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Life

Sudan: Ancora restrizioni contro i cristiani

Molti segnali fanno pensare che in Sudan siamo solo agli inizi di un piano di repressione contro tutte le chiese cristiane.

Il ministro sudanese Al-Fatih Taj Al Sir ha annunciato a Khartoum il 19 aprile, durante un discorso al parlamento, che non saranno più dati permessi per la costruzione di chiese, affermando che le chiese esistenti sono più che sufficienti per i fedeli, anzi, che molte chiese risultano essere abbandonate. Ha comunque garantito che la libertà di religione sarà rispettata.

Già agli inizi del 2012 agenti di sicurezza avevano perquisito la biblioteca della Chiesa Evangelica Presbiteriana del Sudan, che era stata fondata nel centro della capitale sudanese oltre cento anni fa, per “controllare il contenuto dei libri”. Poi in aprile dello stesso anno una folla violenta era entrata nei locali di una chiesa presbiteriana a Khartoum, bruciando le Bibbie e saccheggiando tutto. In giugno, sempre a Khartoum, due bulldozer mandati dal ministero delle pianificazione avevano distrutto due costruzioni appartenenti alla chiesa episcopale, dicendo che i fedeli non avevano nessun diritto di occupare quel terreno.

Il Consiglio Mondiale delle Chiese di Ginevra ha denunciato che molti orfanotrofi e alcune scuole affiliate alle chiese cristiane sono stati chiusi nel 2012.

Dallo scorso dicembre che segnali di repressione contro le chiese cristiane si sono intensificati, dopo che HUDO (Human Rights and Development Organization) aveva denunciato che i cristiani nuba erano sistematicamente fatti oggetto di discriminazioni da parte delle autorità locali in South Kordofan (l’area conosciuta anche come Monti Nuba) e delle autorità governative di Khartoum, e pochi giorni prima di Natale una chiesa in un sobborgo di Khartoum era stata demolita.

Il 20 dicembre due preti della chiesa Copta Ortodossa erano stati arrestati per aver preparato la conversione al cristianesimo di una donna musulmana.

Il 12 aprile il segretario generale della conferenza episcopale, padre Santino Morokomomo Maurino, di nazionalità sud-sudanese, è stato espulso, quasi contemporaneamente alla chiusura di un istituto cattolico, il Catholic Language Institute of Khartoum (CLIK) che operava dal 1986 per l’insegnamento dell’arabo ai missionari, ma che negli ultimi anni era frequentato soprattutto da studenti laici. Immediatamente dopo sono stati espulsi anche i due missionari che gestivano il CLICK, il francese padre Michel Fleury e l’egiziano Fratel Hossam, entrambi della congregazione dei Fratelli de la Salle, la cui attività, si dice, era da tempo monitorata dai servizi segreti. In questo caso erano state fonti vicine alla chiesa cattolica a rassicurare la stampa che “l’espulsione di padre Maurino e dei due missionari lassaliani che gestivano il centro linguistico per conto della conferenza episcopale è il risultato di errori amministrativi (cioè la conferenza episcopale non aveva richiesto l’autorizzazione per la frequenza di laici) e non intende cambiare le relazioni esistenti fra la Chiesa Cattolica e il governo”.

Le autorità ecclesiastiche non vogliono esacerbare gli animi, ma ormai è chiaro con l’ultima dichiarazione ministeriale che è in corso un vero e proprio un cambiamento della politica del governo sudanese nei confronti dei cristiani.

Sin da quando si era capito, nel 2011, che il Sud Sudan avrebbe scelto per l’indipendenza, il governo di Khartoum aveva minacciato l’introduzione della legge islamica, la sharia, nel nord, che in conseguenza della divisione del paese sarebbe diventato a netta prevalenza islamica.

Le azioni di questi ultimi mesi potrebbero essere la preparazione al mancato rinnovo dei permessi di residenza a missionari, per arrivare di fatto ad una espulsione “dolce” di tutto il personale straniero. Se i cristiani diminuiscono, se le chiese sono vuote, logica vuole che i missionari siano inutili, e che quindi il governo sia giustificato nel non rinnovare i permessi .

La realtà è un po diversa. Dall’ovest (Darfur) all’est (Southern Blue Nile) passando per i Monti Nuba e perfino per la periferia di Khartoum, la simpatia e il supporto per le chiese cristiane è in netta crescita. In alcuni casi, come sui Monti Nuba, le conversioni al cristianesimo sono in considerevole aumento, e il governo di Khartoum vede con enorme preoccupazione questo fenomeno: le aree più ostili alle sue politiche diventano progressivamente più cristiane. La decisione di intensificare la repressione e di muoversi verso leggi di tipo saudita rischia solo di far crescere le tensioni.

Ritorno al Villaggio

“Da Majimoto sono partita nel 1985, avevo 18 anni, e sono andata a vivere a Nairobi, nel quartiere di Kawangware. La vita non è stata quella che ho sognato. Ho avuto tre figli, poi il mio uomo è morto. Già eravamo poveri e vivere è diventato ancor più difficile. Son tornata qui nel 2000, credendo di potermi re-inserire. Ma non c’era speranza, e son tornata a Nairobi. I miei figli hanno imparato a vivere fuori casa… Li vedevo sempre più raramente. Ora sono felice di essere qui, due dei miei figli hanno imparato la strada per tornare a casa, forse loro riusciranno a fare quel ritorno che per me non è stato possibile.”

Majimoto è un villaggio nel nord della Tanzania, vicino al parco del Serengeti. Da Nairobi ci vogliono oltre una decina d’ore d’auto. Sette per arrivare al confine, attraversando successivamente il fondo della Rift Valley, i campi di grano di Narok, le piantagioni di te di Sotik e Kisii, e poi le piantagioni di canna da zucchero di Migori. Un paesaggio verdissimo, di grandi colline, che si apre su ampi orizzonti. Poi, dopo il confine a Isebania, due ore di paesaggio sempre più aperto, fin quasi a Musoma, sul lago Vittoria, e infine due ore di imprevedibile strada sterrata.

