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Reflections

Aiuto, gli Aiuti!

Anni fa, Nigrizia pubblicò un dossier intitolato “Aiuto, gli aiuti”. In poche parole vi si sosteneva la tesi che gli aiuti internazionali fanno più male che bene all’Africa, perché le modalità con cui vengono distribuiti non sono corrette.
Lo scorso anno, ai primi di giugno, mentre ero a Riccione per partecipare ad un seminario organizzato ai margini del Premio Ilaria Alpi, venni intervistato brevemente da un amico giornalista, Della’intervista, pubblicata da Il Redattore Sociale, il quotidiano La Repubblica riprese solo una frase, che pubblicò virgolettata e in grande evidenza per rinforzare il messaggio di un articolo. Era qualcosa del tipo “Molte ONG usano gli aiuti all’ Africa per aiutare se stesse. Padre Kizito”. Lo penso ancora.
Dopo quella citazione ricevetti tre email da amici che lavorano in diverse ONG dicendomi che trovavano quella citazione infelice. Risposi che, conoscendoli, so che loro e le loro ONG lavorano con serietà, ma che bisogna pur dire che per una buona maggioranza le cose non sono cosi. La mia non era una condanna indiscriminata, avevo detto “molte”, avrei anche potuto dire “una buona maggioranza”, ma non ho detto “tutte”. Avevo anche detto al giornalista che il mio personale parere ed esperienza e’ che quando si tratta di aiuti allo sviluppo “piccolo e’ bello”, perché le ONG piccole lavorano spesso con tanti volontari veri, non pagati, hanno motivazioni più genuine, lavorano in vero contatto con le persone locali e raggiungono risultati migliori. Io ho contribuito a creare almeno una ONG e due ONLUS in Italia, e almeno quattro ONG in paesi africani, e quindi ben so che possono essere ottimi strumenti per intervenire efficacemente in favore di chi ha bisogno, sia con aiuti di emergenza che per la promozione umana e educazione ai diritti.
A conferma del lato negativo del lavoro delle ONG ricevetti anche cinque email. Le rappresentava tutte una lunga e dettagliata lettera di una persona che dopo aver lavorato per un totale di 12 anni in due diverse grosse ONG aveva deciso di cambiar completamente lavoro proprio pochi mesi prima perché disgustato dalla lotta senza esclusione di colpi per assicurarsi i finanziamenti del nostro Ministero degli Esteri o della Comunita’ Europea, dall’inefficienza, dalla corruzione, dal fatto che trovare i finanziamenti e rendicontare i progetti diventa più importante che farli bene e far crescere la gente locale. E’ comprensibile come sia quasi inevitabile, se non c’e’ un’altissimo livello di motivazione, che ad un certo punto dell’ evoluzione di una ONG la presenza di professionisti ben retribuiti faccia si che il motivo dell’esistenza della stessa non sia più’ quello che fare progetti al servizio dei poveri, ma di ottenere finanziamenti per garantire la continuità dell’impiego.
Mentre invece funzionano gli aiuti che passano attraverso piccoli canali, dove la gente si incontra aldi la’ di tutti i tipi di divisioni, e dove la dignità’ delle persone e’ rispettata. . Penso alle iniziative di tante piccole ONG che hanno cosi di gestione quasi zero, ai gemellaggi fra scuole e associazioni e parrocchie e diocesi e magari anche squadre sportive, alla cooperazione decentrata fatta da comuni, provincie e regioni. Situazioni dove i volontari si pagano il biglietto aereo di tasca loro e, magari facendo errori, comunque meno gravi e meno costosi di quelli fatti dalle grandi ONG, si coivolgono in prima persona. Fortunatamente queste piccole iniziative sono molte e anche se non cambieranno la faccia dell’Africa, almeno ognuna di loro rida’ forza e speranza a qualche centinaio di persone. E non e’ cosa da poco, se confrontata col quadro fallimentare degli aiuti istituzionali.
Ho ritrovato tutto questo in un’intervista a Dambisa Moyo pubblicata lo scorso lunedì su La Repubblica. Il titolo e’ “Dambisa Moyo denuncia: gli aiuti salvano i dittatori e condannano l’Africa” La Moyo, zambiana quarantenne, economista che ha lavorato alla Banca Mondiale, e che lo scorso 11 maggio il Time ha inserito fra le cento persone più’ influenti del mondo, ha pubblicato un libro intitolato Dead Aid – che potremmo tradurre con Aiuti Mortali – in cui espone come le modalità’ degli aiuti siano sbagliate, ma mi pare, almeno dall’ intervista perché’ il libro non credo sia disponibile in Italia, che salvi proprio gli aiuti piccoli e mirati, che non passano attraverso i grandi canali istituzionali. Mentre gli aiuti diretti da governo a governo, dice, sono “diventati un immenso business dove ci guadagnano tutti tranne l’Africa: le ‘benemerite’ fondazioni americane, le multinazionali alimentari, le organizzazioni non governative”.
Allego qui sotto l’intervista scansionata.

