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Life

Parliamo di Pace

La pubblicazione lo scorso 11 giungo del Global Peace Index (Gpi, indice globale di pace) è l’ultima autorevole constatazione che l’Africa sub-sahariana non ha più il primato delle guerre, del sottosviluppo e dell’instabilità politica. Ci vorranno molti anni perché questo cambiamento venga registrato dall’opinione pubblica internazionale, sopratutto in Italia dove le notizie sull’Africa sono cosi scarse ed approssimative, ma ormai è un fatto assodato. Di Gpi si parlerà il prossimo 26 giugno all’università Cattolica di Milano, con la partecipazione di oltre settanta studiosi di fama mondiale, alcuni dei quali sono stati fra gli iniziatori del Gpi, che viene ormai pubblicato annualmente dal 2007. Secondi i dati che saranno commentati a Milano, l’Africa sub-sahariana nel suo insieme ha un indice di pace più alto che non il Medio Oriente, il Nord Africa, l’ Asia meridionale, la Russia e l’Eurasia

E’ difficile misurare la pace. La pace ha dimensioni interiori, individuali e collettive, che sfuggono a misurazioni quantitative. Fra gli indici che il Gpi usa per misurare le pace c’è la percentuale di carcerati sulla popolazione totale. Un carcerato come lo è stato Nelson Mandela è un segno negativo o una grande speranza di pace per il futuro? Il cuore è in pace quando ci sono determinate condizioni esterne, o la pace nasce dal cuore? Veramente, la dimensione spirituale della pace sembra impossibile da catturare. Comunque l’uomo moderno vuole misurare tutto e ci prova anche con la pace. Lo sforzo è encomiabile. Per arrivare ai risultati della ricerca, l’Institute for Economics and Peace – un’istituzione nata in Australia, a Sidney, per iniziativa di Steve Killelea che sarà presente e Milano – esamina 158 paesi in base a 23 criteri fondamentali. Tali criteri comprendono la partecipazione a conflitti internazionali, il livello dei conflitti interni, di criminalità violenta, il numerico di carcerati, il rispetto dei diritti umani, le spese militari ecc.

In parte, il risultato positivo per l’Africa sub-sahariana commentano gli estensori del rapporto, riflette l’aumento della prosperità economica in tutta la regione, dove la crescita ha superato quello di ogni altra regione del mondo nel corso degli ultimi due anni, e, ironia della sorte, la tradizionale emarginazione dell’Africa dall’economia globale ha aiutato ad isolarla dall’impatto della crisi finanziaria globale.

Tuttavia “è chiaro che rischi possono sorgere dove c’è la percezione pubblica che i vantaggi di una rapida crescita economica nazionale non sono equamente condivisi. Per esempio, l’abbassamento in graduatoria del Burkina Faso è dovuto all’aumento della probabilità di manifestazioni violente, del numero di omicidi e di crimini violenti. La rabbia dell’opinione pubblica per l’alto costo dei vita e l’inadeguatezza dei servizi statali, nonostante forte crescita economica globale, ha già portato a un’ondata di violente proteste e scioperi, e il potenziale per ulteriori disordini rimane alto”.

“Frustrazione per l’ingiusta divisione dei profitti può anche portare a un aumento dei crimini violenti, o la percezione degli stessi, come emerge in Repubblica Centrafricana (CAR), Gambia, Mozambico, Niger, Tanzania e Togo.”

“Ciò che un certo numero di questi stati hanno pure in comune è l’aumento della longevità politica dei loro leader. Leader che sono al potere troppo a lungo sono spesso accompagnati da una marginalizzazione dei partiti di opposizione. Privata della possibilità di cambiare attraverso le urne, la popolazione cercherà il cambiamento con mezzi più violenti, come è stato nel caso del CAR”.

“Gli altri stati che hanno notevolmente contribuito alla posizione in classifica di questa regione dimostrano come i conflitti abbiano un impatto duraturo: La posizione della Costa d’Avorio nel 2013 è stata condizionata da un’ondata di violenze nella seconda metà del 2012, con una serie di attacchi nel sud del paese di cui il governo ha accusato le forze fedeli all’ex presidente, Laurent Gbagbo. La Repubblica Democratica del Congo continua ad essere colpita da un conflitto armato nelle province orientali del paese, che a sua volta è alimentato da un ampio spostamenti della popolazione che dura da decenni, come pure dalla una mancanza di controllo del governo centrale, dalla competizione per il controllo delle vaste risorse naturali della regione, e dalle tensioni tra le diverse comunità e gruppi etnici. La posizione in classifica del Sudan è il riflesso delle tensioni di lunga data che ha portato alla secessione del Sud Sudan nel luglio 2011. Questo non ha risolto i problemi nell’area confinante che il nuovo stato del Sud Sudan, mentre la Somalia non ha veramente recuperato sin dall’inizio del conflitto civile nei primi anni novanta.”

Che l’ingiusta divisone delle risorse e dei profitti, la concentrazione di potere politico in poche mani aumentino la possibilità di conflitto e che per superare conflitti lunghi e sanguinosi come quello del Congo ci voglia molto tempo non sono cose nuove, e qualche scettico potrebbe dubitare dell’utilità di simili ricerche e del Cpi. Ma la pace è cosi importante che non possiamo permetterci di non usare tutti gli strumenti possibili per capire come farla crescere.