In questo ritorno al villaggio, con Boche (“miele” in lingua locale), la salute minata da una vita difficile, sono venuti anche due dei suoi figli, P., 20 anni, all’ultimo anno di scuola superiore, e W., 18 anni, secondo anno di scuola superiore. C’erano anche John, operatore sociale di Koinonia, e un amico italiano. Sono stati P. e W. a volere questo viaggio, per riconnettersi alle loro origini. Il ricordo del padre si è perso nelle nebbie della prima infanzia, e non hanno mai conosciuto la sua famiglia. Se per tutti è importante avere delle radici, lo è ancora di più in Africa, dove essere parte di un villaggio, di un clan, di un popolo è indispensabile per poter dire di esistere.

P. e W. sono stati recuperati della strada nel 2006, dagli operatori sociali di Koinonia. Sono entrambi timidi, riservati, di poche parole. Portano sempre il peso del loro passato. Al villaggio della mamma erano già tornati una volta, quattro anni fa, usando mezzi pubblici. Adesso al villaggio hanno ritrovato quattordici zii e un numero incalcolabile di cugini, dato che alcuni zii hanno diverse mogli. La loro guida per cercare di capire i complicati legami familiari è stato lo zio più giovane, diciannovenne, sposato da pochi mesi. La nonna, una donna coi capelli bianchi ma ancora forte, li ha abbracciati quasi piangendo “Temevo non vi avrei più visto”.

Il salto culturale fra Nairobi e Majimoto, dove non ci sono acqua potabile e corrente elettrica e dove nei giorni di pioggia, come in questa stagione, non si può’ far altro che restare nelle capanne a chiacchierare, è stato grande. I due fratelli sono sentiti accolti, amati. Gli zii hanno entusiasticamente assicurato che quando torneranno per stabilirsi definitivamente al villaggio, verrà’ loro assegnato un grande appezzamento dove potranno stabilirsi con mogli – nella nostra tradizione, hanno precisato, se ne possono avere fino a otto – e figli. P. ha notato come ci sia un grande rispetto delle persone. Un mattino, andando insieme ad uno zio a visitare i suoi campi, hanno trovato dei ragazzi di un villaggio vicino che stavano mangiando dei frutti. “A Nairobi li avrebbero ammazzati di botte” dice P., qui invece lo zio ha solo rimproverato i ragazzi, e poi ha spiegato ai due fratelli che se una persona ha fame ha diritto di mangiare tutto quello che trova, a patto che non porti via niente. Mangiare sul posto non è rubare.

Tuttavia alcuni aspetti che si ricordavano vagamente dalla visita precedente e che magari hanno studiato sui libri di scuola, nella vita reale si dono dimostrati difficile da interiorizzare. Il giorno dell’arrivo, W., mentre parlava con alcuni dei cugini della sua eta, è svenuto, cadendo a terra, rigido come un tronco, lui che è un bravissimo acrobata.

Non credo che P. e W. torneranno mai a vivere stabilmente a Majimoto. Eppure sono sinceri quando dicono che adesso che conoscono bene la strada ci torneranno più spesso, e quando si saranno sistemati a Nairobi, con una moglie e due o tre figli, precisano, cercheranno di introdurre dei miglioramenti nella vita del villaggio della loro mamma.

Nel viaggio di ritorno ho ricordato ai due fratelli ciò che mi ha insegnato un missionario che ha evangelizzato un’intera provincia del Sud Sudan nella prima meta del secolo scorso: quando sei di fronte a situazioni nuove e difficili, parla poco, non giudicare neanche in cuor tuo, ascolta molto, cerca di capire perché ci sono sempre delle ragioni anche per i comportamenti apparentemente più strani. Ringrazia Dio quando la gente accetta di condividere con te la sua vita. Accontentati di essere presente, e di amare.

Immaginare la pace a Nairobi

Da oggi i miei post di interesse generale sono pubblicati anche nel sito di The Post Internazionale, a http://www.thepostinternazionale.it/. Se vai a visitarlo fai crescere le mie azioni!

La sera a Kivuli, la prima casa per ex-bambini di strada che abbiamo aperto a Riruta, estrema periferia di Nairobi, quando è possibile ceno con alcuni dei ragazzini. La mia cucina è piccola e stasera ne ho invitati solo sette degli oltre cinquanta che formano la grande famiglia di Kivuli. Sono tutti fra gli otto e i dodici anni, a parte Niko, ed hanno vissuto insieme in strada a Kibera, il più grande slum di Nairobi. Da qualche mese hanno formato un coro che domani si esibirà in una parrocchia, presentando un loro DVD di canzoni che ha come tema la pace.

Gli altri hanno già finito, si sono lavati le mani e adesso stanno sparecchiando e lavando le stoviglie. Simon, invece, sta ancora gustando gli ultimi bocconi di ugali, la polenta keniana, con uno spezzatino di carne e verdure. Qualche anno fa la fame lo spinse a rubare qualcosa da una bancarella e fu quasi ammazzato di botte. Se la cavò con l’avambraccio destro rotto, i suoi amici glielo fasciarono con bende e stecche di legno, cosi l’osso si è saldato male, e anche la mano è parzialmente anchilosata. Ecco perché Simon ha un po di difficoltà a mangiare usando la mano destra, come la buona educazione vorrebbe.

«Domani canterete anche Amka Kenya, la vostra canzone più bella, in cui esortate la gente a rinascere nella pace. Siete capaci di spiegarmi cos’è la pace?», li provoco. Restano un po perplessi, a parte Andrew che sta per parlare, ma lo fermo e suggerisco che ci pensino bene aspettando che Simon finisca. Ci penso anch’io. Non è facile definire la pace. Da quando papa Paolo VI ha istituito la Giornata mondiale della pace, oltre quarant’anni fa, ogni anno il papa fa una riflessione sul tema. Ma una definizione di pace resta irraggiungibile, tante sono le componenti che entrano in gioco. Effettivamente, come questi bambini hanno intuito, solo la musica e la poesia sono adatte a farci assaporare la pace.

