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Life

Abitare ai Margini

Quando, nel 1999, sono andato a viverci, il posto era chiamato Riruta Satellite, ed era un grande quartiere di circa 80,000 abitanti alla periferia di Nairobi. Oggi, nelle stessa area, gli abitanti sono probabilmente 200,000 e Riruta Satellite si è frazionata in altri quartieri: Ndurarua, Satellite, Railway, Kabiria, Kivuli. Oggi la mia residenza e’ a Kivuli, periferia di Kabiria, periferia di Satellite, periferia di Rituta, periferia di Nairobi, periferia dell’Occidente. Le periferie si espandono e il centro si allontana sempre più. Il centro, dove c’è la vita vera, quella che si vede in televisione, dove ci sono ricchezza e potere.

Gli abitanti delle periferie delle metropoli africane continuano a crescere vertiginosamente, dando forza ad un fenomeno che è mondiale: per la prima volta nella storia da un paio d’anni le persone che vivono nelle città, superano quelle che vivono nelle zone rurali. Nelle grandi metropoli, come a Nairobi, le periferie degradate e le baraccopoli sorte illegalmente su spazi che non appartengono a chi ci vive, sono la residenza di oltre il 50 per cento dei cittadini.

A Riruta, che propriamente non è uno slum o baraccopoli perché i lotti di terreno, pur piccoli, hannoun legittimo proprietario, le strade sono in condizioni disastrose; le fognature, la rete elettrica, quando ci sono, raggiungono solo le strade principali. La rete telefonica è diventata inutile ed obsoleta a cause dell’onnipresenza dei telefoni cellulari. La stazione di polizia è un insieme di baracche in lamiere arrugginite, segno della scarsa considerazione che lo stato da a questo quartiere. Servizi sanitari e scuole pubbliche sono assolutamente inadeguate, come quantità e qualità, come testimonia il proliferare di dispensari e scuole private pure di scarsa qualità, frequentate da chi non ha migliori alternative.

Negli ultimi due anni sono iniziati lavori per il miglioramento almeno della strada principale e della rete fognaria, ma procedono con lentezza esasperante. Si viene a vivere qui perché costa meno che vivere più vicino al centro, ma il vivere qui rafforza quotidianamente, in mille modi sottili, la consapevolezza di essere gli ultimi, di non contare niente, di vivere ai margini della società. La persone importanti vivono altrove, il fatti importanti succedono altrove. Gli unici fatti rilevanti che accadono qui sono gli occasionali crimini, ma spesso non sono neanche giudicati degni di menzione nei mass media.

Eppure, per quanto possa sembrare incredibile, questa Riruta, periferia delle periferie, è per molte persone una meta agognata, il traguardo che promette la fine di tutte le sofferenze, il sogno di un futuro migliore mantenuto vivo attraverso lettere di amici che vi ci si sono stabiliti già da qualche anno. Chi vorrebbe vivere a Riruta? Per esempio chi vive nelle zone rurali dove servizi sanitari e scuole sono pochi a sparsi su vaste aree. I giovani che coltivano il sogno di migliorare il proprio livello di educazione, e di accedere ad opportunità di lavoro diverse dall’agricoltura o pastorizia di sopravvivenza. Le migliaia di disperati che sono arrivati in Kenya da Sudan, Sud Sudan, Somalia, Rwanda e Burundi e sono stati forzati a risiedere nei campi rifugiati, ancora più lontani dal centro, ancora più ai margini, in località aride, campi dove vivere significa dipendere dalle razioni alimentari della carità internazionale. La crescita travolgente di Riruta è soprattutto dovuta all’immigrazione da queste aree ancora più marginali.

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Cosi chi vive qui è doppiamente ai margini. Alla periferia della città ma anche alla periferia delle cultura tradizionale di provenienza. Caso emblematico è Harrison, che fa il catechista volontario in una delle tante chiese locali. Viene dalla riva del lago Vittoria, 400 chilometri da Riruta, da una famiglia di pescatori. Terminata con difficoltà la scuola superiore ha deciso di venire in città per lavorare e frequentare un college la sera. Ma son passati dieci anni, ha fatto pochi esami al college e fa solo lavori occasionali di manovalanza. Ogni volta che che riesce ad accumulare un piccolo gruzzolo per pagare le tasse universitarie succede qualcosa al villaggio e gli viene chiesto di contribuire: il funerale di un parente, i testi scolastici per un nipote, il costo di un ricovero ospedaliero della sorella minore. La tradizione comunitaria vuole che ogni familiare contribuisca a questi costi, tanto piu uno che vive lontano nella ricca città e Harrison non può rifiutarsi. La tradizione vuole anche che Harrison, in quanto primogenito, sia il primo a sposarsi e costruisca la sua casa vicina a quella del padre. Se non lo fa, i fratelli non possono sposarsi a loro volta. Cosi Harrison finisce per esaurire le sue minime risorse economiche per continuare a sentirsi parte di una posto in cui non vive, e nello stesso tempo è emarginato nella grande Nairobi, sul posto degli occasionali lavori, dove i valori importanti non sono comunità e condivisione, ma efficienza, potere economico. Harrison vive in una terra di mezzo, se non avesse il sostegno della comunità cristiana potrebbe, come tanti, soccombere alla depressione, all’alcool o alla droga. Lui non ha perso il senso dell’ironia.“Riruta – mi dice – è una metafora della vita. Qui se chiedi a chiunque la sua origine ti dice che proviene da qualche altra parte del Kenya. Chi potrebbe essere orgoglioso d’essere nato qui? Siamo tutti di passaggio, in attesa che si apra la possibilità di una vita vera e dignitosa. Per qualcuno di noi questa vita vera incomincerà soltanto nell’altra.”

