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Life

Tiyende Pamodzi – Let’s Walk Together – Camminiamo Insieme

Ascoltarsi, parlarsi, conoscersi, aiutano a crescere nel rispetto reciproco e nella solidarietà. Koinonia, iniziata a Lusaka (Zambia) nel 1982, lo sa bene. Da allora ogni anno gruppi organizzati di giovani, dall’Italia ma anche da altri paesi, hanno partecipato a viaggi di conoscenza diretta della realtà africana per vivere un periodo di condivisione con la comunità locale. Affrontando difficoltà e commettendo errori, abbiamo scoperto che comunque costruire solidarietà è parte integrante del nostro cammino comunitario. Ora Amani, la ONG italiana che ha organizzato per anni i viaggi in Zambia, ha deciso di far vivere ad un gruppo di ragazzi zambiani la prospettiva del viaggiatore, invitandoli ad una esperienza educativa che incomincerà a Torino il 23 novembre e si snoderà attraverso l’Italia, fino a Matera, concludendosi a Roma da dove rientreranno in Zambia il 15 dicembre.

Già i ragazzi di Koinonia Kenya hanno visitato l’Italia più volte e l’esperienza è stata positiva per tutti. Naturalmente devono preparasi prima di partire, come fanno tutti i viaggiatori veri. E` significativo che nessuno di loro, anche fra i ragazzi piu grandi della squadra di calcio per esempio, abbia scelto di vivere in Italia.

Il viaggio in Italia sarà anche un’occasione per gli amici italiani di salutarli e vivere insieme un’esperienza formativa attraverso lo scambio culturale, l’accoglienza in famiglia, le visite alle città d’arte, gli incontri nelle scuole e la presentazione di uno spettacolo di danze tradizionali zambiane. I ragazzi zambiani avranno occasione di incontrarsi con i coetanei e soprattutto di raccontare la loro esperienza.

Perche’ Koinonia ed Amani si prendono un impegno organizzativo cosi importante? Non sarebbe meglio fare altre cose?

La altre cose le abbiamo fatte e continuiamo a farle. Mthunzi, da dove provengono i 16 ragazzi che parteciperanno al viaggio, è un progetto socio-educativo in un centro residenziale nato per accogliere i bambini di strada di Lusaka. Sorge a circa 15 km dalla capitale zambiana, in una zona rurale. Per i bambini non è solo un luogo di accoglienza ma rappresenta la possibilità concreta di costruirsi un futuro. A Mthunzi i bambini ricevono un’educazione adeguata e un sostegno costante alla loro crescita. Questo permette loro di riacquistare fiducia in se stessi e nel mondo degli adulti, un mondo che ha negato loro negli anni di vita in strada la possibilità di vivere un’infanzia serena. A Mthunzi ci sono anche attività agricole, una scuola di informatica e di sartoria. C’è anche un dispensario medico, diventato negli anni un riferimento importante per i villaggi circostanti.

Ma questo non basta. I ragazzi sono protagonisti della loro formazione umana e religiosa, a seconda delle loro necessità, scelte e impegni. Imparano ad aprirsi al mondo e ad essere cittadini responsabili. Per questo verranno in Italia con un messaggio, condensato nel titolo dello spettacolo: Tiyende Pamodzi, o Camminiamo Insieme.
La tragedia di Lampedusa, e alcuni commenti che ne sono seguiti, mi rinforza nella convinzione che dobbiamo costruire solidarietà. Più ancora radicalmente, dobbiamo ricostruire il senso di appartenere alla stessa famiglia umana. Spero che gli autori di certi commenti riportati dai mass media li abbiano fatti perché non hanno mai avuto occasione di incontrare veramente “gli altri”. Per una serie di circostanze si sono ritrovati a vivere chiusi in gabbie dalle quali mai tentato di uscire, perché in quelle gabbia si sentono sicuri . Senza accorgersi che ne sono anche prigionieri.

Per i cristiani, come lo sono molti dei ragazzi di Koinonia e molti dei miei amici, l’essere tali si misura con la capacità di creare incontro, fraternità, comunione. Di trasformare l’amore per gli altri in fatti concreti, in impegno e servizio.

Don Milani diceva, cito a memoria, “Se voi vi arrogate il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dico che, nel vostro senso, io non ho patria”. Chi avrà l’occasione di incontrare i ragazzi di Koinonia si convincerà, se già non lo fosse, di essere parte di una patria più grande.

Un’altra “primavera araba”? – Another “Arab Spring”?

È in corso a Khartoum una feroce repressione contro le proteste che si sono scatenate dopo che il governo ha quasi raddoppiato il prezzo del carburante. La stampa internazionale ne ha dato notizia, quando lo ha fatto, riportando un comunicato stampa di Amnesty International che ha chiesto al governo del Sudan di «cessare immediatamente l’uso della forza arbitraria e illegale nei confronti dei manifestanti che da giorni protestano contro il taglio dei sussidi alla benzina. Tra il 24 e il 25 settembre le forze di sicurezza hanno ucciso, colpendoli alla testa e al petto, almeno 50 manifestanti. Secondo fonti e attivisti locali, i morti sarebbero oltre 100. Solo a Omdurman, sono stati spediti all’obitorio 36 cadaveri ed eseguiti 38 interventi chirurgici. La maggior parte dei manifestanti uccisi erano di età compresa tra i 19 e i 26 anni».

Gli attentati terroristici avvenuti in Kenya, Pakistan, Nigeria e le tensioni in altre parti del mondo, Siria e Repubblica Centrafricana, hanno cospirato a far passare inosservate le vicende sudanesi di questi giorni, ma non pochi si domandano se non siamo arrivati al capolinea per il regime del presidente Omar El-Bashir, al potere dal 1989. Da anni, da quando fu spiccato un mandato di cattura contro di lui dalla Corte penale internazionale (Cpi), si sono scatenate proteste contro il suo regime, ma finora tutte sono state represse con successo. Che sia questa l’inizio della fine per El-Bashir?

In questi giorni migliaia di persone sono scese in strada in tutto il paese, dapprima a Wad Madani e poi nella capitale Khartoum, e in tutte le città più importanti. Il 25 settembre Internet è stato sospeso e gli organi di stampa sono stati messi sotto stretto controllo dalle forze di sicurezza. Nonostante questo, i social network di tutto il mondo hanno potuto far circolare foto e video amatoriali in cui si vedono decine di vittime. Le informazioni di domenica 29 settembre davano il numero dei morti, solo a Khartoum, a più di 210.