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Pasqua – Easter

In questi giorni in cui si parla dei risultati e fallimenti del G20, delle prospettive per il G8, di leggi discriminatorie o puramente razziste, chi segue la liturgia si accorge che siamo i depositari, i responsabili, di un messaggio di straodinaria modernita’ e attualita’ politica. Sconvolgente. Rivoluzionario rispetto a tutti gli schemi, a tutte le diplomazie, a tutte le buone volonta’.
Il leader e’ colui che lava i piedi degli altri, e che e’ pronto a morire per gli altri, per tutti gli altri. Siamo fratelli, membri della famiglia del Signore della storia.
Forse l’abitudine ne ha spento la carica dirompente. Piu’ probabilmente siamo bloccati dalla la paura del rischio che l’amore sempre comporta.
Ma almeno non lasciamoci ingannare dalle barriere e dai confini tracciati da mano umana, dalle ideologie pensate per signoreggiare, dalle ipocrisie del “noi” e “loro”. Appartengono definitivamente al passato. La crisi mondiale che deve ancora arrivare non e’ economica e finanziaria. E’ di civilta’. Per evitarla dobbiamo cambiare attitudine. Potremo entrare in una nuova dimensione di civilta’ quando avremo profondamente accettato che “noi” siamo gli “altri”. Paolo VI and Raoul Follereau usavano un’ espressione che rischia pure di essere svuotata dall’abitudine e dal nostro cinismo: “la civilta’ dell’amore”.
A livelli diversi la Banca Mondiale, il fondo Monetario Internazionale, le Nazioni Unite, i govenri nazionali e i nazionalismi, il preoccuparsi solo dei morti di casa e non partecipare mai al dolore degli altri, anche quella cosa che sembra cosi stupidamente innocua come il tifo sportivo nazionale e locale, sono istituzioni e atteggiamenti irremediabilmente superati, che ci impediscono di progredire verso la dimensione del respiro mondiale in cui dobbiamo davvero entrare se vogliamo costruire il futuro. Forse, semplicemente, se vogliamo avere un futuro.
Come mai i ragazzi di Mthunzi, tutti ex-bambini di strada, con i quali sto vivendo questa Pasqua, riescono a capire che l’insegnamento del Vangelo e’ Vita? Il proverbio africano che recita che “l’anziano sa vedere piu’ lontano anche se non sale sull’ albero” e’ sbagliato. La sapienza sgorga da un cuore puro, non dalla lunghezza della vita.
Buona Pasqua, continuiamo a guardare lontano, continuiamo a risorgere.

Chi Sono i Pirati?

I pirati somali, le cui gesta sono occasionalmente riportate dai mass media internazionali,  probabilmente sono interessati solo alle centinai di migliaia di dollari di riscatto che riescono a estorcere per restituire le navi sequestrate, ma, involontariamente, ci aiutano a capire come va il mondo.

Agli inizi di quest’anno c’e’ stato un notevole aumento di navi sequestrate. In questi gironi i pirati somali hanno in ostaggio almeno 16 navi straniere con un totale di 323 marinai. Nel 2008 ci sono stati 49 casi pienamente documentati di navi prese in ostaggio, ma di molti altri casi non si sa quasi nulla, perche’ i proprietari preferiscono pagare il riscatto senza far sapere dell’accaduto. Magari la nave in questione trasportava merci illecite (rifiuti tossici) o praticava la pesca illecita, sia perche’ troppo vicina alla costa, o perche’ usava metodi proibiti da convenzioni internazionali, come le esplosioni subacquee, o perche’ pescava specie protette.