Gesù? E’ in Danimarca.

Una sera a Nairobi, intorno al grande tavolo di Kivuli, c’erano alcuni dei nostri acrobati adulti e numerosi ospiti: si trattava di una ventina di persone, appartenenti ad un’associazione danese che propone attività circensi a scopi educativi. Dopo minestrone e frittata con contorno di sukuma wiki, ci stavamo scambiando esperienze e ricordi, quando i danesi ci hanno chiesto come avessimo cominciato. I keniani mi hanno delegato a rispondere e a raccontare come tutti si fossero aggregati ai Nafsi Africa, il nostro gruppo acrobatico “storico”, dopo che Hector ed io li avevamo spronati. Ma Hector ormai lavora a Dubai da tempo.

Nel 1998 avevo portato i primi bambini di Kivuli in un centro culturale, il Bomas of Kenya, ad assistere ad un’esibizione di cultura tradizionale keniana; in quell’occasione avevamo visto lo spettacolo di un gruppo acrobatico che li aveva incantati. Tornati a Kivuli, insistettero per settimane che li aiutassi ad imparare i rudimenti dell’arte acrobatica. Scatenai Hector, allora mio braccio destro a Kivuli, che alla fine non trovò altra soluzione che tornare al Bomas of Kenya e arruolare due acrobati, che venissero a Kivuli a dare lezioni di acrobatica due volte alla settimana, dietro piccolo compenso. Cosi i due istruttori, con le loro lezioni, diventarono un richiamo fisso per molti dei ragazzi di Kivuli e del circondario. Entrambi erano musulmani originari della costa e uno dei due aveva un nome assolutamente inusuale in Kenya. Tempo dopo, quando ormai i bambini di Kivuli avevano fatto notevoli progressi e si era stabilita una certa familiarità, mi permisi di chiedere al giovane la ragione del suo insolito nome. Egli allora mi raccontò, con la massima serietà, anzi direi compunzione, una di quelle storie che si sentono solo in Africa.

Quando nacqui, ero tutto coperto di peli. Mia mamma, disperata, consultò dottori, sceicchi, santoni, erboristi, perfino stregoni, ricevendo suggerimenti di soluzioni, le più diverse e più strane: da preghiere che dovevano essere recitate quotidianamente a creme preparate con bizzarri ingredienti, da applicare sulla pelle del neonato. Ma i peli resistevano ad ogni trattamento. Dopo qualche mese la mamma, che mi teneva sempre avvolto in un panno, vergognandosi di quel figlio che somigliava troppo ad una scimmietta, mi portò a Mtwapa, da un anziano con fama di santone e guaritore, percorrendo quasi cinquanta chilometri a piedi, perché i soldi per l’autobus non li aveva. Il vecchio le disse che la medicina era molto semplice e non costava niente: chiama tuo figlio Jesus e vedrai che i peli, prima della prossima luna nuova, saranno tutti caduti. Jesus, all’inglese, non Issa, che è il nome di Gesù in arabo. Ogni volta che la mamma mi chiamava con quel nome, i peli diminuivano, finché sparirono del tutto.

Cosi fu che quello che sarebbe diventato il nostro bravo e simpatico istruttore musulmano perse tutti i peli. Nel 1999, Jesus e il suo collega Nelson ebbero un’offerta di lavoro a Londra, l’accettarono, prepararono i ragazzi di Kivuli alla loro prima esibizione pubblica a Nairobi sotto la supervisione di Hector, se ne andarono e da allora non li abbiamo piu visti. Ma i Nafsi Africa erano nati ed oggi i Piccoli Acrobati di Koinonia continuano la tradizione.

Mentre raccontavo, vedevo che i nostri ospiti danesi sgranavano gli occhi increduli e si facevano sempre più attenti, inducendomi a pensare che questo atteggiamento fosse dovuto alla stranezza della storia di Jesus. Si, quella era una ragione, ma ce n’era un’altra ancor più incredibile: Jesus era stato anche il loro istruttore di acrobatica! A quel punto sono stati loro a raccontarci che Jesus aveva detto di essere originario della costa del Kenya, di aver lavorato per qualche anno a Londra, con occasionali tournée in nord Europa, e di aver deciso di fermarsi in Danimarca, mettendo su una scuola di acrobatica. A loro però non aveva mai raccontato né la storia dei primi mesi della sua vita né dell’origine del suo nome e neanche dell’attività a Kivuli.

Cosi, molto africanamente il Koinonia Children Team e i Nafsi Africa hanno scoperto di avere un antenato in comune con il Circo Sociale di Alborg, e sono diventati ancor più amici.

L’ultima generazione del Koinonia Children Team al lavoro.