Il dottor Ahmed al-Sheikh, responsabile di un’associazione di medici, ha testimoniato che i morti erano stati colpiti alla testa o al petto e che le forze di sicurezza intimavano ai parenti di denunciare “morte per causa naturale” sul certificato medico, minacciando e arrestando anche alcuni dottori che non erano disposti a collaborare.
Altre fonti confermano che le persone detenute dal NISS (Sudan National Intelligence and Security Services, i servizi segreti) sono nell’ordine delle centinaia ed è facile immaginare, perché è la routine, che siano sottoposte a torture, come è stato sottolineato dall’African Centre for Justice and Peace Studies , basato a New York.
Venerdì 27 settembre, le forze di sicurezza hanno chiuso gli uffici di Khartoum di Al-Arabiya, un canale televisivo degli Emirati Arabi Uniti con l’accusa di diffondere notizie false. Al-Sudani e Al-Meghar Al-Siyasi, due quotidiani, sono pure stai sospesi, mentre altre pubblicazioni si sono auto-sospese in segno di protesta.

L’impressione che il regime di El-Bashir sia ormai alla fine, è rafforzata anche dal fatto che ieri, domenica 29, il presidente abbia cancellato un discorso pubblico perché la grande folla che di solito presenzia a simili manifestazioni, non c’era.

Mohamed Yassin, ricercatore all’università di Udine e portavoce in Italia del Splm-N, ha detto che «la comunità internazionale diventa cieca e sorda quando ci sono vittime in Sudan, mentre le notizie che riguardano la chiusura degli oleodotti sudanesi sono sempre riportate e commentate per esteso. Sappiamo ciò che avviene in Sudan solo attraverso gli attivisti locali, che rischiano la vita per diffondere foto e video. La comunità internazionale nel migliore dei casi fa dichiarazioni e condanne molto generiche e quasi di routine, assolutamente inefficaci a fermare il fiume di sangue che sta sommergendo il Sudan».

Ma purtroppo El-Bashir, con il supporto del fanatismo islamico, è stato altre volte capace di uscire vincente da situazioni che sembravano estreme. Non posso non ricordare un incontro a Nairobi (Kenya) nella casa di un eminente politico sud-sudanese in esilio, Clement Mboro, nel 1989, poche settimane dopo che El-Bashir aveva preso il potere con un colpo di stato. Erano presenti tutti i più importanti politici dell’opposizione sudanese del momento, e fra gli altri Bona Malwal, intellettuale e politico sud-sudanese che era stato sorpreso in Inghilterra dal colpo di stato. Malwal fece una lunga e precisissima analisi politica di quello che era successo a Khartoum, per concludere con un categorico: “Tutto questo mi rende sicuro che El-Bashir sarà scalzato prima di Natale”. Sono passati ventiquattro anni: Mboro, coerente fino alla fine, è morto in povertà a Nairobi; El-Bashir è ancora al potere a Khartoum e Bona Malwal, sistemato in una lussuosa villa a Khartoum, ne è il principale consigliere politico per gli affari sud-sudanesi.

Westgate: I bestemmiatori e gli altri – The blasphemers and the others.

Non credo che l’azione del commando terroristico che ha agito al Westgate Mall di Nairobi sveli “il vero volto dell’Islam” come mi è capitato di leggere. Continuo a credere, semplificando un po, che la maggioranza dei musulmani siano buone persone, che vogliono vivere la loro vita in armonia con gli altri, ma sono in ostaggio di una minoranza criminale, che usa la religione per fini politici e di controllo economico. Una minoranza di bestemmiatori violenti che si sono autoproclamati autentici interpreti del Corano.

I musulmani sono in una fase della loro storia simile a quella in cui noi ci trovavamo fino a un tempo non troppo lontano, quando anche noi credevamo ai nostri leader che ci dicevano che gli indiani d’America e i neri d’Africa non erano umani e li potevamo uccidere impunemente. O come, in tempi ancor più vicini, quando i soldati italiani obbedivano senza batter ciglio all’ordine di “passare per le armi”, cioè uccidere a sangue freddo, in pochi giorni, migliaia e migliaia di etiopici innocenti, e nessuno, neanche fra i pastori della comunità cristiana, levava una voce di protesta. I musulmani che oggi vivono in società dominate da leader politici o religiosi che propugnano ideologie discriminatorie, disumane, sono vittime quanto lo eravamo noi. E se noi non lo riconosciamo, rischiamo di ricadere nella stessa trappola: affermare che gli altri, in massa, “sono tutti così” è il primo passo per giustificare il male che stiamo progettando in cuor nostro.

Preferisco pensare che il loro dichiararsi musulmani, il loro discriminare chi uccide chiedendo il nome della mamma del profeta, sia assolutamente irrilevante. Cosi com’è irrilevante che gli affiliati a Cosa Nostra si dicano devoti della Madonna. Sono semplicemente criminali, qualsiasi cosa credano e professino, e il loro credo è usato al servizio della loro criminalità e del loro odio contro il prossimo, che ha altre radici ben diverse dalla fede in Dio. Questo l’ha capito Samuel, un ventenne cresciuto a Kivuli, il cui unico familiare, un lontano zio, è stato ucciso dai terroristi nei primi scontri al Westgate. Era addetto ad aiutare i clienti del supermercato a mettere la spesa nella busta di plastica – il lavoro in Kenya costa poco, sarà stato pagato 80 euro al mese. Samuel mi ha scritto: «Prega per mio zio, era una brava persona. Dio non può essere con quelli che lo hanno ucciso. Loro nominano il Suo nome invano. Io ho capito ancora meglio che dobbiamo costruire la pace».

Preferisco, leggendo e guardando cosa è successo al Westgate Mall, vedere le decine di persone che hanno istantaneamente reagito proteggendo i loro figli, ma anche quelli di altri, senza distinzione di colore, che hanno messo in salvo altre persone, che hanno donato sangue, che hanno spontaneamente portato panini e bevande alle squadre delle ambulanze, ai soldati. Certamente fra quei volontari c’erano anche dei miei confratelli, di quelli che non hanno paura di essere contaminati dall’odore delle pecore, anche quando le pecore odorano di paura e di morte. Fra vittime e soccorritori – le testimonianze sono unanimi – nessuno ha fatto distinzione di razza o di religione. Queste sono le persone che ci fanno sentire umani.