Fra i paesi che si sono mobilitati per contrastare i pirati che rendono problematico e costoso l’ uso del canale di Suez, per entrare nel quale le navi devono passare davanti alla costa somala, ci sono non solo molti paesi dell’ Unione Europea, e gli Stati Uniti,  ma anche l’India e la Cina, a sottolineare l’ importanza crescente di questi due paesi nel commercio mondiale. Se nella lotta contro i pirati vengono commessi degli errori il mare aiuta a nasconderli. Recentemente una nave indiana ha annunciato di aver fatto fuoco conto una barca di pirati. Poche giorni i dopo il governo della Thailandia ha denunciato la sparizione di un peschereccio del loro paese. I luoghi e i tempi fanno pensare che si trattasse della stessa barca…  Ci sono fondati sospetti che la guerra contro i pirati venga anche usata per sperimentare l’uso di un intero arsenale di cosiddette armi non-letali recentemente sviluppate negli Stati Uniti, che includono i “sonic blasters” che anche a 500 metri possono provocare danni permanenti all’ udito. La Corea del Sud e’ rappresentata nelle acque somale da una flotta dedita alla pesca illegale del tonno, e ormai su ogni peschereccio c’e’ personale armato. E da dove provengano le navi che dispongono rifiuti tossici nelle acque somale tutti trovano conveniente non accertarlo, o meglio far finta di non sapere che succeda. Certo e’ che le coste delle Somalia sono diventate una parabola del mondo d’oggi.

La linea di demarcazione fra “pirati” e difensori della legge comincia a farsi confusa, e si puo’ capire come molti somali considerino la pirateria un modo per farsi pagare i danni subiti. I primi episodi di “pirateria” hanno avuto come protagonisti dei poveri pescatori che cercavano di impedire ai pescherecci stranieri di avvicinarsi alle loro coste, giustamente accusandoli di operare in acque riservate, e per ostacolare lo scarico di rifiuti tossici. Organizzazioni serie hanno calcolato che la pesca illegale “preleva” dalle acque somale un valore in pesce di almeno 300 milioni di dollari all’anno, mentre i pirati ogni anno riesco ad estorcere agli armatori neanche un decimo di questa somma. Quella che era incominciata come una protesta e’ indubbiamente diventata una gigantesca operazione criminale. Ma e’ evidente che di pirati ce ne sono da entrambe le parti.

Il caso piu’ emblematico e istruttivo e’ quello della motonave MV Faina, di proprietà’ di un armatore Ucraino, catturata dai pirati lo scorso 25 settembre. Il cargo include 33  modernissimi carri armati, e un vastissimo assortimento di 1,000 tonnellate di armi e munizioni, molte con “depleted uranium”, uranio spento, con un terrificante potenziale di inquinamento.

