrica, infine rientrato in Kenya perché qui si trova meglio che negli altri paesi dove ha provato a lavorare, essendoci una grossa comunità ruandese che lo fa sentire più a casa. Ieri, primo giorno di Avvento, ha portato la sua opera a Ndugu Mdogo, la casa di prima accoglienza per i bambini di strada che abbiamo avviato a Kibera, la piu’ grande baraccopoli di Nairobi nel 2008, e l’ha` messa nel portico, appoggiata contro il muro. Subito alcuni dei bambini vi si sono seduti intorno mentre lui spiegava cosa rappresenta.
Sul volto del Gesù bambino del presepio di Frederic c’è pace e serenità, anche se e’ gia’ consapevole di cosa gli riserva il futuro. Nonostante i vari gruppi di persone rappresentino situazioni di disagio e dolore che saranno destinatarie dell’annuncio di Gesù, l’umanità sofferente a cui Dio Padre ha inviato il Figlio, anche queste figure sono composte, dignitose. Sono persone abituate alla durezza della vita, non si lamentano, portano il loro fardello con determinatezza. Il Bambino guarda e sembra già accettare tutto, perfino la croce che si intravede in lontananza. Ha già perdonato tutti in anticipo. Anche se sa bene in che mani si è messo. La sua non è rassegnazione ma piuttosto fede e speranza che la tranquilla forza del bene vincerà.
O io vedo troppe cose? Forse quello che vedo sul volto dei Bambino è invece sui volti dei bambini di Ndugu Mdogo.
I bambini sono accovacciati sul pavimento, a contemplare la scultura. Questa è ormai la loro casa da diversi mesi. Indossano vestiti puliti, hanno appena finito colazione e quando è arrivato Frederic stavano parlando con Jack, l’educatore di strada, sulla possibilita’ di un loro reinserimento in famiglia.
Juma, il più piccolo del gruppo, avrà forse sette anni, tocca col dito, esitante, la statua del bambino che sniffa la colla, quella più vicina al Bambino. « È come me» dice rivolgendosi agli altri. Poi si corregge con un sorriso appena accennato «Com’ero». Juma ci ha raccontato che era scappato di casa due anni fa per raggiungere in strada il fratello maggiore, Idriss. La mamma stava via da casa, o meglio dalla baracca, anche per due o tre giorni di seguito, e loro non avevano da mangiare, e non vedevano altra soluzione che andare in strada a rubacchiare o mendicare. Dopo che hanno deciso di andarsene hanno vissuto in strada, insieme, per due anni, prima di venire da noi poche settimane fa. Ma quando abbiamo chiesto ai due fratelli dove vorrebbero stare in futuro ci hanno detto che, se li aiutiamo un poco per poter andare a scuola, e Jack va a visitarli con regolarità, loro sarebbero contenti di stare con la mamma «perché lei ha bisogno di noi». Seduto accanto a Juma c’è Mothami, dodici anni, che era fuggito di casa tre anni fa perché il patrigno tornava sempre a casa ubriaco, picchiava prima la moglie e poi il figli. «Però – dice Mothami – l’ultima volta che ho visitato la mamma in casa non c’era violenza, le cose vanno meglio. Potrei andare a scuola e poi la sera preparare la polenta prima che gli altri rientrino».
Quella mamma e quel papà sono stati perdonati senza che lo abbiano chiesto. Juma, Idriss, Mothami sanno che la vita ha messo i loro genitori in difficoltà, capiscono e perdonano. Sperano che il male che hanno visto e sperimentato non si ripeta più. Che gli adulti possano cambiare in meglio, anche se hanno imparato che non è sempre così facile.
Il Bambino che dirà «Non giudicate e non sarete giudicati. Non condannate e non sarete condannati. Perdonate e vi sarà perdonato» guarda, capisce, approva.

Tone la Maji Circus Project

Il 21 novembre provenienti da Torino, sono arrivati a Nairobi gli amici della Fondazione “Uniti per crescere Insieme ONLUS” (UCI) per dare vita alla prima fase del “Tone La Maji Circus Project”.
Il progetto che ha preso il via il 26 novembre a Tone la Mji prevede laboratori di Circo Sociale giornalieri rivolti ai bambini e agli adolescenti delle nostre case: Tone La Maji, Kivuli, Casa di Anita e Ndugu Mdogo che si protrarranno fino al 19 dicembre.
In questa prima fase del progetto sono presenti: Maria Luisa Mirabella, presidente della fondazione UCI; Luca Sartor, educatore professionale e professore di circo; Luca Marzini, operatore di circo sociale; Francesca Santarelli e Anna Monaco, volontarie; Martina Carlini assistente artistica; Raffaele Ballarati, del Consiglio di Indirizzo di UCI. UCI ringrazia La Goccia per mettere a disposizione la struttura, e ancora La Goccia e Amani e Koinonia per il grande lavoro educativo gia fatto con questi ragazzi.
Il TLM Circus Project proseguirà le sue attività fino a dicembre 2014, con altre quattro sessioni distribuite nel 2013 e 2014, nei periodi delle vacanze scolastiche.
Uniti per Crescere Insieme con questo nuovo programma continua la tradizione di Koinonia di usare le arti circensi per la riabilitazione ed educazione dei giovani.
Per la prima volta alcune bambine della Casa di Anita partecipano a questo tipo di attivita. I partecipanti sono divisi in due gruppi, bambini e adolescenti, con la prospettiva che per la fine del 2014 gli adolescenti possano a loro volta diventare istruttori.