Fra di loro c’è Edwin, del gruppo acrobatico nato a Kivuli, i Nafsi Africa. Io quel giorno ero a Verona, e stavo uscendo di casa per partecipare a un incontro. Un confratello mi disse che a Nairobi stava succedendo qualcosa di grave. Ho aperto Facebook e la prima cosa che ho visto è stato un messaggio di Edwin: «In fretta, tutti al Westgate a donar sangue».

Kenyatta

Kenyatta potrebbe avere circa dieci anni. Nessuno sa come la mamma lo abbia chiamato, è lui che si fa chiamare con questo nome cosi solenne e presidenziale, almeno in Kenya. Jack l’ha trovato in strada lo scorso novembre e attraverso di lui è arrivato ad un gruppo di una quindicina di bambini che vivevano per le strade di Ngong. Kenyatta era il leader del gruppo. Tracagnotto e crapone, come dicono dalle mie parti, sia in senso figurato che di fatto. Dopo un percorso di conoscenza e crescita insieme di qualche mese, lo scorso aprile Jack aveva pensato che il gruppo fosse pronto per entrare a Ndugo Mdogo, una tappa di transizione verso una sistemazione ancora più stabile. Ma all’ultimo momento Kenyatta si era tirato indietro. “Perché – disse a Jack – io posso cavarmela da solo.” E se n’era andato, tornando in strada. Sarebbe stato controproducente chiedere l’aiuto dell’ufficio governativo che si dovrebbe occupare dei bambini di strada, e Jack ha preferito aspettare, però verificando di tanto in tanto che Kenyatta fosse sempre operativo in quel tratto di strada, vicino al grande mercato all’aperto di Ngong, che era il suo regno.

Ai primi di agosto, Kenyatta si è presentato a Ndugu Mdogo, ha salutato i suoi amici ed è rimasto. Senza una spiegazione. Jack ha scelto ancora di non reagire, semplicemente osservandone il comportamento. Una settimana dopo alla grande festa del Koinonia Children’s Day, durante la Messa, l’ho presentato a tutta la comunità come l’ultimo arrivato. Quando l’ho chiamato si è messo di fianco a me, dritto dritto, guardando tutti senza imbarazzo, sorridendo felice.

Dopo un paio di settimane ero a Ndugu Ndogo mentre George faceva una lezione di canto, e durante un intervallo mi si è seduto vicino, e senza che io gli avessi chiesto niente, ha cominciato a parlare, come se stesse riprendendo un discorso interrotto qualche minuto prima. “Non mangiavo da due giorni e son tornato a casa. Ho trovato mio papà ubriaco e mia mamma non c’era più. C’era un’altra donna. Lei mi ha cacciato come se fossi un bestia, lui mi guardava senza dire niente. Forse non mi ha riconosciuto. Poi la donna mentre uscivo mi ha urlato che mia mamma è morta di quella malattia di cui muoiono tutti, e che anche mio papà morirà presto, e poi anche lei. Che non mi faccia più vedere”. Si è fermato, poi ha aggiunto “Adesso sono qui e da qui non mi manda via nessuno”. Non l’ha detto in tono di sfida, come mi sarei aspettato da lui, ma semplicemente come un fatto assodato, definitivo, su cui non si discute. Jack era poco lontano, ha sentito tutto e prima che io potessi parlare ha chiesto “C’è forse qualcuno che ti vuol mandar via?”. Kenyatta si è guardato intorno lentamente, poi, sempre lentamente, ha fatto cenno di no con la testa. Poi, finalmente, le guance si sono coperte di lacrime silenziose.

I Martiri della Fratellanza – The Martyrs of Brotherhood

La testimonianza dei quaranta Seminaristi del Burundi, uccisi proprio perché rifiutavano di odiarsi l’un l’altro, dovrebbe essere meglio conosciuta e diventare modello ed esempio alle aspirazioni della gioventù Africana.
Guardando le loro bianche tombe non dobbiamo essere sopraffatti dalla disperazione. Dovremmo piuttosto dire, come disse Papa Francesco di Don Pino (il prete che fu ucciso per opporsi alla Mafia) “Essi hanno vinto come il Cristo Risorto”

Quaranta fotografie, i visi di quaranta giovani ragazzi che guardano dritto, ma timidamente, nella macchina fotografica. Fotografie prese dalle loro schede scolastiche, ragazzi come milioni di altri in Africa.
Ma questi quaranta giovani sono molto diversi, per le ragioni e le modalità della loro morte.
Le fotografie furono scattate nel 1997 all’inizio dell’anno scolastico in Burundi, quando il paese stava soffrendo una delle più crudele violenze etniche in Africa, una conseguenza del genocidio avvenuto nel vicino Ruanda. Poche settimane dopo, alle 5,30 del mattino del 30 Aprile 1997, alcuni membri del gruppo ribelle Hutu, il Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia (CNDD), attaccarono il Seminario di Buta ed uccisero quaranta giovani seminaristi di età compresa tra quindici e venti anni.

Fin dall’Ottobre del 1997, inizio della guerra civile nel paese, il Seminario di Buta era stato un tranquillo rifugio per appartenenti ai due gurppi etnici in guerra, gli Hutu, dediti alla pastorizia stanziale ed i nomadi Tutsi. Hutu e Tutsi erano stati coinvolti e bloccati in una mortale guerra civile, un vero e proprio genocidio fin dal 1972. Anche il Seminario era stato inquinato da divisioni etniche, ma negli ultimi anni, sotto la guida del loro rettore, i ragazzi si erano impegnati, in modo speciale, a vivere come fratelli, dando testimonianza della chiamata di Gesù rivolta a tutti, contro ogni divisione ed odio etnici.

Essi avevano appena concluso il loro ritiro Pasquale, quando gli attaccanti li sorpresero in piena notte nel dormitorio de ordinarono loro di separarsi in due gruppi, gli Hutu da una parte e I Tutsi dall’altra. Gli attaccanti volevano uccidere una parte di loro, ma i Seminaristi si rifiutarono di dividersi, preferendo morire insieme.
Visto fallito il loro diabolico piano, gli assassini si avventarono sui ragazzi e li massacrarono con colpi di armi da fuoco e granate.
Le prime vittime caddero abbracciati come fratelli.
Alcuni Seminaristi furono sentiti cantare salmi di lode ed altri pregare ad alta voce “Perdona loro, Signore perché essi non sanno quello che fanno”.
Altri, invece di difendersi o cercare di scappare, preferirono aiutare i loro fratelli sofferenti, sapendo chiaramente cosa stava per succedere a loro stessi. Alcuni dei Seminaristi e degli insegnanti, che non erano in quell’edificio, sopravvissero e poterono riferire i fatti.
Ora quelle quaranta fotografie sono sulle quaranta bianche tombe nel cortile davanti ai loro dormitori.