Dove stava andando questo carico? La prima comunicazione dei pirati, che chiedevano un riscatto di 100 milioni di dollari, diceva che erano armi destinate al governo del Sud Sudan. Il quale ha immediatamente negato la cosa. Ma la nave stava andando a Mombasa e il governo del Kenya e’ stato chiamato in causa. Dopo un lunghissimo e imbarazzante silenzio il portavoce del governo del Kenya disse che le armi erano in effetti destinate a questo paese. Ma i pirati hanno replicato faxando una documentazione ineccepibile che dimostra che le armi erano dirette in Sud Sudan. In Kenya si sono levate voci, anche in Parlamento, a denunciare l’illogicità’ della cosa, era chiaro che il Kenya cercava solo di togliere dall’ imbarazzo il Sud Sudan e gli altri paesi conniventi, dopo essersi prestato ad un’ operazione di traffico d’armi proibita dalle convenzioni internazionali. L’ imbarazzo diplomatico e’ stato enorme e non si e’ trovata una via d’ uscita. Il governo del Sud Sudan e’vincolato dal trattato di pace firmato quattro anni fa a non riarmasi.. Comunque si voglia guardare alla cosa e’ evidente che i finanziatori di questa operazione non sono i soliti terroristi di Al Qaeda, o estremisti islamici, o potentati arabi. I governi che non hanno potuto dimostrare di essere estranei – Sud Sudan e Kenya – sono, da quando esistono, alleati di Gran Bretagna, Europa e Stati Uniti. Questi ultimi sono stati la forza che ha spinto il movimento di liberazione del Sud Sudan a firmare il trattato di pace e a costituire un governo semiautonomo. Inoltre per usare le armi del tipo presente sulla MV FAINA l’ esercito Sud Sudanese ha bisogno di istruttori. La conclusione non puo’ essere che una: il Sud Sudan si sta riarmando fino ai denti, perche’ non crede nella possibilita’ che nel 2011 si effettui il referendum che permetta ai suoi cittadini di scegliere se restare uniti a Khartoum o diventare uno stato completamente autonomo, come previsto dal trattato di pace. E questo riarmo avviene con la connivenza delle potenze che hanno fatto firmare lo stesso trattato, che proibisce il riarmo.

Naturalmente a Khartoum non e’ parso vero il vedersi offrire su di un piatto d’argento la prova delle del riarmo del Sud, e non perde occasione di ricordare al mondo l’esistenza della MV FAINA. Invece tutta o quasi la stampa internazionale sembra aderire al tacito ordine di ignorare il fatto. La MV FAINA, una costosissima bomba inquinante, e’ cosi da ben oltre tre mesi nelle mani dei pirati, guardata a vista da navi da guerra statunitensi e europee, ma nessuno ne parla. Come si risolvera’ il caso? Pagare il riscatto equivarrebbe ad un’ammissione di colpa. Il governo del Kenya, che ha già ben altri problemi non accettera’ più che venga scaricata a Mombasa. E allora? Mi diceva un cinico anziano giornalista esperto di cose internazionali. “Lasceranno passare del tempo fino a che l’ opinione pubblica se ne sara’ dimenticata, poi magari col pretesto di un’ azione dei pirati la bombarderanno cosi che se ne vada in fondo al mare insieme al suo imbarazzate cargo, ai pirati e alla verita. Poi tutti verseranno lacrime di coccodrillo sull’ inquinamneto causato dai pirati”.

Imparare o Rifiutare

Cosa s’ impara visitando l’ Africa? Niente, se si visita solo l’Africa dei grandi alberghi in riva al mare o dei parchi naturali. Molto se si cerca di condividere anche per pochi giorni la vita della gente, soprattutto dei piu’ poveri, se si visita Kibera e ci si siede con la gente a mangiare un piatto di chapati e sukuma wiki seduti su sgabelli inventati intorno ad un tavolino traballante .

La cosa piu’ importante che s’ impara e’, a mio parere, che le condizioni materiali di vita possono essere superate dalla forza e dalla grandezza dello spirito umano. In situazioni di degrado materiale che potrebbero cancellare ogni senso di dignita’, in posti come Kibera dove l’ immondizia, il fango, l’ odore nauseabondo del putridume vorrebbero umiliare la persona che e’ costretta a viverci in mezzo, si incontrano invece anche persone che ti stupiscono per la loro forza interiore, per come guardano positivamente alla vita, per l’ amore e la tenerezza che traspare dai loro sguardi e dai loro gesti.

E’ il trionfo delle spirito umano, e la prova piu’ evidente che in tutte le persone c’e’ una scintilla di divino che non si spegne mai.

A chi una volta mi ha chiesto “ma come puoi credere che Dio esista di fronte a questa miseria e sofferenza?” mi e’ venuto spontaneo di ritorcere “va’ incontro a queste persone che vivono nella spazzatura, parla con loro, e crederai non solo nell’esistenza di Dio, ma addirittura nella Sua attiva, amorosa presenza. Tu ti lasci accecare dalla miseria perche’ ti sei abituato a vedere e apprezzare solo le cose materiali. Il riconoscere qui la presenza dello Spirito di Dio non e’ una scusa per esonerarci dalla condivisione, ma uno stimolo ulteriore per impegnarci al loro fianco nel superare insieme la miseria e le ingiustizie.”