Quando siamo pronti, il tavolo della cucina sgombro e pulito, tutti seduti e pronti ad ascoltarci reciprocamente, ripeto la domanda. Il primo a lanciarsi è di nuovo Andrew, con l’audacia dei suoi 9 anni: «La pace è quando ci vogliamo tutti bene». Certo, concordano tutti; ma c’è anche qualche critica: la spiegazione è troppo vaga, cosa vuol dire che “ci vogliamo tutti bene”? Dopo altre risposte evasive, Twaha propone: «La pace è come quando ci sediamo insieme a mangiare e condividiamo il cibo. Tutti mangiano a sufficienza, senza litigare». Poi, guardando Simon, aggiunge: «Anche se qualcuno è più lento, bisogna rispettarlo».

Intervengo e sottolineo che hanno raggiunto un punto importante: la pace c’è solo se c’è giustizia, e una giustizia vera, che tenga conto delle necessità e dei limiti di tutti. Il cibo condiviso e sufficiente per tutti è poi un grande segno di giustizia, e di amore. Gesù non ha forse sfamato le folle? Ci mettono un po’ a elaborare il passaggio dal loro linguaggio concreto all’idea astratta di giustizia, ma si vede nei loro occhi che lo stanno facendo. Poi Niko, l’unico che arriva ai quindici anni, aggiunge: «Quando diciamo amore dobbiamo fare qualcosa per dimostralo, altrimenti è solo una parola». Riprendo io, evidenziando ancora la verità di quanto hanno detto: «La pace e la giustizia non possono essere solo un sentimento: devono diventare visibili nei gesti e nelle cose». Approvano. Hanno capito. Dovranno fare ancora il passaggio dal loro piccolo mondo alla grande società, ma sono certo che non dimenticheranno il nostro dialogo; i loro occhi, infatti, erano troppo attenti. Qualche altro breve commento, mentre si alzano per raggiungere gli altri che stanno già giocando in cortile, lo prova.

Mentre scendono la scala uno poi due poi tre intonano Amka Kenya. Dal cortile si uniscono prima quelli che stanno facendo esercitazioni di giocoleria, quindi anche quelli che giocano a pallone e gli spettatori. Canto e pace nel cuore della violenza di Nairobi.

Papa Francesco

In piedi, dritto, quasi sull’attenti di fronte al suo popolo. Le parole semplici. La richiesta di preghiere e la recita insieme al popolo delle preghiere che tutti conoscono. Poi inchinato, che implora “per favore” la benedizione di tutti. Sempre, sul volto segnato dall’età, un’espressione e uno sguardo sereni, da ragazzo che guarda in avanti con speranza, in pace con tutti e pronto a fare il suo dovere.

Il vescovo di Roma, la Chiesa che presiede nella carità tutte le Chiese, mi ha fatto sentire la gioia di essere nella comunione di una Chiesa che ha straordinarie riserve di innovazione e di giovinezza. Francesco è un giovane, perché la fede nutre la speranza e la carità, e mantiene per sempre giovani. Le sue prime parole oggi, alla sua prima uscita dal Vaticano, sono state di misericordia, perdono, speranza. Sono certo che darà a tutti uno slancio nuovo, aprirà nuove strade e nuovi orizzonti. Veramente la fede giovane del Sud del mondo diventa, con Francesco, visibile capo della Chiesa di Roma.

Vogliono a tutti i costi trovargli difetti, silenzi colpevoli, alleanze sporche. Certamente non sarà perfetto, e avrà delle colpe anche se non gravi come quelle che vogliono attribuirgli. La grandezza di una persona non sta nell’essere perfetto, perché perfetto è solo il Padre che è nei cieli, sta piuttosto nella disponibilità a rinascere sempre, nello spirito, come Gesù spiega a Nicodemo.

Francesco è il tipo di papa che posso immaginare venga a Nairobi e si metta a parlare con le donne in fila per l’acqua alla fontana di Kivuli, o a camminare per le strade di Kibera ascoltando partecipe e divertito le storie dei bambini di strada.

Una Chiesa Povera e Fraterna – A Poor and Fraternal Church

Nel 1965, negli ultimi giorni del Concilio Vaticano II, prima di tornare alle loro diocesi, un quarantina di padri conciliari in maggioranza latino-americani, concelebrarono l’Eucaristia nelle catacombe di Domitilla, a Roma. Poi si impegnarono a costruire una Chiesa “serva e povera”, come aveva suggerito papa Giovanni XXIII, cioè a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. Firmarono un testo, l’originale era in portoghese, probabilmente scritto da Dom Helder Camara, arcivescovo di Olinda e Recife in Brasile, dopo giornate di consultazioni con gli altri aderenti. La versione italiana che circola sul web ha qualche sbavatura, ma la semplicità, chiarezza e concretezza restano dirompenti.

Leggendolo ci si domanda inevitabilmente: perché quei vescovi non sono riusciti a contagiare tutti i fedeli e gli altri vescovi con il loro sogno di una chiesa povera e fraterna? Sono forse stati ostacolati nella realizzazione dei loro programmi? Dopo di loro, le loro diocesi sono state governate da vescovi nominati perché ritornassero sulle vecchie strade? Perché, dopo quella visione di quasi cinquant’anni fa, ci ritroviamo con tanti scandali legati alla mala gestione del potere ecclesiastico?

Se le dimissioni di Papa Benedetto ridonano al papa una dimensione umana, l’impegno di quei quaranta vescovi voleva reinserire con più evidenza la chiesa tutta nella storia umana.

E’ bello oggi, mentre i cardinali entrano in conclave, rileggere questo testo. Ci fa respirare vangelo e speranza. Ci rassicura. Ci conferma che la Chiesa non sono solo quei 115 elettori. Che l’amore e il servizio che la chiesa donano al mondo non sono solo nei loro cuori e nelle loro mani. Che ciò che noi tutti poveri cristiani facciamo ogni giorno è per lo meno altrettanto importante di quanto fa un cardinale, e che nella chiesa la gerarchia non è costruita sul potere e sui titoli onorifici, ma sulla santità.

Ci sono tante persone, in ogni condizione di vita, che portano avanti il sogno di quei vescovi. Illusi? No, profeti di un mondo ancora in gestazione.