I quaranta ragazzi furono chiamati “Martiri della Fratellanza” e la loro causa di beatificazione – per proclamarli un esempio di vita Cristiana – cominciò poco dopo la loro morte. La causa è avanzata lentamente, molto lentamente come normale in questi casi. Ma la recente beatificazione di Don Pino potrebbe dare un’accelerazione al suo iter.

In difesa della virtù e della verità

Padre Giuseppe Pugliesi, conosciuto dai suoi parrocchiani come Don Pino, fu ucciso a Palermo da sicari della Mafia il 15 settembre 1993 e fu proclamato beato e “martire della Mafia” il 25 maggio 2013. Don Pino fu ucciso perché parlava, agiva e insegnava ai suoi parrocchiani, in particolare i giovani, a reagire contro la Mafia, profondamente radicata nella società locale. Egli sapeva che li capi della Mafia avevano ordinato la sua uccisione, ma non si fermò. Il suo scopo era di fare dei suoi giovani parrocchiani dei cittadini onesti, guide nel campo della giustizia e pace. Per la prima volta una vittima della Mafia diviene un Martire della Chiesa Cattolica.

Il cammino che portò alla beatificazione di Don Pino fu complicat ed una volta fu fermato perché egli non era stato assassinato “in odium fidei” ( in odio della fede) che era di solito il criterio essenziale della Chiesa per proclamare qualcuno un Martire Cristiano. Il processo di beatificazione di un martire è di solito molto più veloce che altri processi simili. La ragione di questa rapidità è che il martire è chiaramente morto per la sus fede in Gesù, mentre per persone che morirono in altre circostanze, la loro santità di vita e la solidità dei loro insegnamenti e preghiere deve essere provata oltre ogni dubbio e questo richiede un lungo processo di analisi della vita e degli scritti della persona in questione. Ma gli assassini di Don Pino erano Cattolici – spesso i capi della Mafia amano sedere nel primo banco della chiesa durante importanti celebrazioni, per sottolineare il loro stato sociale ed essi si proclamano strenui Cattolici – per questa ragione le loro motivazioni per ordinare l’uccisione di Don Pino non erano “in odium fidei” ma “in odio delle azioni e degli insegnamenti” di Don Pino. Qualcuno pensava che senza “odium fidei” nelle intenzione degli assasini, non poteva esserci martirio.

Il nuovo modo di definire il martirio, che emerse durante il processo di beatificazione di Don Pino, è riflesso nelle parole di Papa Franceso che disse: “Ieri, a Palermo, Padre Giuseppe Pugliesi, un prete ed un martire ucciso dalla mafia nel 1993, fu beatificato. Don Pugliesi era un prete esemplare, impegnato specialmente nell’insegnamento alla gioventù. Egli insegnava il vangelo ai giovani, portandoli in questo modo fuori dal controllo dei gruppi criminali e per questo essi cercarono di sconfiggerlo, uccidendolo. In realtà, invece, è lui quello che ha vinto con il Cristo Risorto! Preghiamo il Signore di convertire i cuori di quella gente. Essi non possono fare questo! Essi non possono cambiare noi, che siamo fratelli, in schiavi!”

Infatti gli assassini di Don Pino non agirono “in odium fidei”, ma “in odium virtutis et veritatis” (per odio della virtù e della verità). Essi non volevano distruggere la Cristianità – anzi, probabilmente essi si consideravano buoni Cattolici! – Don Pino si oppose alle azioni ispirate dal diavolo che essi e la loro organizzazione criminale perseguivano: fu questo che spinse loro ad ucciderlo.

Molti commentatori sottolinearono che al beatificazione di Don Pino potrebbe essere la prima di una serie di beatificazioni fatte perché il martire si oppose al diavolo e fu ucciso in odio alla virtù ed alla verità. Il più evidente e conosciuto esempio di questa possibile serie di beatificazioni è l’Arcivescovo Oscar Arnulfo Romero del Salvador, ucciso il 24 marzo 1980, mentre celebrava Messa, perché si ergeva come un difensore dei poveri nel suo paese diviso.

Mitezza e pace

Recentemente, Papa Francesco, nel rivolgersi ai membri di varie organizzazioni laiche convenuti in Piazza San Pietro, ha parlato dei cristiani che sono ancora vittime di persecuzioni: “Ci sono più martiri oggi che nei secoli passati. Il martirio non è mai una sconfitta, è il più alto grado di testimonianza. Un cristiano deve sempre avere un atteggiamento di unità e di mitezza, confidando in Gesù. Dobbiamo essere vicini a coloro che sono perseguitati; essi passano il confine tra la vita e la morte “.

I seminaristi di Buta sono stati uccisi a causa della loro posizione in difesa della giustizia e della fratellanza cristiana. Anche loro avevano deciso di fare della loro comunità un esempio di vita fraterna e di pace, nonostante la società divisa che li circondava. Anche loro sono stati uccisi probabilmente da altri cattolici – il Burundi è un paese in gran parte cattolico – non tanto per odio alla fede, ma per odio alla pace ed alla giustizia, spinti dal più brutale tribalismo.

I quaranta innocenti ragazzi del Burundi e la loro testimonianza dovrebbero essere meglio conosciuti e diventare un modello e un esempio delle aspirazioni dei giovani africani. Guardando le loro tombe bianche, non dobbiamo essere sopraffatti dalla disperazione. Dovremmo piuttosto dire, come ha detto Papa Francesco di Don Pino: “Hanno vinto, come il Cristo risorto”.
traduzione dall’inglese di Toni Portioli

Una Poltrona per Due

C’è una battaglia in corso. Per il potere. Tra il presidente Salva Kiir e il vicepresidente Riek Machar. Con risvolti geopolitici ed etnici. E un movimento di liberazione, l’Spla/m, che fatica a trasformarsi in un partito e aprirsi al gioco democratico.

È una lotta per il potere personale, in un contesto complicato, con esiti imprevedibili, in cui giocano diversi fattori e potrebbe dar origine ad un lungo periodo di violenza. I protagonisti sono presidente Salva Kiir e il vicepresidente Riek Machar. È prematuro parlare del Sud Sudan come di uno “stato fallito” – ma già alcuni lo fanno. Comunque è reale il rischio che stia incominciando un altro lungo capitolo buio nella storia del paese.