Guarire un’ Economia Malata

L’ ultimo libro di Muhammad Yunus, UN MONDO SENZA POVERTÀ’, uscito in Italia lo scorso aprile, e’ lettura importante. Yunus, del Bangladesh, e’ un economista ed e’ diventato famoso per aver fondato la Grameen Bank, o banca di villaggio, che ha ispirato nel mondo intero migliaia e migliaia di progetti di microcredito. Nel 2006 gli e’ stato assegnato il premio Nobel per la pace.

Non e’ il libro di un economista che usa linguaggio da iniziati e note a pie’ di pagina. E’ il racconto di un’ esperienza, e forse, piu’ in profondita’, della sua convinzione che bisogna costruire un’ economia che valorizzi tutti gli aspetti della natura umana. La ricerca della pienezza di vita, o della felicita’ come si dice nella costituzione degli Stati Uniti, non puo’ essere ridotta alla massimizzazione del profitto ad ogni costo.

Scrive Yunus:  “La teoria economica convenzionale, per ricoprire il ruolo di guida dell’ impresa, ha escogitato quell’ essere umano a una dimensione che e’ l’ imprenditore. Lo ha isolato dal resto della vita, separandolo dalla sfera religiosa, da quella delle emozioni, da quella politica e da quella sociale, cosi che non gli resti che occuparsi di una sola cosa, la massimizzazione del profitto. In questo si fara’ aiutare da altri uomini ad una dimensione che gli procureranno il denaro necessario. Per citare Oscar Wilde, si tratta di gente che conosce il prezzo di tutte le cose, ma il valore di nessuna.
…Il mondo moderno e’ cosi ipnotizzato dal successo
del capitalismo che nessuno osa mettere n dubbio la teoria che sta dietro a quel sistema…. In realta’ le cose sono molto diverse.  Le persone non sono entita’ a una sola dimensione, ma esseri sorprendentemente multidimensionali. Emozioni, convinzioni, priorita’, schemi di comportamento formano un pluralita’ che richiama i milioni di sfumature cromatiche che si possono costruire a partire dai tre colori fondamentali”.

Un citazione cosi breve ovviamente non rende giustizia al libro di Yunus che e’ ricchissimo di esempi e di esperienza. E’ cosi concreto da poter essere un manuale per chi si interessa di superamento della poverta’. La sua proposta di impresa sociale e’ la conclusione di un ragionameto ma soprattutto di un’esperienza convincente

Straordinariamente interessante il capitolo in cui racconta passo passo come ha lavorato insieme alla multinazionale Danone per produrre, facendo un profitto che viene reinvestito nel sociale, uno yogurt nutriente, con ingredienti locali, a basso prezzo, di ottimo gusto, ben distribuito e pubblicizzato, che possa aiutare i bambini del sua paese a crescere meglio.

Sembra la realizzazione di un sogno che hanno i tanti che onestamente fanno proposte per superare la poverta’. Lo yogurt ha problemi di conservazione che Yunus ha brillantemente superato potendo contare su attivita’ che gia’ aveva avviato, ma sarebbe bello poter avviare in Kenya o in Zambia un fabbrica di biscotti proteici, gustosi, a basso prezzo, che possano essere venduti con profitto e che rappresentino un supplemento nutrizionale importante per i  bambini. In una fabbrica che usi ingredienti locali e lavoro locale. Ci sono gia’? Si e’ vero, ci sono, e forse anche a basso prezzo, ma sono venduti su un mercato particolare, che e’ quello dell’intervento umanitario, confezionati in pacchi da 15 kg simili quelli del sapone, e sembra che si faccia di tutto per non renderli appetibili ai bambini. E’ un settore di mercato che non interessa a chi vuole fare il massimo profitto, ma che sarebbe interessantissimo per un’ impresa sociale che, facendo profitto, metterebbe sul mercato un prodotto di grandissima utilita’ sociale. Invece gli scaffali dei supermercati di Nairobi e anche delle baracchette di Kibera sono pieni di sofisticati biscotti importati, costosi, magari infarciti di creme tossiche, piu’ ricche di additivi chimici che altro.