Una normale settimana per i Nuba

Ormai da due anni sui Monti Nuba è tornata la normalità della guerra. Il conflitto armato fra ribelli nuba che affermano il proprio diritto all’autodeterminazione, iniziato nel 1983, sospeso dal cessate il fuoco del 2002, congelato con l’accordo di pace fra Nord e Sud Sudan del 2005, è ripreso nel giungo del 2011, poco prima che il Sud Sudan proclamasse la propria indipendenza. Da allora i Monti Nuba, rimasti intrappolati nel Sudan, ma rispetto agli anni precedenti con il grosso vantaggio di un lungo confine col Sud Sudan, sono di nuovo teatro di scontri. Il territorio è in mano allo SPLA-N (Esercito di liberazione del popolo sudanese- N), confluiti con i ribelli del Darfur e del Southern Blu Nile, nel SRF (Sudan Revolutionary Front, o Fronte rivoluzionario sudanese) mentre il governo di Khartoum mantiene la supremazia aerea bombardando campi e villaggi per provocare fame e la fuga delle popolazione verso il Sud.
Si calcola che ormai del circa un milione e mezzo di nuba residenti nella zona, trecentomila siano rifugiati in Sud Sudan e altri quattrocentomila siano IDP (Internally Displaced People – sfollati – , nel gergo delle agenzie umanitarie) nel loro stesso paese. Molti di loro vivono nascosti nelle grotte sulle montagne e scendono a valle solo per coltivare i campi, sempre pronti a rifugiarsi nelle buche che hanno scavato come protezione contro i bombardamenti. Una situazione ben descritta dal documentario RAI di Enzo Nucci, Silenzio sugli Innocenti, andato in onda lo scorso settembre.
Le notizie filtrano dai Monti Nuba con grande difficoltà. Quella che segue è un’arida cronaca di bombardamenti e sofferenze che si sono succeduti in una settimana come le altre.

Il 20 maggio 2013 alle 11.15 due caccia Sukhoi del Sudan Air Force (SAF) – la forza aerea sudanese – hanno sganciato una bomba sulla città di Buram. Alle 17.20 un Antonov della SAF ha sganciato altre 5 bombe su Buram. Non sono segnalati morti o feriti.

il 21 maggio 2013 alle 11.10 un Antonov (SAF) ha sganciato 4 bombe sulla città di Buram e 2 bombe sul villaggio di Tabanya. Non sono segnalati morti o feriti. In totale, nella settimana in questione, sono state sganciate 21 bombe nella zona di Buram.

Il 22 maggio 2013 alle 11.00 due caccia Sukhoi (SAF) hanno sganciato due bombe sul villaggio di Ngorbang. Le bombe sono cadute nei campi vicini, mentre i contadini stavano seminando, ma nessuno è rimasto ferito.

Il 23 maggio 2013 alle 9.30 un Antonov (SAF) ha sganciato 5 bombe sul villaggio di Jebel Kuwa ferendo leggermente due donne che sono state portate in una vicina postazione medica per essere curate.

Il 24 maggio 2013 alle 17.00 un aereo militare sudanese ha sganciato 9 bombe appena fuori dal villaggio di Kudi. Le bombe hanno colpito due case e mandato schegge di roccia nell’aria. Una scheggia ha colpito una bambina di un anno, uccidendola sul colpo. Altre schegge hanno ferito cinque bambini nascosti nello stesso rifugio antiaereo. Nell’attacco sono rimasti feriti sette civili adulti.

Il 25 maggio 2013 alle 10.00 un Antonov (SAF) ha sganciato 3 bombe sul villaggio di Abu Hashim. Non sono segnalati morti o feriti.

Il 27 maggio le forze armate sudanesi hanno ripreso il controllo di Abu Kershola, a seguito del ritiro dalla città delle forza del SRF, che avevano preso il controllo della città lo scorso 27 aprile. Gli scontri ad Abu Kershola e villaggi circostanti hanno provocato 63.000 rifugiati, o sfollati interni (IDP Internally Displaced People, nel gergo delle agenzie umanitarie), come annunciato dall’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari (OCHA).
Save the Children Svezia ha rimesso in funzione quattro pompe a mano per fornire acqua a circa 2.000 persone nella zona di Dibeakir. Lo stesso gruppo ha anche migliorato le infrastrutture idriche a El Rahad (Nord Kordofan), dove ci sono più di 18.000 sfollati da Abu Kershola.
I ribelli SRF dopo la loro partenza dalla zona orientale del Sud Kordofan hanno fatto sapere che intendono effettuare altri attacchi nei prossimi giorni, accrescendo i timori che il conflitto in corso si estenda al resto del Nord Kordofan, alla città di Kosti e nella regione del Nilo Blu.
«La situazione della sicurezza nella zona di Abu Kershola è ancora fragile», afferma una valutazione effettuata dalla Mezzaluna Rossa sudanese. Tuttavia, circa 27.000 persone potrebbero tornare nella zona di Abu Kershola e hanno bisogno urgente di assistenza umanitaria.

Non ci sono giornalisti professionisti in tutta l’area Nuba, vasta quasi un terzo dell’Italia. C’è, che io sappia, un solo collegamento internet per via satellitare, mobile e sempre accuratamente camuffato. I tre ragazzi che lo gestiscono sono tutti ex-allievi delle scuole che Koinonia ha tenuto aperte fra i nuba fino a poco tempo fa. Uno di loro ieri, via Facebook (!) mi ha scritto: “Padre, prega per noi. Il Signore ti guidi sulla strada per tornare tra noi, e nutra il tuo cuore con la Sua pace”.

Sembrano solo fagotti abbandonati. Sono donne e bambini nuba fuggiti dalla battaglia di Abu Kershola.

Soluzioni Africane a Problemi Africani

Tristemente, le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dell’Unione africana (Ua), all’insegna del “Rinascimento africano”, si sono trasformate in una vetrina del peggio della politica del continente.