Vediamo le principali concause di questa situazione. L’indipendenza (9 luglio 2011) non ha risolto il contenzioso con il Sudan. Sopratutto non è stata risolta la questione del confine (incluso Abyei), che resta indefinito, e di conseguenza resta aperta la questione della proprietà di alcuni importanti campi petroliferi e del flusso del petrolio, che costituisce la ricchezza su cui i due paesi vivono, e che attrae l’interesse della comunità internazionale.

I rapporti con i paesi confinanti restano problematici. Centrafrica e Rd Congo hanno problemi interni gravi e restano instabili, difficile prevedere quale posizione potranno prendere, se pure ne prenderanno una. Uganda e Kenya, su indicazione degli Usa, finora sono stati forti sostenitori di chiunque fosse al potere nello Spla/m (Esercito/Movimento popolare di liberazione del Sudan), ed entrambi hanno ormai forti legami economici con Juba (capitale del Sud Sudan), anche attraverso notevoli investimenti privati da parte di personaggi politici. A questo riguardo sono indicativi lo sconcerto (prima) e il panico (poi) del ministero esteri kenyano di fronte all’azzeramento del governo sudsudanese, voluto il 23 luglio dal presidente Kiir. L’Etiopia ha sempre cercato di mantenersi o di apparire distaccata nelle vicende interne del Sudan.

Sul piano internazionale più vasto, continua il sostegno Usa e del mondo occidentale allo Spla/m, ma certamente non è un sostegno che proseguirebbe senza condizioni se qualcuno dovesse diventare responsabile dello scatenarsi di una guerra interna.
Internamente il Sud Sudan è segnato da gravi divisioni etniche. Lo Spla/m sin da prima dell’indipendenza, sotto la guida di John Garang, è sempre stato saldamente controllato dai dinka, che d’altronde è l’etnia maggioritaria. Non pochi membri di altre etnie vedono gli amministratori e i militari dinka come una forza di occupazione. Riek Machar è nuer e Pagan Amun, l’altro grande silurato, non come membro del governo ma come segretario generale dello Spla/m, è shilluk. Marian Marial Benjamin, il primo e finora unico membro del nuovo gabinetto ad essere stato nominato come nuovo ministro degli esteri, è anche lui dinka. Le prossime nomine ci diranno come Kiir intende muoversi e se la presenza dinka negli organi governativi, già forte, sarà rafforzata.

La violenza e la dominazione sono purtroppo parte della cultura sudsudanese, forgiata anche da 22 anni di guerra civile. Il prendere le armi è spesso la risposta più istintiva alle discriminazioni vere o immaginarie. Se Kiir non riuscisse a controllare politicamente lo scontento, è ipotizzabile un Sud Sudan diviso in aree controllate da gruppi armati.

La transizione dello Spla/m da movimento di liberazione a partito politico non è ancora avvenuta. Simili situazioni di transizione ci hanno insegnato che è molto difficile per chi ha partecipato alla lotta di liberazione riconoscere che altri attori politici, che magari sono stati all’estero o hanno remato contro, possano godere delle stesse libertà democratiche. Di qui la tentazione della repressione e del controllo. Inoltre un movimento di liberazione ha un alto accentramento di poteri, non più accettabile in un governo democratico. Non per niente, facendo riferimento a Sudafrica, Angola e Zimbabwe, alcuni parlano della necessità di una seconda liberazione dopo la prima liberazione dai poteri coloniali e razzisti. Il Sud Sudan ha tutte le caratteristiche per poter finire come il caso più estremo, quello dello Zimbabwe, dove dopo oltre trent’anni dall’indipendenza, il “liberatore” è ancora saldamente al potere.

Infine non possiamo trascurare la storia delle due personalità principali coinvolte in questo confronto. Il presidente Salva Kiir è stato addestrato alle sottigliezze dei servizi segreti a Mosca, prima del crollo del blocco sovietico, ha poi vissuto per anni nell’ombra di Garang, eseguendone gli ordini e imparando i più duri giochi di potere, che non si fermano dinnanzi alla vita di persone e comunità. Abituato alla segretezza, a non mostrare le sue carte, Kiir ha preso il potere alla morte di Garang (incidente di elicottero. 30 luglio 2005). Non senza dar adito a sospetti, ma comunque con il sostegno immediato degli alleati tradizionali, che non volevano un vuoto di potere destabilizzante.

Riek Machar ha tentato diverse volte la scalata al potere, sin dal 1991 quando si è proposto di rovesciare Garang con motivazioni quasi identiche a quelle che proclama oggi. Ha sempre fallito, e dal ’91 la sua corsa al potere lo ha portato anche ad allearsi per molti anni a Khartoum, macchia che ancora oggi lo segna pesantemente. Nella sua carriera non mancano episodi di massacri di popolazione civile.

Se è difficile prevedere chi dei due emergerà vincitore o e si affacceranno alla ribalta altri personaggi che per il momento stanno a guardare, purtroppo è facile prevedere che per il Sud Sudan sta incominciando una fase di assestamento politico che sarà lunga e violenta.

Innocent

«L’ho chiamato Innocente, lui non ha nessuna colpa», dice Clarissa, una giovane mamma con un’espressione sempre composta e serena, che si apre al sorriso solo quando guarda Innocent. Stamattina è in coda, fra le poche mamme che aspettano il loro turno nella veranda di Paolo’s Home, a Kibera. Viene qui due volte alla settimana, guarda con attenzione come Janet, la fisioterapista, manipola Innocente, che è fisicamente disabile, e poi ripete i movimenti sotto lo sguardo attento di Janet, così che potrà rifare il trattamento lei stessa, a casa.

Il padre di Innocent l’ha lasciata sola appena gli ha detto di essere incinta. Janet mi fa osservare come il trattamento faccia quasi più bene alla mamma che non al bambino. Clarissa sente, e approva: «Sono ri-motivata, anzi ri-nata, anch’io. Adesso giro a testa alta. Né Innocent né io abbiamo di che vergognarci. Ho letto che due settimane fa, sulla Costa, i membri di una associazione per disabili hanno chiesto di poter far sentire la loro voce a livello di governo locale. Quando crescerà, Innocent saprà farsi sentire».

Quando abbiamo iniziato questo piccolo centro di fisioterapia a fine 2007, sembrava che i bambini disabili fossero pochissimi. Poi, pian piano, la gentilezza e l’attenzione di Janet hanno conquistato le mamme che si vergognavano dei figli disabili e li tenevano nascosti; a volte non trovavano altra soluzione, quando andavano a lavorare, che rinchiuderli a chiave nella baracca in cui abitano. Da gennaio di quest’anno sono oltre novanta le mamme che, ogni settimana, fedelmente, a turni prestabiliti, portano i figli per una o due sessioni di fisioterapia.