Ecco il testo di quello che è stato chiamato “Il Patto delle Catacombe”
.
Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro Signore Gesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti della nostre rispettive diocesi; ponendoci col pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli della nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue:
Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. Cfr. Mt 5,3; 6,33s; 8,20.

– Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). Cf. Mc 6,9; Mt 10,9s; At 3,6. Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. Cf. Mt 6,19-21; Lc 12,33s.

– Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli. Cf. Mt 10,8; At. 6,1-7.

Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre. Cf. Mt 20,25-28; 23,6-11; Jo 13,12-15.

Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). Cf. Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19.

Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. Cf. Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4.

Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. Cf. Lc 4,18s; Mc 6,4; Mt 11,4s; At 18,3s; 20,33-35; 1 Cor 4,12 e 9,1-27.

Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. Cf. Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33s.

Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. Cf. At. 2,44s; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e 9 interi; 1Tim 5, 16.

Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo: – a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;

A richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.

Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così: – ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro; – formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo; – cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…; – saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. Cf. Mc 8,34s; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10.

Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.

Aiutaci Dio ad essere fedeli.


Dom Helder Camara.

Elezioni in Kenya: Vincitori, Perdenti e Scomode Complicità

Uhuru Kenyatta, 51 anni, figlio del primo presidente del Kenya, e il suo socio William Ruto hanno vinto le elezioni che si sono svolte in Kenya il lunedì 4 marzo. Il 26 marzo entreranno ufficialmente in carica, rispettivamente come presidente e vicepresidente.

Per tentare di capire il significato di questa vittoria bisogna richiamare alcuni fatti. A fine dicembre 2007, vigente un’altra costituzione, correvano per la presidenza Mwai Kibaki, sostenuto fra gli altri da Uhuru Kenyatta, e Raila Odinga, con William Ruto come braccio destro. Ci furono molti brogli da entrambe le parti (come ebbero modo di appurare in seguito commissioni nazionali e internazionali). Alla fine, per una manciata di voti, prevalse Kibaki, che aveva già guidato il Kenya nei cinque anni precedenti e che aveva, quindi, il vantaggio di occupare già la residenza presidenziale. Raila protestò, parlò di elezioni rubate, e immediatamente si scatenarono due mesi di violenze, che provocarono, secondo le stime più credibili, almeno mille e cinquecento morti e trecentomila sfollati, la maggioranza dei quali contadini kikuyu costretti ad abbandonare le terre della Rift Valley. Molti degli sfollati non sono stati mai risarciti e non hanno potuto rientrare nelle loro case.

Un altro punto focale delle violenze fu Kibera, il più grande slum di Nairobi, dove Koinonia aveva appena aperto un centro di prima accoglienza per bambini di strada. Ricordo le telefonate notturne di Jack, l’educatore, rimasto il solo adulto con una quindicina di bambini: «Padre, stanno sparando vicino a casa. Cosa faccio? Forse domani sarebbe meglio spostare i bambini in un’altra casa».

Gli scontri avvennero solo fra poveri, per il controllo delle terre e in nome dell’appartenenza etnica. I quartieri ricchi di Nairobi, le proprietà terriere e le aziende agricole appartenenti all’élite politica di entrambe le parti non ne furono minimamente toccate.

La posizione geopolitica del Kenya fece sì che la “comunità internazionale” intervenisse con sollecitudine. L’economia di Sudan, Uganda, Rwanda e Burundi che dipendono dal porto di Mombasa per tutte le loro importazioni, carburante incluso, stavano per crollare. La comunità internazionale convinse – in particolare gli americani usarono tutti i loro mezzi di “convinzione” – le due parti a formare un governo di coalizione, creando per Raila il posto di primo ministro.

Nei mesi successivi nella grande coalizione si crearono nuove alleanze e nacquero nuovi partiti. Nell’agosto del 2010 veniva approvata con un referendum popolare la nuova costituzione, sul modello americano, con un presidente e vicepresidente; la carica di primo ministro veniva abolita. Intanto si affermava, localmente e internazionalmente, la volontà di punire i responsabili delle violenze post-elettorali del 2007, per assicurarsi che fatti simili non si sarebbero più ripetuti, e farla finita con l’impunità di cui avevano goduto tutti i potenti kenyani sin dall’indipendenza. Si ripeteva inoltre all’infinito che si doveva affrontare il problema della terra, o della ridistribuzione delle terre, che è alla radice di tutti i conflitti in Kenya, e inestricabilmente legato all’identità tribale.
Ma ogni tentativo di investigare i crimini in Kenya fallì, e così, sotto la spinta dell’opinione pubblica, intervenne la Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja. La Corte incriminò inizialmente sei persone, tre di ogni campo, indicate come i maggiori responsabili delle violenze. In seguito però, le accuse contro due di loro non furono confermate. Dei quattro rimasti, che tra poche settimane dovrebbero presentarsi all’Aja, i più importanti per la posizione che detenevano al momento dei fatti sono appunto Uhuru Kenyatta e William Ruto. Che nel frattempo, da acerrimi nemici che erano sono diventati alleati, e rispettivamente presidente e vice-presidente…

La procedura seguita dalla Cpi non è esente da critiche ed è stata certamente influenzata da criteri politici. Come mai prima tre e tre accusati, e poi due e due? Forse un tentativo di equilibrismo per non aumentare l’animosità e dare l’impressione d’imparzialità. È una sfida al buon senso pensare che Uhuru e Ruto siano responsabili di crimini contro l’umanità e che i loro capi, Kibaki e Raila, non ne sapessero niente. E questo sopratutto nel caso di Raila, che ha la reputazione di controllare il suo partito nei minimi dettagli e dove non c’è promozione o rimozione, anche ai livelli più bassi, senza il suo accordo. I fatti e la logica avrebbero voluto che i primi accusati fossero Kibaki e Raila. Tutti in Kenya immaginano che Ruto abbia documenti che provano il coinvolgimento di Raila nel programmare le violenze di cinque anni fa, e che sarebbe pronto a svelarli se la sua posizione dovesse peggiorare. A maggior ragione potrebbe farlo ora, che Raila ha perso ogni carica istituzionale. Insomma, i quattro personaggi sono irrimediabilmente legati da scomode complicità.