L’Organizzazione dell’Unità Africana (Oua) ha la sua origine nella lotta per la decolonizzazione e prese forma definitiva ad Addis Abeba nel 1963. Dal 2002, dopo un forte intervento diplomatico e anche monetario di Gheddafi, è diventata Unione africana (Ua).

Per le celebrazioni, lo scorso fine settimana, erano presenti i leader di 54 paesi. Fra di loro il presidenti del Sudan Omar El-Bashir e del Kenya Uhuru Kenyatta, il primo condannato e il secondo indiziato dalla Corte penale internazionale (Cpi) per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. C’era una serie di altri personaggi poco appetibili, come Robert Mugabe, presidente dello Zimbabwe da oltre tren’anni al potere, e il presidente del Rwanda Paul Kagame, accusato dalle Nazioni Unite di aver sostenuto le attività criminali dei ribelli del M23 nella vicina Repubblica democratica del Congo. Le celebrazioni, con circa 15.000 ospiti, si sono tenute nella nuova grandiosa sede dell’Ua, che domina la capitale etiopica, costruita dal governo cinese al costo di duecento milioni di dollari.

In assemblea generale, il ministro degli esteri ugandese, Sam Kuteesa, ha presentato una mozione perché la Cpi chiuda i casi contro il presidente e il vicepresidente del Kenya, William Ruto, affermando che le accuse sono basate su falsità. Lo stesso presidente ugandese, Yoweri Museveni, ha chiesto garanzie affinché il presidente Kenyatta non sia umiliato quando si recherà all’Aia per l’apertura del suo processo prevista per il 9 luglio, affermando di essere a conoscenza che la Cpi ha programmato di arrestare Kenyatta quando giungerà all’Aia. Mentre Museveni fa queste denunce, in Uganda è in corso una feroce repressione contro l’opposizione che accusa il presidente, al potere ormai da quasi trent’anni, di manovrare per farsi succedere dal figlio, Muhoozi Kainerugaba.

Sull’onda della retorica del rispetto delle sovranità nazionali dei paesi africani, il presidente dello Zambia, Michael Sata, ha chiesto che siano i kenyani a risolvere i loro problemi, dicendo «Dov’era l’Aia, quando l’Africa lottava per la propria indipendenza? Se un presidente del Kenya o dello Zambia è colpevole, devono essere i popoli del Kenya o dello Zambia a giudicarlo, non l’Aia!». Dimenticando che, a suo tempo, fu proprio il popolo kenyano a chiedere che i responsabili della violenza post-elettorale fossero giudicati dalla Cpi, avendo poca fiducia nella giustizia locale.

Infine, il primo ministro etiopico Hailemariam Desalegn ha accusato la Corte penale internazionale di “discriminazione razziale” affermando che al momento della sua creazione lo scopo della Cpi era quello di evitare ogni forma d’impunità, ma che ora quelle buone intenzioni sono degenerate: «Il 99% degli imputati all’Aia sono africani, e questo è sufficiente a dimostrare che qualcosa non va», ha affermato.

Inevitabilmente, i commentatori politici hanno fatto notare che i problemi dell’Africa sono ben più seri dei problemi personali e di potere di alcuni presidenti e che i presidenti africani invece di proteggersi, dovrebbero mantenere l’impegno, assunto nell’ambito di un sistema volontario di “peer review”, di garantire che le rispettive amministrazioni aderiscano a principi democratici e di buona governance.

“Soluzioni africane a problemi africani” è il mantra continuamente ripetuto dai membri della elefantiaca burocrazia dell’Ua, ma i problemi risolti sono proprio pochini. L’Ua appare piuttosto all’opinione pubblica del continente, là dove una società civile esiste, la migliore illustrazione del proverbio che dice:«Non si finisce mai di mangiare la carne di un elefante».

Afro-pessimismo? No, non serve. Come non serve un pregiudiziale afro-ottimismo. C’è bisogno di afro-realismo, bisogna guardare cioè ai tanti, tantissimi africani che non sono stati invitati alle celebrazioni del cinquantesimo e che lavorano duramente ogni giorno per crescere e per far rispettare i propri e altrui diritti.

Cosi Gado, famosissimo vignettista keniano, vede l’Unione Africana.