La povertà non è solo mancanza di soldi, è mancanza cronica di istruzione, di cure sanitarie, di partecipazione sociale e politica, di sicurezza e libertà, di qualità ambientale e di giustizia. Parlando con Clarissa capisci che comunque non è, o almeno non sempre, mancanza di dignità e di voglia di riscatto.

È difficile reagire all’emarginazione dei disabili. La maggior parte di loro non ha accesso all’istruzione, al lavoro e alla riabilitazione. Sono stigmatizzati a causa di pregiudizi sociali e culturali e, più degli altri bambini, sono vittime di abusi e violenze. Il rapporto tra disabilità e povertà è bidirezionale. La povertà è causa di disabilità – per esempio perché i bambini che sono partoriti in situazioni igieniche carenti possono subire traumi che portano alla disabilità – e la disabilità comporta anche per le famiglie meno povere l’impossibilità di accedere all’istruzione e diventa quindi causa di ulteriore emarginazione.

In questo contesto difficile Paolo’s Home è solo una mano tesa a chi non vuole arrendersi.

Un’altra mamma, su questa stessa veranda, l’anno scorso. Un quotidiano aveva appena pubblicato la storia di una bambina, di poco più di un anno, con una piccola disabilità fisica che era stata abbandonata dalla mamma nella savana, vicino a Eldoret. Non è dato sapere quanto tempo fosse rimasta in quella situazione, forse qualche settimana; il fatto è che fu ritrovata viva e in buone condizioni fisiche perché era stata accolta, protetta e accudita da un branco di scimmie. La mamma, leggendo quella storia, si mise a piangere quietamente, stringendo al seno la figlia di pochi mesi. Poi mormorò come tra sé e sé, ma con voce sufficientemente alta perché tutti potessero sentire: «Anch’io avevo pensato di fare lo stesso. Adesso invece sono fiera di questa mia figlia. Grazie Janet».

Clicca qui, per vedere il video di Matteo Osanna che ti fa incontrare Innocent, Clarissa, Janet e altre mamme coraggio.

An unfinished work – Un’opera Incompiuta


“Porta di Lampedusa, Porta d’Europa” in ceramica refrattaria e ferro zincato, alta 5 metri, inaugurata il 28 giugno 2008, un’opera di Mimmo Paladino voluta e realizzata da Amani.
“Porta di Lampedusa, Porta d’Europa”, by internationally famous Italian sculptor Mimmo Paladino, is an art work in refractory ceramic and galvanized iron, 5 meters high. It was promoted and implemented by Amani, and inaugurated on June 28, 2008.

La “Porta di Lampedusa, Porta d’Europa” si apre su un mare dove si stima che negli ultimi vent’anni siano perite quasi ventimila persone tentando una difficile attraversata. È in un certo senso un’opera incompiuta. Può restare segno di pietà e luogo di raccoglimento, intristirsi in un freddo monumento funebre oppure diventare il simbolo di un’Europa che si apre verso l’Africa, verso l’accoglienza e una solidarietà nuova.
Starà a noi, negli anni a venire, costruire il suo significato.

Guardando questa porta capiamo che la globalizzazione non è solo merci a basso prezzo che invadono il nostro mercato, e non sarà neppure una nostra nuova modalità per dominare il mondo. La forza della globalizzazione sono le persone che finalmente accedono alla consapevolezza di essere parte di un unico mondo, che vogliono essere responsabili della loro vita, e per questo sono disposti a venire in Europa a fare i lavori più umili: accudire i nostri ammalati, cucinare il nostro cibo e pulire le nostre città.

Il nostro mondo europeo è ormai piccolo e c’è al di là di questa porta un mondo più grande che ci chiede di partecipare e di condividere. L’Europa può essere anche un mondo piccino non solo in senso geografico, ma perché chiuso e meschino. Un piccolo mondo che si pensa al centro dell’universo; che non capisce che al di là dei nostri confini – i quali perdono sempre più significato – c’è un nuovo grande mondo ribollente di vita.

Chiudere questa porta vorrebbe dire chiudersi alla storia e al futuro. L’Europa ha incominciato a capire che il diritto internazionale costruito negli ultimi secoli, il quale nega la possibilità di interferire con gli affari interni di un paese – anche se è in atto una persecuzione o un genocidio – andava forse bene prima della globalizzazione. Adesso è superato. Ma è già anche superato il diritto di intervento umanitario: di fronte ai drammi crescenti della fame e del disastro ecologico, l’Europa viene presa dal panico e risponde alla crescente richiesta di solidarietà con promesse che non mantiene mai (come vediamo regolarmente durante gli incontri del G8) rinchiudendosi negli interessi nazionali e alzando barriere sempre più alte.

In questo momento – e speriamo che sia breve – l’Europa crede a chi percepisce e rappresenta lo straniero come una minaccia, come colui che vuole derubarci della «nostra roba» e della «nostra identità». Invece lo straniero è «colui senza il quale vivere non è più vivere».

Accettando l’altro non gli facciamo un favore: aiutiamo noi stessi; evitiamo di diventare maschere e di immedesimarci sempre più in un’identità immaginata che dovrebbe proteggerci dalle nostre insicurezze interiori, un’identità statica e sterile che ci impedisce di crescere come persone umane e come società. È una tentazione che coinvolge tutti, anche una Chiesa che talvolta sembra preferire il porto sicuro delle antiche abitudini piuttosto che l’avventura del mare aperto.

I poveri però si rifiutano di vivere in una miseria indegna della persona umana, vittime di uno sfruttamento interno ed esterno, di guerre che non capiscono e non vogliono; vengono a cercare da noi il sogno di quell’European way of life che abbiamo alimentato con la nostra propaganda, stupidamente sicuri che il nostro modello di sviluppo fosse l’unico possibile.