Nel frattempo, in cinque anni, nulla di sostanziale è stato fatto per risolvere le questioni della terra e della crescente “negative etnicity” – termine politically correct inventato per evitare di parlare di “tribalismo”. Non è stato neppure completamente risolto il dramma degli sfollati, considerati quasi …fastidiosi testimoni piuttosto che vittime di una situazione non creata da loro. Il tribalismo è cresciuto in maniera esponenziale: più ci si sente minacciati dalle rivendicazioni degli altri, più ci si chiude nella propria comunità etnica. È un processo che ho visto crescere negli ultimi 20 anni, da quando il presidente Moi ha cominciato a mettere kalenjin contro kikuyu per controllare il crescente potere economico e politico di questi ultimi. Conosco molte persone ragionevoli che non erano tribaliste, ma che lo sono diventate o che comunque oggi hanno votato secondo linee tribali.

Mi diceva un professore di filosofia con esperienza di insegnamento anche in università estere: «Come posso votare per un presidente luo che cinque anni fa ha scatenato la caccia alla mia gente nella città che lui controllava con le sue squadracce?». D’altro canto Otieno, un ragazzo di Kibera, protesta: «Qui siamo in maggioranza luo ma viviamo in una città controllata da avidi kikuyu». Sono affermazioni che vent’anni fa non si sentivano. Gli stereotipi si consolidino in generalizzazioni tanto ingiuste quanto inoppugnabili per chi le pronuncia.

Purtroppo la geografia del voto e la matematica confermano. Il calcolo e’ semplice; Uhuru e Ruto rappresentano i due gruppi etnici che in termini di numeri sono il primo (kikuyu) e il terzo (kalenjin). Raila (luo) e il suo socio Kalonzo Musyoka (kamba) rappresentano il quarto e il quinto gruppo etnico, e si erano assicurati una certa forza sulla costa, presentandosi come difensori dei diritti della comunità musulmana. I luhya, numericamente secondo gruppo etnico, non avevano un rappresentante forte e i loro voti sono andati dispersi. Gli altri sei candidati venivano percepiti come troppo deboli e senza possibilità di vittoria. È un’analisi brutalmente tribale, ma difficile provare il contrario.

E adesso?

Raila ha dichiarato che impugnerà i risultati, ma difficilmente troverà sostegno. Gli osservatori internazionali hanno dichiarato che le elezioni sono state libere e giuste, e nessuno vuol vedere il Kenya diventare instabile e magari precipitare nel caos. Il fragile processo di pacificazione in Somalia, la ricostruzione nazionale in Sud Sudan, le tensioni in Uganda, Rwanda, Burundi, la parte orientale della Rd Congo, mancando il perno di un Kenya stabile, potrebbero esplodere e precipitare tutta l’Africa orientale nel caos.

Per le stesse ragioni la comunità internazionale sarà molto cauta nel sostenere i processi in corso alla Cpi dell’Aja. USA, Gran Bretagna e Francia, che avevano fatto sapere che avrebbero limitato all’essenziale i contatti con Kenyatta in caso di sua vittoria alle presidenziali, adesso dovranno trovare il modo di addolcire la loro posizione. Non solo il Kenya è un alleato fondamentale nelle guerra contro il terrorismo di Al-Qaeda – come ha dimostrato vincendo contro Al-Shabaab in Somalia – ma compagnie multinazionali hanno investito pesantemente in Kenya nei settori bancari, delle costruzioni, turismo, agricoltura, sicurezza, telecomunicazioni, informatica.

Certo, Raila non si darà facilmente per vinto, perché l’alternativa è sparire completamente dalla scena politica ed economica del Kenya. La costituzione, infatti, prevede che una persona può candidarsi a una sola carica. Se perde, in questo caso la presidenza, non gli resta altro che aspettare un’altra opportunità, ma fra cinque anni. A meno che Kenyatta, per tenerlo buono, decida di dargli un ministero.

Kivuli (Nairobi), 4 marzo 2013. La gente è stata in coda per ore e ore per poter votare.

Le Parole e i Fatti

In questi giorni le corrispondenze dal Vaticano e le opinioni di teologi, come pure di tanti cristiani che semplicemente sono partecipi della vita della chiesa, sottolineano i problemi, le difficoltà, le “sfide” che il nuovo papa dovrà affrontare. Non mancano i suggerimenti, se non addirittura proposte di soluzione.

L’editorialista di un autorevole settimanale cattolico inglese pochi giorni fa suggeriva ai leader della chiesa europea, che affogano in un mare di documenti mentre perdono contatto con i fedeli, di guardare all’Africa, in particolare ai pronunciamenti dei vescovi africani, e di trarre ispirazioni di concretezza da un documento pubblicato un mese fa dal SECAM (Symposium of the Episcopal Conferences of Africa and Madagascar) intitolato “Governance, bene comune e transizione democratica in Africa”. Per dar forza al suo argomento l’autore ne cita diversi paragrafi e li applica all’Europa. Ovviamente è anche un implicito invito a cercare il nuovo papa fra i cardinali africani, nell’ingenua assunzione che i pastori africani siano più vicini alla gente.

Mi spiace deludere, ma per quanto riguarda l’irrilevanza dei pronunciamenti ufficiali dei vescovi e delle conferenze episcopali, il fenomeno tocca, eccome, anche la chiesa africana. Il citato documento del SECAM è un’ottima sintesi della dottrina sociale della chiesa con delle indicazioni su come applicarla oggi in Africa. Ma chi lo leggerà? Soprattutto, chi ne metterà in pratica le indicazioni? Esiste da tempo una bella collezione dei testi dei vescovi africani sui problemi sociali. Se un centesimo delle indicazioni, esortazioni, propositi, auspici contenuti in quei documenti fossero stati messi in pratica, anche solo all’interno delle strutture ecclesiastiche, l’Africa e la chiesa africana sarebbero molto diverse! Esporre un principio o proporre un nuovo approccio pastorale in un documento è una cosa, metterlo in pratica è un’altra. I fedeli non leggono documenti, guardano alla vita, e troppo spesso sentono tante belle parole, e vedono pochi fatti. Cosi le parole diventano irrilevanti.
Naturalmente se parliamo dei documenti vaticani è ancora peggio. Sono pressoché sconosciuti. Quanti, in Africa, anche fra i fedeli più attenti, anche fra i preti, hanno letto Africae munus, il documento papale promulgato dopo la conclusione del Sinodo Africano del 2009? Quanti saprebbero indicarne almeno le idee portanti?