Yunus e’ musulmano, ma questa e’ una cosa che non viene mai sottolineata quando lo si presenta. Non so se sia musulmano praticante ma certamente il suo approccio alla societa’ e’ anche profondamente religioso e afferma con la sua esperienza di vita cose che sono molto vicine alla dottrina sociale della Chiesa, al concetto di bene comune, alle proposte di una nuova economia che alcune organizzazioni religiose stanno portando avanti. Ha l’autorevolezza che gli viene da ormai trent’anni di successo della Grameen Bank e di altre decine di iniziative che ha portato avanti in questo tempo. Non gioca a fare il profeta, non lancia anatemi, non prende posizioni preconcette. Sta coi piedi in terra, e anche se negli ultimi capitoli si concede il lusso di sognare, lo fa sempre mentre sta costruendo alternative concrete al dominio del profitto ad ogni costo.

Ho terminato la lettura mentre nel mondo si scatenava il terremoto della finanza, con epicentri negli Stati Uniti e a Londra. Una bella lezione. Chissa’ se l’ abbiamo capita. Leggere Yunus dopo questo fatto puo’ essere una ottima guida per capire meglio come si potrebbe costruire un’ economia piu’ umana.

I Need the Others

In the early months of this year, young people I knew and had previously taught the basic principles of Christianity were going around in Riruta, brandishing slashers and chanting hate slogans against certain people they perceived as belonging to a different community. It was unfortunately a common sight in Nairobi, especially in the poorer neighbourhoods, where an irresponsible and vicious campaign against “them” found fertile ground in the widespread lack of hope for a better future, and sometimes outright desperation. A very legitimate aspiration and request for social justice had been manipulated and turned into hatred for the “others”.

Now, normality seems to be back. Dozens of meetings, celebrations and festivals have been held around the theme of peace, headlined with such slogans as “Youth for Peace” and “Nyama Choma for Peace”. Yet today, we cannot pretend: there are too many desperate young people who are still ready to return to the streets, to loot, to kill and be killed, as long as they find somebody to incite them or promise a reward. They are culprits and victims – both at the same time – of a society where law and order are too often allied with injustice and corruption, and we are scared of the evil forces they have inside them. We know that given the chance, the same demons could be unleashed again. We are even more afraid because we are fully aware that the same negative forces are also present within each one of us. This is obviously not simply a Kenyan issue, it is a human issue. We have seen foreign workers being targeted in South Africa, while in Europe, especially in Italy, public opinion has been manipulated into seeing the foreign immigrants as the root cause of all problems of insecurity and crime.

We are all susceptible to manipulation, especially in cases where the “others” are depicted as a threat to “me”, “my identity” and “my possessions”. The “others”, we are told, want “my home”, “my land”, and “my women”. They want to crush my very “self”, taking from me the values that give consistency and certainty to “my life”.

We are all very sensitive to this kind of talk, and vulnerable because it touches us at the deepest, innermost self, and can elicit an instinctive, unreasoned reaction.

This is the basic “clash of civilizations” that we face today: either we choose to close ourselves into our personal, tribal, cultural, national or religious identities, rejectin interreaction with the others, or we make a conscious effort to open up to new ways of reciprocal acceptance, tolerance  and collaboration. It is a choice between a civilization of exclusion or a vision of inclusion, based on all that is common to human beings.

Kenya has more than its fair share of bigots and fanatics, but the proof that this is a universal problem is in the fact that the two opposite visions have been clearly summarized by two European intellectuals, both French. They looked at their own society a few decades back, and while  Jean-Paul Sartre in his play No Exit wrote the famous line “L’enfer, c’est les autres”, or “Hell is other people”, the theologian Michel de Certeau wrote: “The other is the one without whom living is no life”.

There is no need for me to say that I agree with de Certeau. My Christian faith teaches me what I have been trying to teach to the youngsters of Riruta, “Love your neighbor as you love yourself,” and in the Sermon of the Mount, Jesus tells me that a positive, loving relationship with the “others” is the only path to reach and see God. How could I ever live without the “others” and the “Other”?

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