La Violenza degli Altri

«Non pensi che quanto sta succedendo nel Sahel, dal Mali al Sudan, passando per il Niger, nord della Nigeria, il Ciad e persino fino alla Repubblica Centrafricana, cioè già in piena Africa Nera, sia parte di un grande disegno islamista?» Chi mi pone la domanda è un confratello che segue con interesse e competenza gli sviluppi sociali e religiosi di quest’area, dove ha passato buona parte delle sua vita, tanto che parla discretamente l’arabo. Gli devo però rispondere, sapendo di deluderlo:«No, non lo penso».
Non possiamo chiudere gli occhi di fronte alle grandi forze che agitano il mondo islamico. Può essere che in questo mondo islamico ci siano persone o organizzazioni che vorrebbero emulare Osama bin Laden. Credo, tuttavia, che se anche questo fosse vero, il focalizzarci su di loro, l’evidenziare il terrorismo più brutale, non ci aiuti a capire cosa sta veramente succedendo.
I disagio è diffuso e le situazioni sono diverse. Generalizzare non serve. Senza dubbio in tutta l’area ci sono delle influenze reciproche, e senza dubbio molta dell’instabilità attuale si è scatenata dopo la caduta di Gheddafi in Libia. Mi sembra però improbabile pensare che qualcuno abbia organizzato e guidato il tutto come un disegno globale. Se c’è un disegno globale, questo si è innestato sul disagio e la rabbia locale, senza la quale non avrebbe avuto agganci. È importante conoscere la situazione locale, i dettagli, la storia. Il Mali non è la Repubblica Centrafricana ed entrambi sono diversissimi dal Ciad. Certo, è più difficile applicarsi a capire i tanti focolai esistenti e le loro possibili connessioni che non identificare un colpevole globale e cercare di colpirlo a morte. Ma così torniamo alla vecchia storia del capro espiatorio. Abbiamo visto con Osama bin Laden che non funziona. Eliminato lui, la “guerra contro il terrorismo” non è stata vinta; è rinata in altre forme, come nella rabbia esplosa in Svezia, come nei recenti terribili, disumani attacchi terroristici di Boston e di Londra. Quando si nega l’umanità degli altri, ci si rifiuta di ascoltare le loro ragioni – anche quelle che sono sbagliate – non c’è da meravigliarsi se chi si sente negato e impotente reagisce con violenza cieca e irragionevole. Così il terrorismo diffuso, senza organizzazioni e senza capi, diventa praticamente impossibile da prevenire.
Commentando un rapporto pubblicato un paio di settimane fa, Kofi Annan, ex segretario generale delle Nazioni Unite, super-moderato diplomatico di carriera, ha affermato che l’evasione fiscale, lo sfruttamento minerario incontrollato e l’esportazione clandestina di capitali stanno privando l’Africa dei benefici che potrebbero derivare dal boom dei prezzi delle materie prime. Queste operazioni costano all’Africa ben 38 miliardi di dollari l’anno. Annan ha aggiunto: «L’Africa, attraverso questi canali, ogni anno perde il doppio dei fondi che riceve dai donatori… È come rubare il cibo dalla tavola dei poveri!”. C’è da meravigliarsi se alcuni pensano che la spogliazione dell’Africa e le guerre nelle nazioni islamiche siano frutto di un grande disegno di predominio cristiano, visto che identificano, purtroppo, e sbagliando, i ricchi con i cristiani?
Nel Sahel i poveri si fanno la guerra fra di loro, sono attirati da ideologie di tutti i tipi (anche di matrice cristiana, a volte) perché non capiscono cosa sta succedendo, si percepiscono come vittime, impoveriti, disorientati, spaventati, dominati dall’esterno da forze troppo potenti. I predicatori di odio, i Boko Haram, i Seleka, i Fratelli Musulmani… hanno gioco facile a proporre soluzioni alle quali probabilmente essi stessi non credono ma che rispondono a un loro immediato interesse di potere.
Nessuno vuole giustificare la azioni contro i cristiani che stanno avvenendo in un’ampia fascia del Sahel. Ma il metodico, cronico furto delle risorse africane eseguito in modo anonimo e globale, come denunciato da Annan, è certamente una della principali cause della rabbia diffusa contro l’Occidente.
Non serve ripetere all’infinito che l’ispirazione del terrorismo non è nell’Islam, come ha fatto il premier inglese David Cameron. Suona troppo ipocrita, specialmente se queste affermazioni non vengono accompagnate da un serio impegno a capire le ragioni degli altri, e il loro senso di impotenza.
A livello personale, a Londra abbiamo visto cosa si potrebbe fare. Quell’uomo pazzo di odio, con le mani sporche di sangue, è stato fermato da una donna. Una donna sola. Una madre, pronta a sacrificarsi per salvare i figli degli altri e che, con istinto materno – come ha detto in un’intervista – ha visto in quel “terrorista” solo un ragazzo confuso, e ha cominciato a parlargli. Restare umani, avvicinarci agli altri come persone umane. Non è arrendersi. È la forza più grande: restare umani anche di fronte a chi umano non è più. È capire le dinamiche dell’odio per superarlo e vincerlo.
Tradurre in politica un simile approccio non è facile, ma bisogna provarci.

Social Circus Project

Katharina Gruener e Luca Sartor, della fondazione UCI, durante il mese di aprile hanno tenuto a Tone la Maji tre settimane di workshop di circo sociale, in continuità con l’esperienza iniziata lo scorso dicembre. Erano previsti un massimo di 30 ragazzi e ragazze, divisi in due gruppi, ma Katharina e Luca si sono dovuti far carico di oltre 40 partecipanti…
Aspettando un loro commento, speriamo benevolo, ecco qualchefoto.



Rinascere a dodici anni

Cronaca con video (di Matteo Osanna) di una sera a Ngong, per dare addio alla vita di strada.

Un gruppo di oltre venti ragazzini, vestiti di stracci, puzzolenti, alcuni già intontiti dai fumi della colla, altri invece con l’alito che odora di benzina, come lo scarico di un motore ingolfato. Un gruppo di bambini lanciati verso l’autodistruzione. Ne ho conosciuti tanti cosi, e nessuno è arrivato ai trent’anni. Questi li ho incontrati una sera del mese scorso, a Ngong, la cittadina ai piedi delle omonime famose colline dove Karen Blixen ha vissuto e ambientato il suo romanzo “out of Africa”, alla periferia di Nairobi. Piovigginava e la notte si annunciava fredda, ma di notti in strada quei bambini ne avevano già passate tante.