Più aumentano le parole e più cresce lo scollamento fra parole e realtà. È sempre più imbarazzante per il prete o il catechista, che vive davvero a contatto con la gente, proporre idee che non diventano vita. Scorrendo il documento del SECAM con qualche amico africano, leggevamo insieme sottotitoli come “Il flagello della corruzione”, “Le condizioni per una transizione pacifica e democratica”, “L’importanza della società civile”. La domanda che veniva immediatamente alle labbra di tutti era: «Ma nella mia diocesi come si affrontano queste sfide, all’interno e all’esterno della chiesa?». Domanda inevitabile, perché oggi le informazioni, fortunatamente, circolano con grande facilita, i cristiani conoscono bene come viene gestita la loro chiesa, anche a livello locale, e non si può pensare di dare lezioni quando non si è credibili.

La chiesa africana ha il grande potenziale di un laicato disposto a giocarsi sul Vangelo. È un laicato maturo, che non pretende di avere dei pastori perfetti, è capace di accettarne le debolezze e di perdonarli, ma avrebbe bisogno di pastori che camminano insieme al gregge. La chiesa africana, come la chiesa tutta, deve urgentemente ristabilire la propria credibilità pastorale. La coerenza fra parole e fatti è importante, e può essere garantita meglio se ci fosse un coinvolgimento dei laici ai pronunciamenti ufficiali. Non è solo il problema della pedofilia che la inficia, ma più alla radice la mancata partecipazione dei laici alla vita della chiesa.

Il decreto Christus Dominus sull’Ufficio pastorale dei vescovi del Vaticano II, quasi cinquant’anni fa ormai, proponeva di istituire consigli pastorali parrocchiali e diocesani. Nell’Africa di oggi, dove questi consigli esistono, sono quasi sempre solo una formalità, un’altra occasione per vescovi e parroci di catechizzare i laici, dando per scontato che vengano approvate decisioni che sono state già prese a livelli “più alti”. Recentemente un anziano vice-presidente di un consiglio diocesano, rispettato e autorevole giudice in pensione, mi diceva: «Non possiamo neanche permetterci di dare un parere al nostro vescovo, il quale viene al consiglio diocesano con le decisioni scritte su un foglietto. Il segretario ascolta, le digita su un computer – siamo moderni! – le stampa e noi le firmiamo. Fine del consiglio». Troppi chierici hanno semplicemente deciso che i laici non sono e non diventeranno mai adulti maturi. Non sono affidabili. Non possono gestire le finanze della parrocchia. Tanto meno possono dare un parere su una questione etica…

Non si tratta quindi solo di fare dichiarazioni più coraggiose, e magari anche in un linguaggio più comprensibile. Bisogna promuovere la partecipazione di tutti i membri del popolo di Dio, se non vogliamo che i leader si ritrovino a scrivere documenti che saranno i soli a leggere.

Kenya: La Gente Vuole Pace

La scorsa domenica all’Uhuru Park, il grande “Parco della Libertà’” al centro di Nairobi e tradizionalmente luogo di tutti i grandi eventi della vita nazionale del Kenya, c’è stata un grande momento di preghiera, al termine di tre giorni e tre notti di un incontro che ha visto migliaia, decine di migliaia, di persone invadere il grande prato verde. Il popolarissimo Dr. David Owuor, o meglio Profeta Owuor, come ama farsi chiamare il fondatore della Repentance and Holiness Church (Chiesa della Penitenza e Santità), ha celebrato un servizio penitenziale alla presenza di quasi tutti i candidati alle elezioni presidenziali, che si terranno il prossimo 4 marzo. Fra gli uomini politici importanti mancava solo Musalia Mudawadi.

Gli elettori keniani saranno chiamati a scegliere non solo il Presidente e Vicepresidente – che corrono in coppia, sul modello americano – ma anche tutti i senatori, i parlamentari, i governatori delle 47 nuove counties o provincie, e i consiglieri per le stesse provincie. E’ un fatto nuovo, perché queste saranno le prime elezioni tenute per mettere in pratica i dettati della nuova costituzione, approvata con un referendum nell’agosto del 2010, che prevede un radicale cambiamento delle strutture di governo. Il senato, e il potere dato alla provincie con la figura del governatore sono una novità assoluta e queste elezioni avrebbero potuto promuovere un completo rinnovamento della classe politica. Invece non solo gli uomini politici più navigati hanno mantenuto un saldo controllo dei principali partiti, ma anche lo spettro della violenza che ha devastato il paese dopo le elezioni di cinque anni fa, è riapparso con forza negli ultimi mesi. Secondo un rapporto di Human Rights Watch intitolato “High Stakes: Political Violence and the 2013 Elections in Kenya,” (La posta in gioco: Violenza Politica e le Elezioni del 2013 in Kenya) nel 2012 e nelle prime settimane di quest’anno gli scontri inter-etnici in Kenya hanno causato più di 477 morti e 118,000 sfollati. Molti di questi incidenti sono legati a manovre pre-elettorali e sono stati pilotati da politici locali in cerca di voti.

L’evento all’Uhuru Park è stato più che altro un modo per cercare di esorcizzare questo spettro. I fatti ci diranno se il “Profeta Owuor” ha avuto successo, certo lui ha usato tutti i mezzi che la tradizione evangelico-pentecostale gli offriva, compresi i continui coreografati “alleluia”, le braccia alzate, lo sventolare di fazzoletti bianchi, i pianti e le manifestazioni di pentimento fra i partecipanti. Sul finale, mentre il profeta proclamava che “da oggi la pace regnerà in Kenya e Dio si prenderà cura delle vedove e degli orfani” qualcuno ha opportunamente portato sul palco un bambino di dieci anni, che secondo le affermazioni della madre sarebbe nato cieco e avrebbe acquistato la vista al passaggio del profeta. “E’ il simbolo del nuovo Kenya” ha gridato trionfante Owuor, nell’entusiasmo generale, mentre il bambino, ripreso in primo piano dagli operatori televisivi presenti, non sembrava affatto sorpreso di aver improvvisamente acquistato la vista, ma era evidentemente felice per la grande bottiglia di aranciata che gli è stata subito offerta, e se la teneva ben stretta al petto.