C’è chi in Europa crede di poter fermare con le leggi questa ondata di vita che viene ad abbracciarci. Fortunatamente per tutti noi, sono degli illusi. La legge non cambia la storia; anzi, quasi sempre la legge è costretta a seguirla, soprattutto quando si tratta di eventi epocali come le migrazioni oggi in atto. Così chi in Europa tiene gli occhi aperti incomincia a capire che la solidarietà o diventa globale o non ha più senso. Gli egoismi di classe e di nazione sono il linguaggio del passato. Oggi i nostri ragazzi si sentono sempre di più cittadini di un unico mondo e capiscono istintivamente – a meno che siano succubi di martellanti propagande – che la convivenza civile può essere fondata solo su una solidarietà globale, altrimenti è un egoismo mascherato. Fra pochi anni i politici che hanno inventato i muri che dividono le nazioni come fra Messico e Stati Uniti o fra Israele e Palestina, i centri di identificazione ed espulsione e i respingimenti saranno consegnati alla storia come sopravvissuti di un’era in cui nessuno più si riconoscerà.

Sono fiero della mia cultura e della mia tradizione, nelle quali è centrale riconoscere in ogni persona prima di tutto la comune umanità, fonte di dignità e diritti. Solo successivamente si vedono le differenze, le quali ci completano, anzi, mi creano e mi danno vita, perché senza queste differenze non potrei essere me stesso.

Mi sento in comunione con Francesco, il papa-pastore che abbraccia i fratelli sofferenti, non per calcoli diplomatici o equilibri geopolitici, ma “solo” perché essi “sono la carne di Cristo”.

Riguardando questa porta non la vedo più come un monumento ai morti ma come un grande segno di speranza per i vivi. Non facciamo semplicemente memoria di quei poveri corpi in fondo al mare: li riconosciamo come persone che venivano a noi desiderose di condividere la nostra comune umanità. Riconosciamo che loro, che hanno già attraversato un’altra porta – quella che si apre sull’incontro con l’Infinito, con colui che è davvero e definitivamente l’Altro – avevano capito ciò che noi fatichiamo a intravedere: che la fraternità è il nostro orizzonte.

Se Londra compra le lacrime

Oltre mezzo secolo per ammettere di aver massacrato i Mau Mau. E ora la Gran Bretagna si è (auto) riabilitata con pochi spiccioli.

Dopo oltre sessant’anni gli inglesi hanno ammesso le atrocità compiute in Kenya durante la ribellione dei Mau Mau, e lo scorso 6 giugno William Hague, segretario di stato per gli affari esteri, ha dichiarato che Londra ha raggiunto una composizione amichevole con i rappresentanti dei circa cinquemila sopravvissuti ai campi di prigionia, sborsando un totale di circa 23 milioni di euro, che saranno usati anche per costruire un memoriale per le vittime di torture e maltrattamenti durante il periodo coloniale.

È più che altro una vittoria morale, come ha sottolineato il portavoce dei veterani del movimento nazionalista Mau Mau, Gitu wa Kahengeri, notando che nessuno potrà mai ripagare le sofferenze e la morte di migliaia di persone, e che, a conti fatti, ogni sopravvissuto riceverà la non esaltante cifra di circa tremila euro.
Vittoria comunque importante, considerando che ancora nel 2005 il primo ministro Gordon Brown, dopo un breve viaggio in Kenya, affermava che la Gran Bretagna avrebbe dovuto smettere di chiedere scusa per il colonialismo, e, anzi, dovrebbe essere orgogliosa della storia coloniale in Africa, elogiando i «valori britannici», come la libertà, la tolleranza e la virtù civica.

Affermazioni tanto più assurde perché proprio in quei mesi erano stati pubblicati due libri Histories of the Hanged di David Anderson, e Britain’s Gulag di Caroline Elkins, entrambi storici di indubbia fama, che ricostruivano come la Gran Bretagna avesse utilizzato in Kenya feroci metodi di repressione coloniale. Le loro ricerche avevano portato alla luce documenti che l’amministrazione coloniale aveva scientemente cercato di occultare, e dimostrato come per otto anni le truppe coloniali avessero agito al di là della legalità e ogni valore morale, torturando impunemente civili e commettendo omicidi di massa.

In uno dei tantissimi episodi citati e documentati da Anderson un ufficiale inglese racconta, con cinica indifferenza, che mentre sta interrogando tre sospetti “uno di loro, un bastardo, alto e nero come il carbone, continuava a sorridere insolentemente, allora l’ho schiaffeggiato, ma lui continuava a sorridere. L’ho colpito nei testicoli con tutte le mie forze… Quando finalmente riusci a rialzarsi, mi sorrise di nuovo e mi son saltati i nervi. Ho messo la pistola in quella bocca ghignante, e ho tirato il grilletto. Il muro retrostante si copri di pezzi di cervello. Gli altri due indagati guardavano nel vuoto…così ho sparato anche a quei due. Quando e arrivato il commissario gli ho detto che i tre sospetti avevano cercato di fuggire. Non mi credette, ma tutto quello che disse fu: seppelliteli e ripulite il muro.”

Nessun funzionario britannico, militare o civile, è stato mai indagato o processato per quello che è successo nella repressione dei Mau Mau. I documenti venuti alla luce in questi ultimi anni forniscono una documentazione che fa pensare al genocidio. Nel 1952, venne ufficialmente decretato lo stato di emergenza, con conseguente “villaggizzazione”: quasi un milione di indigeni arrestati e costretti a vivere in recinti di filo spinato sotto il controllo armato di agenti di sicurezza.

Il numero di morti causati dalla rivolta e dalla repressione durata dal 1952 al 1963 rimane un mistero. Di certo si sa che i civili inglesi vittime dei Mau Mau non furono più di 40. I civili keniani sono stimati (a seconda di chi fa la stima) tra 25mila e 300mila, quest’ultima cifra è considerata dalla Elkins minimalista, potrebbero essere stati anche 400mila. La Commissione dei diritti umani del Kenya sostiene che circa 90mila furono assassinati e oltre 160mila detenuti in condizioni spaventose. Molti hanno subito castrazione, stupro e violenze della peggior specie. Oggi non c’è nessun dubbio che queste pratiche e i sistematici abusi di diritti umani fossero stati autorizzati ai più alti livelli del governo britannico.

La mossa del governo britannico sembra ispirata dal desiderio di rafforzare i legami politici ed economici con l’ex colonia. Ma ha indotto anche in altri perseguitati politici il desiderio di chiedere compensi per danni subiti. Alcuni Mau Mau non escludono di fare causa al governo del Kenya per averli completamente trascurati dopo l’indipendenza. Inoltre i tribunali stanno ordinando al governo keniano di compensare uomini politici che negli anni del presidente Daniel arap Moi, 1978-2002, sono stati detenuti e torturati.