Quella sera era diversa perché c’era con loro un adulto, buon pastore. Jack, educatore di Koinonia, dopo averli inseguiti e fattiseli amici per mesi, li aveva radunati con una proposta: lasciate la vita di strada, venite con me e John, l’altro educatore, a Ndugu Ndogo. Vi daremo da mangiare ogni giorno, vi manderemo a scuola, potrete ripartire con una vita dignitosa, insieme, continuando ad aiutarvi come avete fatto per sopravvivere in strada. Noi vi accompagneremo, ma sarete voi a camminare.

In sè, la proposta non era poi cosi attraente. Quei bambini amano la libertà della vita di strada, la mancanza di disciplina, la possibilità di decidere ogni giorno cosa fare. Poi magari ogni tanto dopo aver racimolato qualche soldo, si concedono il lusso di ordinare un piatto di githeri (patate, chicchi di mais e fagioli bolliti insieme e insaporiti con erbe aromatiche) ad una delle donne che cucinano all’aperto, e si sdraino su un rato, al sole, immaginando che ci sia vicina la mamma che dice parole buone.

Ecco, questo è il punto, la cosa che manca di più, anche se nessuno lo vuol ammettere: Un adulto che ti vuol bene, che si interessa di te, che ti protegge e ti guida. Che quando c’è una difficoltà se ne fa carico, che ti aiuta a crescere. Ma la cosa davvero importante è che ti voglia bene.

Mister Kariuki è il proprietario del ristorante in cui Jack ha organizzato questo “addio alla strada”. E’ uno stanzone con pareti e tetto fatti di lamiera ondulata, tenuti insieme da una intelaiatura di legno, arredata con panche, e con braciere di carbonella in un angolo. Kariuki, che mi fa pensare ad un pugile a fine carriera e poi mi conferma di esserlo, lo ha messo a disposizione per una cifra modestissima, poi, mentre Jack parla ai ragazzi, è andato nel “negozio” vicino a comperare quattro forme di pane e cinque litri di latte per questi ragazzi affamati. Gli saranno costati quanto i profitti di tre giorni, ma rifiuta i miei ringraziamenti con un gesto della mano bofonchiando “sono figli nostri”.

La notte passa in fretta, con canti, danze, storie della vita di strada. Il mattino i bambini improvvisano una partita di pallone, fanno un bagno veloce in un fosso che le piogge della notte hanno trasformato in torrente. “Per presentarci puliti a Ndugu Mdogo”, mi dice serio Paul, 12 anni, il capobanda che la sera prima era ubriaco o era intontito dalla benzina, o entrambe le cose, mentre si immerge nell’acqua fangosa, e poi via verso la nuova casa. Solo tredici hanno avuto il coraggio di fare il salto. Gli altri preferiscono l’opzione offerta da Jack di aspettare qualche settimana, purché poi prendano un decisione definitiva. “Devono lasciare la strada convinti di fare una scelta importante e irreversibile – sottolinea Jack – perché se fallissero e tornassero indietro, diventerebbe psicologicamente impossibile per loro incominciare un altro percorso di recupero.”

Nelle quattro settimane successive li ho visti crescere giorno dopo giorno. Quando li saluto prima di partire per Verona , sono sono normalissimi ragazzini felici. Ancora una volta tre pasti al giorno e l’attenzione, l’ascolto, l’affetto, che Jack e John sono sempre pronti ad offrire stanno compiendo il miracolo della rinascita di tredici bambini.

Leadership senza Frontiere

L’altro ieri in un pezzo di opinione del Nation, il principale quotidiano del Kenya, Charles Omondi, che per questo quotidiano lavora come giornalista da oltre vent’anni scriveva “Ogni volta che mi capita di visitare un altro paese sub-sahariano, penso che il governare un paese sia una cosa troppo complessa per un africano.”

L’articolo continua con un quadro di situazioni che si possono ritrovare a Kinshasa come a Nairobi, a Lagos, a Bujumbura: spazzatura ovunque, venditori ambulanti che vendono illegalmente di tutto anche cibo in condizioni igieniche allucinanti, trasporto pubblico in condizioni vergognose con conseguente inquinamento a livelli tossici, elettricità erratica. Potremmo aggiungere acquedotti senza acqua, servizi scolastici e sanitari ampiamente inadeguati e troppo costosi per la maggioranza dei cittadini, e la lista non sarebbe finita.

Omondi conclude: “In quasi tutti gli stati africani c’è almeno una sembianza di democrazia. E’ tempo che gli elettori si ribellino a questi leader incapaci… Si eleggono persone in posizioni di potere solo perché appartengono alla propria etnia, o perché hanno promesso cose impossibili, e ci si trova condannati ad essere governati per sempre da ciarlatani che proclamano le sovranità nazionale, ma vanno a far shopping a Milano, vacanze a Parigi, mandano i figli a studiare a Londra, e si fanno curare a New York.”

La riflessione sulla qualità della leadership si impone mentre in Kenya incomincia il governo di un presidente e vicepresidente incriminati dalla Corte Penale Internazionale, e le notizie più comuni riportate dai giornali in Kenya riguardano episodi di corruzione.

Omondi, che è nato dopo l’indipendenza del Kenya, non si rifà alle colpe del colonialismo, anche se avrebbe potuto legittimamente farlo perché sono colpe che peseranno ancora per qualche anno su tutte le ex-colonie.