Gli uomini politici presenti durante il rito finale, inclusi i rappresentanti dei due principali partiti, Raila Odinga da un lato e Uhuru Kenyatta e William Ruto dall’altro, hanno partecipato in modo composto, lasciandosi andare solo ad uno spropositato uso della parola “fratello”, a sorrisi, strette di mano e di abbracci. Infine hanno solennemente promesso di mantenere la pace, chiunque vinca. Tutti in Kenya sperano che queste promesse non svaniscano come purtroppo svaniscono spesso le emozioni, le conversioni e le guarigioni che avvengono nel corso di queste grandi predicazioni. Tra l’altro gli scettici non possono dimenticare che Kenyatta e Ruto, rivali acerrimi cinque anni fa, sono accusati di crimini contro l’umanità alla corte penale internazionale dell’Aja.

Pochi giorni prima alcune chiese cristiane e la televisione governativa avevano organizzato un dibattito pubblico con i canditati presidenziali su temi considerati di rilevanza per le chiese cristiane, come l’aborto e il matrimonio omosessuale. Raila e Kenyatta non vi avevano partecipato, e il dibattito non ha avuto nessuna rilevanza pubblica. E’ un altro segno che le chiese cristiane più tradizionali, chiesa cattolica inclusa, stanno attraversando in Kenya un periodo di grande perdita di credibilità e autorevolezza. Non tanto a causa degli scandali di varia natura che hanno devastato le chiese negli ultimi anni, ma perché troppi pastori, preti e vescovi sono stati percepiti come persone di parte, quando addirittura non legati a una visione tribalista della società keniana. Sia prima delle elezioni che durante le violenze del 2008.

Il “Profeta Owuor” ha evidenziato che in questi giorni prima delle elezioni che la pace e il superamento del tribalismo (o negative etnicity come si dice in linguaggio politically correct) sono aspirazioni profonde della maggioranza della gente.

Benedetto XVI e l’Africa

Ho letto tante cose molto belle sullo straordinario gesto di Papa Benedetto e mi è sembrato veramente inutile dire la mia. Poi gli amici di Famiglia Cristina mi hanno fatto una breve intervista al telefono e l’hanno pubblicata nel loro sito, non nel cartaceo. La trovate a

http://www.famigliacristiana.it/chiesa/dossier_2/dossier/e–l-ora-dell-africa/padre-kizito-la-chiesa-dafrica-attende-il-via.aspx

ma per vostra comodità la copio qui sotto.

Padre Kizito: «La Chiesa d’Africa attende il via»

«Questa Chiesa ha una grande ricchezza. Un laicato generoso, magari non pienamente formato, ma con enorme disponibilità a servire la chiesa e i fratelli». Padre Renato Kizito Sesana, da molti anni missionario a Lusaka e poi a Nairobi, sta parlando della Chiesa africana, quella che considera ormai la “sua” chiesa.

«Benedetto XVI», aggiunge, «ebbe un’espressione quanto mai felice quando la descrisse come il “polmone spirituale dell’umanità”. «Un potenziale, quello dei cristiani d’Africa, certamente non sfruttato al massimo, perché la spinta che aveva portato al primo Sinodo del 1994 si è poi fermata. La Chiesa africana negli ultimi 15 anni ha segnato il passo».

– Perché, padre Kizito?

«Per diverse ragioni, una delle quali è che – questo va detto – l’azione di papa Benedetto XVI è stata molto eurocentrica. Ma anche prima del suo pontificato: diciamo che, nel momento in cui il dibattito ricco ed effervescente è arrivato al suo culmine, col Sinodo del 1994, anziché decollare gli è stata messa la sordina.

– Un esempio?

«La questione dell’inculturazione, ossia la modalità con cui l’Africa incarna il messaggio evangelico, è un processo rimasto ancora tutto da realizzare. Se n’era discusso molto negli anni ‘70 e ‘80. Mentre la Chiesa latinoamerica parlava di Teologia della liberazione, quella africana parlava di inculturazione. Ad esempio, prima del 1994 si era arrivati all’approvazione del rito liturgico zairese per l’Eucarestia. Non ce ne sono stati altri, né per altre aree culturali e linguistiche, né per gli altri sacramenti. Un altro esempio è il lavoro pastorale delle piccole comunità cristiane, che doveva servire a rendere la chiesa vicina alla gente: a partire dai primi anni ’90 è stato dimenticato. Quel cammino si è bloccato, ora c’è bisogno di riprenderlo».

– Si è fermato per cause interne o esterne?

«La responsabilità non è della Chiesa africana. Se ci domandiamo perché, la risposta non è molto bella. Si è scelto negli ultimi decenni di porre alla guida delle diocesi più dei buoni amministratori che dei grandi pastori. Forse per non correre rischi. Il risultato è che oggi sembrano mancare i grandi vescovi, come pure i grandi teologi che avevano caratterizzato la “primavera” del cristianesimo africano degli anni ’70. Forse solo Peter Turkson può essere paragonato a quelle figure di allora: dei veri punti di riferimento che non ci sono più».

– Come può essere stato letto il gesto delle dimissioni del Papa nel Continente nero?

«Credo sia un segno importante, anzi un vero dono fatto alla Chiesa alla fine del suo pontificato: dopo essersi posto di fronte a Dio e alla sua coscienza, ha deciso di rompere una tradizione secolare con un gesto di libertà e che apre alla novità. Le parole di Benedetto XVI pronunciate in questi giorni “sulle divisioni che talvolta deturpano il volto della Chiesa” sono un messaggio forte anche a quella parte del clero africano troppo attento alla “carriera”, che ha portato molti a “stare buoni” in attesa di una promozione. Paolo VI, nel 1969, sollecità l’Africa ad avere “un cristianesimo africano”, a far penetrare fin nel più profondo della vita e della cultura il messaggio evangelico. Ecco, oggi c’è bisogno di chi sappia liberare le sue enormi energie».