Sono giornate di impegno e allegria per tutti.

Alle prese coi foulards. Handling the foulards.

I piccoli cercano di domare il “Diablo”.The small ones try to tame the “Diablo”

Fallimento

Sto guidando l’auto, carica di bambini, nel centro di Nairobi ed ho, molto imprudentemente lasciato il finestrino aperto. Mi si avvicina una tipica persona di strada. Vestiti sdruciti e sporchi, alto, magrissimo, occhi arrossati, una smorfia che forse é un sorriso ma quasi privo di denti. Se non conoscessi le strade di Nairobi potrei dargli 50 anni, conoscendole penso che ne possa avere fra i venticinque e i trenta. E’ all’ultimo stadio della parabola discendente di una “vita di strada”. Gli stenti, la fame, lo sniffare la colla e la benzina, le infezioni, le discriminazioni e il disprezzo, le malattie di tutti i generi fanno si che a un certo punto la persona non reagisca più, si lasci morire. Penso che ormai avrà qualche mese di vita, e il recupero é quasi impossibile. Solo le suore di Madre Teresa accettano una persona ridotta cosi, e possono aiutarla a vivere gli ultimi giorni con solidarietà e affetto. L’uomo si appoggia al finestrino dell’auto, ferma a un semaforo. Sorride ancora, si, é proprio un sorriso, mi fissa con quegli occhi malati. La gente ben vestita continua a passare sul marciapiede, frettolosa. Sono impiegati, funzionari governativi, gente che fa ha fatto le ultime spese prima che i negozi chiudano. L’uomo continua a fissarmi. “Non mi riconosci?” No, non lo riconosco. Scavo nella memoria ma non ritrovo un volto che possa assomigliare a questo volto devastato. “Sono Lwanga, non ti ricordi?”

Mi si stringe il cuore. Lwanga era un ragazzo di strada di non ancora 10 anni quando insieme ad Andrew nel 1992 incominciammo ad avvicinare un gruppo che stazionava nel mercato di Riruta Satellite. Mi aveva colpito perché Lwanga é il nome di un altro dei Martiri d’Uganda, come Kizito, e i nostri nomi erano stati un buon aggancio quando lui mi si era avvicinato per chiedere da mangiare. Lwanga era diventato un entusiasta giocatore degli Yassets, la squadra di calcio organizzata da Andrew e si era trasformato in un adolescente allegro e aperto. Da qualche parte devo avere ancora una foto fatta durante gli allenamenti nel campetto della scuola di Riruta, con Andrew esultante perché la sua squadra ha vinto, e Lwanga, come al solito, gli é vicino. Non gli pareva vero di aver trovato un adulto che si interessasse di lui, lo proteggesse. Poi Andrew, poco prima di morire in un incidente d’auto nel novembre del 1997, lo rimise in contatto con la famiglia, e lo aveva sistemato nella casa di una zia, iscrivendolo anche ad una scuola di meccanici per auto. Ricordo la trepidazione con cui Andrew aveva seguito la crescita di Lwanga.

Poi, dopo la morte di Andrew, lo avevamo perso di vista. Lo rivedo solo oggi, stritolato dalla vita. Gli chiedo di venirmi a trovare a Kivuli, ma temo che non lo rivedrò. Il ragazzino che stimolato da Andrew aveva re-imparato a guardare alla vita con fiducia non c’è più. Anche lui lo sa. Mi dice che verrà, ma si capisce che non ci crede. Ormai non si aspetta più niente.

Nairobi e’ una macchina che stritola i più deboli. Chi non é forte dentro, viene distrutto. Come sempre, quando una persona come Lwanga fallisce ti fa riflettere sulla ragione del fallimento e sull’efficacia e significato del nostro impegno a fianco delle persone di strada. Andrew ha dato a Lwanga protezione e affetto, lo ha rimesso in contatto con la famiglia dedicandogli innumerevoli visite, gli ha trovato la scuola, ha dovuto convincere gli insegnanti a accettarlo nella loro classe… E tutto questo per cosa?

Per motivarci possiamo pensare alle tante persone che sono passate nelle nostre case e adesso sono giovani adulti normalmente integrati e normalmente felici, per lo meno come si può essere felici in questo mondo, per convincerci che il nostro lavoro non é stato comunque inutile.

Ma una persona ridotta come Lwanga é una sconfitta bruciante. Eppure, pensando a lui e a qualcun altro come lui, non mi pento di aver sprecato tempo, fatiche e risorse perché qualcuno di Koinonia potesse restargli vicino. Il bene resta. E’ eterno. I momenti di felicità che Andrew ha saputo donare a Lwanga, anche fossero gli unici della sua vita, saranno per sempre, oltre la morte, sia in Lwanga che in Andrew. Dobbiamo cercare di fare bene il bene, ma anche se facciamo qualche sbaglio, il bene resta.

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