L’Africa post-coloniale ha espresso due grandissimi leader, Julius Nyerere in Tanzania e Nelson Mandela in Sudafrica. Ci sono stati altri leader che non hanno avuto il tempo di esprimere le loro potenzialità perché uccisi da forze coloniali o neo-coloniali, come Amilcar Cabral in Guinea Bissau e Thomas Sankara in Burkina Faso, ma c’è anche una lista troppo lunga di cleptomani o criminali che sono stati al potere per anni ed hanno permesso o favorito la formazione di una classe di politici e amministratori profondamente corrotti. Peggio, la corruzione è diventata accettabile, inevitabile, in ogni rapporto fra il cittadino e lo stato. Devi pagare sottobanco un funzionario per rilasciarti un documento, magari la carta d’identità’, a cui hai diritto.

Wole Soyinka, lo scrittore nigeriano e Premio Nobel, aveva già detto nei primi anni delle indipendenze africane, che il problema fondamentale dei nuovi paesi era la leadership. Sono passati oltre cinquant’anni e il nodo cruciale per lo sviluppo dell’Africa resta lo stesso, secondo Omondi. Gli africani, nella stragrande maggioranza persone buone e pacifiche, negano il detto che i popoli hanno i leader che si meritano.

“Ma forse – mi dice un amico africano che conosce bene l’Italia – alla fin fine è cosi per tutti. Guarda il tuo paese, non avete anche voi i vostri leader tribali? E’ raro che si eleggano i leader migliori, finiamo sempre per eleggere i mediocri, se non gli arrivisti. Abbiamo tutti un lungo cammino da fare.”

Fede e Fatti

Sono in giro per Lusaka per riprendere contatto con qualche vecchio amico, e, naturalmente, per farmi fare qualche preventivo per ristrutturare la scuola di computer a Mthunzi, il centro per bambini di strada. Lavoro e progetti per il futuro non mancano mai.

Vedo sulla Cairo Road un grande cartello che reclamizza Gesu’ come fosse una bevanda gassata. Mi infastidisce, e da quel momento noto con crescente irritazione le solite scritte sui piu’ vari mezzi di trasporto: “Jesus saves” è la più comune, e poi ci sono “Jesus is the way”, “Jesus is the answer” fino al categorico “Repent, the end is near”.

La fede non può essere un fatto puramente privato, non la si deve nascondere, ma non la si può neanche reclamizzare, buttarla in faccia agli altri. Ho sì il diritto e il dovere di manifestare la fede, ma con gesti semplici, educati e rispettosi degli altri. Meglio una fede che si propone con la naturalezza delle cose buone, che una fede aggressivamente ostentata. La fede più è granitica più si fa per gli altri proposta discreta e fraterna. Forse è un discorso difficile da far capire in un paese come la Zambia il cui Presidente, una ventina d’anni fa, si sentì in dovere di proclamare ufficialmente cristiano. Lo stesso Presidente che finì i suoi giorni trascinato di tribunale in tribunale, schiacciato da accuse di corruzione.

Sto pensando come proporre queste riflessioni ai quattro ragazzini che mi fanno scorta, pomposamente auto-definitisi mie “guardi del corpo”, quando improvvisamente ci sorprende un acquazzone. Non e’ normale, la stagione delle piogge sembrava conclusa da un pezzo. Ci rifugiamo, ormai già bagnati, fra la vetrina e la porta d’ingresso di un negozietto. E’ un negozio di dolci, vorrei cambiar posizione per non esporre i ragazzi a tentazione, ma non è possibile, lo scroscio si fa più forte. Dopo pochi secondi si apre la porta e una signora, inconfondibilmente indiana per la fisionomia, l’abbigliamento e il “terzo occhio” nel bel mezzo della fronte, ci invita a ripararci all’interno, parlando senza sosta. “Non ti ricordi di me? Non ero ancora sposata quando trent’anni fa venivi nel negozio di alimentari e granaglie di mio padre, vicino all’ufficio del Vescovo. Quando ti chiese come mai comperavi riso e farina da polenta in sacchi da 90 Kg, e tu gli spiegasti che avevi una “famiglia” un po anomala, ti faceva degli sconti e ti teneva da parte le cose, come il pesce secco , che allora a Lusaka si faceva fatica a trovare. Te lo ricordi? Era pelato, con una gran barba che si tingeva di arancione. Noi siamo di religione indù e mio padre mi ha sempre insegnato a rispettare i poveri. Adesso vedo che hai ancora una famiglia numerosa!” Mentre parla ha preparato una tazza di te per me e un piatto con un dolcetto a testa per i ragazzini, che la guardano increduli: agli occhi degli zambiani poveri gli indiani sono tutti ricchi e arroganti. Quando l’acquazzone è finito, ci accompagna fin fuori dalla porta, per assicurarsi che davvero non piova più, sempre parlando, augurandoci un buon rientro a casa, mentre già ci avviamo verso dove abbiamo parcheggiato l’auto.

Un gesto gratuito di attenzione e servizio che ci ha cambiato la giornata. La fede si comunica così, con gesti semplici che nascono da una convinzione interiore. Adesso ho l’esempio per i ragazzi. Altro che proclami presidenziali e scritte a caratteri cubitali. In tono minore, col sorriso e la chiacchiera debordante, la signora indù ha avuto lo stesso atteggiamento di servizio del samaritano che scendeva da Gerusalemme a Gerico. La fede che ti fa diventare prossimo di tutti.