– Alcuni vescovi hanno detto esplicitamente che forse è ora di guardare fuori dall’Europa per il prossimo Pontefice. Un africano?

«Questa è una Chiesa che fa fatica, nell’attuale momento storico. È inutile il ritornello del papa africano. Temo che, se oggi esprimesse un papa, sarebbe comunque ben poco africano».

Luciano Scalettari

Mogadiscio, la nuova frontiera

Kabiria Road è all’estrema periferia di Nairobi, oltre un chilometro di buche e dossi, e solo di tanto in tanto qualche metro di strada liscia. Un susseguirsi ininterrotto – e sempre in mutazione – di negozietti, bancarelle, donne che preparano frittelle, o chapati (il pane piatto di tipo indiano), o abbrustoliscono pannocchie di mais ai lati della strada. Ci sono macellerie con quarti di bue appesi a due metri dalle auto in movimento, polli in gabbia, capre legate ad un albero che cercano di mangiare tutto ciò che capita a tiro, anche i sacchetti di plastica vuoti, e dappertutto gente che compra, vende, passeggia e discute in mezzo alla strada e si sposta solo se minacci di investirli, barbieri all’aperto, posti di ristoro che offrono specialità locali come githeri (un straordinaria minestra di fagioli, chicchi di mais e patate), pensioni con due camere di lamiera e senza servizi ma con nomi altisonanti e fantasiosi come Regency Hotel Annex, o Mandela’s Hut o Mama Jane’s Villa. Il grande mondo modifica la vita di Kabiria non solo quando in televisione ci sono le partite del Manchester United e i negozianti per attirare clienti mettono una televisione accesa in vetrina, o arriva il politico candidato presidente alle ormai imminenti elezioni. La gente si muove, emigra in cerca di fortuna, e ritorna con racconti di terre lontane.

L’altro giorno vedo arrivare a Kivuli, dove Kabiria Road sta per esaurirsi nella campagna intorno a Nairobi, la mamma di un bambino che era in strada e che qualche mese fa ci è stato portato dalla polizia, pizzicato per aver tentato un furto di biscotti da una bancarella. La signora è tutta in ghingheri, strano per un giorno feriale. Non vorrei essere indiscreto e non le chiedo niente, ma dopo un po è lei che me ne spiega la ragione.”Sai, mio figlio maggiore, Caleb, quello che lavorava come magazziniere con uno stipendio da fame, che non gli bastava neanche per pagare l’affitto di una baracca e quindi viveva nella mia baracca con moglie e due figli, adesso è andato a lavorare a Mogadiscio come logistico per una ONG americana, e ha cominciato mandarmi qualche soldo ogni mese”.

La pace sta tornando in Somalia dopo venti anni di caos, e Mogadiscio è la nuova frontiera per i più intraprendenti lavoratori keniani di livello medio basso. Anni fa chi aveva delle competenze come meccanico, autista, logistico, operatore di computer, o anche semplicemente come affidabile guardiano ed era disposto a correre qualche rischio, cercava lavoro con le ONG che operavano con l’OLS (Operation Lifeline Sudan). Era una vita lontana da casa, segnata da sacrifici e incertezze, con tutti i rischi di una zona di guerra, ma si poteva prendere una salario cinque volte più alto che non in Kenya. Poi c’è stato il momento di Dubai e gli Emirati Arabi, dove cercavano mano d’opera a tutti i livelli ad anche personale con qualifiche superiori. Poi, con il trattato di pace fra Sudan e Sud Sudan, Juba la capitale del Sud, è stata per parecchi anni il nuovo punto di riferimento. Ma adesso l’OLS è chiusa da un pezzo, Dubai e gli Emirati Arabi sono pure vittime della crisi mondiale e la gente non ci va più volentieri per aver sentito raccontare troppe storie di discriminazione, a Juba i keniani erano diventati una presenza talmente ingombrante da provocare reazioni negative. Adesso, per chi è disposto a rischiare, Mogadiscio è il posto più vicino dove si può avere una buona paga senza affrontare le distanze e i rischi di un viaggio in Europa.

La città somala sta rinascendo dalle ceneri. Ovunque ci sono lavori di recupero e ristrutturazione degli edifici danneggiati dalla guerra – praticamente tutti – e se ne tirano su di nuovi. Non tutti gli esperti son convinti che questa fase di pace sia duratura, e che non sia semplicemente un momento di stallo della guerra civile in cui i contendenti stanno rafforzandosi e misurando le forzse degli altri, ma con le recenti avanzate della forza di pace panafricana AMISOM, con la sconfitta di Al Shabaab, la nuova costituzione e le elezioni la speranza che le pace possa durare è credibile.

La mamma di Caleb dice che suo figlio le racconta al telefono di centinaia e centinaia di lavoratori keniani impiegati a tutti i livelli nella ricostruzione della città. I rifugiati somali che ritornano in patria – per approfittare del momento economico favorevole ma anche perché sono stanchi dai continui controlli e pressioni del governo keniano che non perde occasione per far loro capire che ormai è tempo di tornare a casa – sono per lo più scaltri commercianti con pochissime competenze in altri settori. D’altro canto la lunga guerra ha causato la sparizione di tutte le competenze lavorative, e quindi subito dopo essere rientrati i somali chiedono ai loro ex-dipendenti keniani di raggiungerli, come autisti, contabili, operatori di computer, tecnici del telefono, muratori, capomastri, falegnami, cuochi nei ristoranti che stanno riaprendo vicino alle spiagge dove i pirati somali tornano a fare i pescatori.

Ormai, continua la mamma di Caleb, accarezzandosi con orgoglio il bel vestito dai colori sgargianti, sono almeno una trentina gli abitanti di Kabiria Road che si sono trasferiti a Mogadiscio: “Le paghe sono ottime. Pensa che mio figlio prende quasi 400 dollari americani al mese!”

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