Dieci giorni dopo l’annuncio di William Hague, due personaggi politici, Gitobu Imanyara e Njehu Gatabaki, e un giornalista, Bedan Mbugua, hanno ricevuto complessivamente circa 300mila euro in compenso delle torture e dei danni subiti. Mbugua, che lavorava per un giornale protestante e sempre sostenne di agire solo in base alle sue convinzioni etiche, fu l’unico giornalista a denunciare le intimidazione e truffe che avvennero durante le elezioni del 1988. Non solo fece tre anni di prigione senza essere accusato di niente, ma la sua carriera e la sua vita furono distrutte da continue interferenze dei servizi segreti. La cifre che i tre hanno ricevuto è ben più alta di quella accettata dai Mau Mau, e si riferisce a violenze pericolosamente molto più vicine nel tempo. Non si può non pensare cosa potrebbe succedere se le vittime delle violenze post-elettorali di cinque anni fa, per le quali sono indiziati alla Corte penale internazionale gli attuali presidente e vice-presidente, decidessero di far causa al governo keniano per non averle protette e compensate per le proprietà terriere perdute e per le vite stroncate dei familiari. Migliaia di loro vivono ancora in situazione di precarietà.

La delusione Obama

I miei amici kenyani sono profondamente delusi, anche se preferiscono non darlo a vedere. Il presidente degli Stati Uniti d’America ha iniziato ieri la sua seconda visita in Africa, e anche questa volta si guarderà bene dal mettere piede in Kenya, il paese di suo padre. Per rendere ancora peggiore lo smacco, si recherà in visita alla vicina Tanzania.

L’elezione di Obama aveva suscitato un’enorme euforia in Kenya perché da senatore prima e da candidato in campagna elettorale poi, aveva esaltato la sua origine kenyana e il suo attaccamento alla memoria del papà. Fresco di nomina al senato degli Stati Uniti, Barack Obama aveva proclamato in un gremito auditorium di Nairobi: «Voglio che tutti voi sappiate che come vostro alleato, vostro amico e vostro fratello, sarò sempre con voi». Non sorprende quindi che tanti kenyani, in quel novembre 2008, si fossero convinti che un kenyano (“one of our sons” uno dei nostri figli, dicevano) fosse diventato presidente degli Stati Uniti. Si farneticava sulle facilitazioni che sarebbero state introdotte per i kenyani desiderosi di acquisire la cittadinanza americana, e non mancarono nemmeno i pronostici sulla possibilità che il Kenya potesse diventare… il cinquantunesimo stato degli Stati Uniti d’America! Raila Odinga, allora prima ministro, si era affrettato a far sapere di essere cugino di Obama, negandolo solo in un secondo momento, probabilmente su cortese invito dell’ambasciata americana in Kenya, che non desiderava proprio che Obama si ritrovasse con un cugino potenzialmente indiziato di crimini contro l’umanità. Erano già sufficientemente imbarazzanti i fratellastri alcolizzati e senza fissa dimora!

Ma non erano solo i kenyani a sperare che stesse per iniziare una nuova era. Imprese internazionali erano pronte a partecipare a bandi di gara per nuovi progetti. Io stesso ero stato avvicinato da un paio di imprese che, credendomi in contatto con potentati locali, mi proponevano di facilitare il loro inserimento nel mercato in vista di lucrosi contratti che, si diceva, sarebbero stati certamente finanziati da Obama. E si sognava la riabilitazione di tutti gli ospedali e delle scuole superiori statali del Kenya. Sarebbero stati necessari apparecchiature mediche e laboratori di fisica, chimica e di informatica.

Come tutti sanno, nulla di tutto questo è ovviamente successo. Obama non solo non si è lasciato intrappolare dalla sua origine etnica, ma per il Kenya, e per l’Africa tutta, ha fatto ancor meno del poco dei suoi immediati predecessori. I successi di cui si può vantare, all’inizio di questo suo secondo viaggio in Africa da presidente degli USA – dal 26 giugno al 3 luglio, toccando Senegal, Sudafrica e Tanzania – non sono molti. Anzi, gli aiuti americani all’Africa che col presidente George W. Bush erano schizzati in alto da 1.1 miliardi di dollari del 2006 agli 8.2 del 2009, sono scesi ai 6.9 del 2011. E poi, le iniziative per promuovere sicurezza alimentare e salute e per contrastare i cambiamenti climatici sono passate in seconda linea rispetto all’impegno per la sicurezza e le operazioni militari. La presenza americana, a volte problematicamente indecisa, è stata molto più visibile sui campi di battaglia, con il lancio di missili, ma anche l’invio di militari kenyani ed etiopici all’assolto della Somalia, con il sostegno ai ribelli libici contro Muammar Gaddafi, la spesa di milioni di dollari per addestrare gli eserciti africani a combattere gli estremisti islamici e la costruzione di una base per i drone nel deserto del Niger. Ttto questo mentre altri paesi come India e Brasile, ma sopratutto la Cina, hanno enormemente accresciuto i loro investimenti e gli scambi commerciali con l’Africa.

Questo viaggio intende forse spostare l’accento. Ma lo scarso entusiasmo con cui Obama è stato accolto lascia immaginare che non ci riuscirà. Senza contare il rischio enorme rappresentato dalla possibilità che Nelson Mandela venga a mancare proprio durante la visita di Obama in Sudafrica. Il che non solo farebbe passare la visita assolutamente in secondo piano, ma potrebbe richiedere addirittura che l’agenda del presidente venga completamente modificata. In Africa, infatti, si partecipa al lutto ed è inimmaginabile che si abbandoni la famiglia in difficoltà per andarsene ad altri impegni. Sarebbe uno sgarbo imperdonabile.

Per i kenyani la realizzazione che Obama non è “one of our sons” che solo per caso è nato in America, è avvenuto durante il suo primo viaggio in Africa, di sole 20 ore, in Ghana, nel 2009. Ogni passaggio del discorso che pronunciò in quell’occasione, lodando i progressi di quel paese, sembrava essere stato scritto apposta per denunciare i corrispondenti fallimenti del Kenya.

Oggi i segnali che Obama è ormai un personaggio distante e poco amato non mancano. Pochi giorni fa l’editoriale del più importante quotidiano kenyano ammetteva malinconicamente che, dopotutto Obama, «è il presidente degli Stati Uniti che è in visita in Africa, non un kenyano moralmente obbligato a ritornare a casa”. In realtà, nonostante alcune analisi apparentemente distaccate e neutrali sull’inizio del secondo mandato di Obama, per molti kenyani si tratta di poco meno di un traditore.

Il senatore Barak Obama in visita a Kibera, Nairobi, nel 2006.

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