La Cina è qui

La presenza cinese in Zambia, iniziata con l’acquisizione di miniere di rame, è sempre più importante e tocca la vita di tutti.

“Chiselwa, che chiamavamo Ciccio, all’italiana, per la figura rotondeggiante, adesso c’è’ diventato cosi bravo nell’istallazione di videocamere di sorveglianza per la ditta cinese con cui lavora che sta pensando di mettersi in proprio. Matthias, proprio lui che ha fatto tanta fatica a liberarsi dal vizietto di appropriarsi di cose non sue, fa la guardia giurata. Robert ha finito la scuola di turismo e lavora per una importante compagnia di viaggi e gli hanno proposto di studiare il cinese, per fare da guida a turisti provenienti da quel paese. Richard, Mutale e Jackson invece, dopo la scuola per chef, lavorano in tre diversi ristoranti cinesi. Pomulo, Sky, Protasio e Baisikolo hanno incominciato la scuola di saldatori meccanici, ma ciò in cui sono veramente interessati è il gruppo di danze e folklore tradizionale che hanno messo su insieme. Ma la grande notizia è che Brian ha finito la scuola superiore con risultati cosi alti che quasi certamente sarà ammesso all’università con una borsa di studio governativa.” Mentre mi porta dall’aeroporto di Lusaka (Zambia) a Koinonia, Malama, responsabile della comunità per il recupero di bambini di strada, mi fa una lista dei successi di questo ultimo anno. Ci sono anche risultati più modesti, come Station (cosi chiamato perché la sua base era la stazione ferroviaria) o Peter che fanno semplicemente gli assistenti di fruttivendoli al grande mercato in centro città, ma è bello sentire questo elenco e vedersi passare davanti questi volti. Certamente nei pochi giorni che passerò a Lusaka li incontrerò tutti, e li sentirò raccontar di persona le loro storie.

I cinesi stanno assumendo un ruolo dominante nelle storie dei ragazzi che sono passati da Koinonia, cosi come in tutta la Zambia. Da qualche anno hanno acquisito il controllo delle miniere (rame soprattutto, ma anche manganese, titanio, zinco, ecc), sono onnipresenti con i loro prodotti nel commercio, stanno silenziosamente acquisendo anche enormi tratti di terra. Le statistiche disponibili ci dicono che l’economia zambiana è, fra le africane, quella più controllata dalla Cina.

Nulla di nuovo per la Zambia. Se c’è un paese che economicamente dipende quasi totalmente da paesi e vicende esterne, è questo. Dopo la colonizzazione inglese, che ha portato via solo in rame una ricchezza incalcolabile, lasciando la Zambia con niente – all’indipendenza nel 1964 c’erano tanti laureati locali quanti se ne possono contare sulle dita di una mano, c’è stato un breve periodo di prosperità, basata sull’alto prezzo del rame. Il crollo mondiale di questo prezzo, dopo che le compagnie americane si impossessarono del rame cileno a seguito del colpo di stato di Pinochet nel 1973, avviò in Zambia un declino inarrestabile, anche per i maldestri tentativi del primo presidente Kenneth Kaunda di imporre il socialismo scientifico. All’inizio degli anni novanta il paese era ridotto nella miseria più nera.

La Zambia è il doppio dell’Italia come estensione, ma con un sesto degli abitanti, senza sbocco sul mare e circondato da paesi turbolenti (Namibia, Angola, Congo, Mozambico, Zimbabwe). Dopo un tentativo di politica agricola assolutamente fallimentare, una prima ripresa economica avvenne verso la meta’ degli anni 90, con l’arrivo dei capitali e delle compagnie sudafricane, ormai libere di muoversi dopo la fine dell’apartheid. Seguiti, dall’inizio del nuovo millennio, dalla valanga cinese.

Internamente la Zambia fu uno dei primi paesi africani a muoversi verso la democrazia, senza scosse, secondo l’indole tranquilla degli abitanti. Lusaka non ha conosciuto un vero e proprio colpo di stato. L’unico tentativo, 1982, organizzato da una trentina di militari, finì quando i golpisti, ormai certi di aver vinto dopo essersi impossessati senza colpo ferire, nella notte delle caserme principali e della radio, erano stati arrestati, tutti sbronzi, in un night club della capitale nelle prime ore del mattino successivo.

Adesso la presenza cinese, e il conseguente maggior interesse da parte delle comunità internazionale, ha fatto rifiore i centri commerciali, in genere ridato fiato ad un’economia che era chiusa su se stessa.

Negli anni, i progetti di Koinonia, iniziati nel 1982, hanno seguito questi alti e bassi, con una forte iniezione di fiducia quando è incominciato il sostegno di Amani, una decina di anni fa. Oggi c’è meno povertà visibile, più povertà nascosta, ma comunque i ragazzi che escono dalla comunità hanno maggiori opportunità di lavoro. “Beh, vuol dire che con tanti figli zambiani primo o poi mi ritroverò una nuora cinese!” scherzo con Malama. “No way! Impossibile, i cinesi non si mischiano mai con noi, socializzano solo fra di loro. Vogliono solo le materie prime e la terra”.

Pomulo, quando non studia da meccanico, fa lo stregone/mangiafuoco.

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