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A Riruta non ci sono solo storie drammatiche. Le periferie sono, per chi è capace di vedere, anche i laboratori della società del futuro. Qui la società muta, inventa nuove forme di sopravvivenza. Nei quartieri della Nairobi ricca si rinforzano le siepi divisorie con filo spinato, ci si chiude dietro alti muri, si aumentano i fari per illuminare a giorno i dintorni delle ville e si moltiplicano le guardie notturne – tutti poveracci che di giorno vivono in quartieri come Riruta e di notte proteggono i ricchi – cosi che nessuno turbi il mondo dorato in cui si vive. Invece nelle nelle periferie nascono e crescono tutti i fermenti di questa società. Alcuni sono fermenti di violenza e di odio, ma altri sono fermenti di solidarietà e dignità.

Qui c’è Lionel che a meno di trent’anni sta preparandosi la morte per alcoolismo, ma che dipinge dei quadri in cui la vita esplode con le più straordinarie forme e colori. C’è Adhiambo, che vive in una baracca, lavora da commessa, e la sera con un computer da museo scrive racconti per bambini. C’é Juma, il tecnico di computer che dopo una giornata di lavoro, mentre la moglie prepara la cena su un fornello a carbonella e i figli fanno i compti, lavora su un portatile per sviluppare un nuovo software. E c’ é Anjela, che vuole avviare un gruppo di sostegno per le coetanee sieropositive. La periferia, per chi crede e vuole lasciarsi rinnovare, è l’ incontro col Dio che non tiene niente per sé, che viene dal basso, che ti guarda con gli occhi dei piccoli, ti comunica sapienza con la voce delle prostitute, ti benedice con la voce del vecchio che sta per morire.

Nelle periferie c’è chi non ha niente da perdere, e si gioca tutta la vita su un numero solo, puntandoci con tutta la perseveranza e creatività che possiede. Le periferie sono terreno recettivo e fertile per il Vangelo. Le beatitudini sono ascoltate da occhi e cuori aperti. Qui siamo ai margini della città, certamente non ai margini della vita.

Lampedusa e Garissa: la stessa Storia

Non è uno scontro di civiltà, è una scelta di civiltà.

La strage di Garissa sta cambiando l’autocoscienza del Kenya come la strage di Westgate non era riuscita a fare. A Garissa sono morti studenti, giovani, figli di famiglie che avevano riposto in quei giovani le speranze di tutti. Giovani, letteralmente, di tutti i popoli, e lingue e religioni del Kenya. Giovani che studiavano inseguendo il sogno di una promozione sociale, ma anche di un Kenya più giusto dove tutti i cittadini possono avere gli stessi diritti. Esattamente l’opposto dei loro assassini, rappresentanti di una società fanaticamente chiusa su sé stessa e incapace di dialogo.

Ne sono state vittime anche musulmani, non solo fra gli studenti uccisi. Ne è stata vittima la mamma musulmana che abbiamo visto piangere disperatamente abbracciata alla salma del figlio ucciso a Garissa. Tutti gli altri musulmani adorano il vero Dio, Misericordioso e Benevolo. La ferocia degli assassini non può più essere travestita da zelo religioso. I massacratori di Garissa erano gli esecutori di piani pensati da persone che in Dio non credono. Perché credono solo nel potere e nella ricchezza.

In questi giorni il governo del Kenya sta reagendo in modo scomposto, ansioso di mostrare che sta prendendo tutte le misure necessarie per accrescere la sicurezza, dopo la fallimentare gestione della crisi. Eccolo quindi a sospendere i conti bancari di molte organizzazioni e ong islamiche, senza peraltro provare che queste organizzazioni abbiano un qualsiasi legame col terrorismo. Si è riproposto di chiudere entro tre mesi il campo dei rifugiati somali di Dadaab, rimpatriandoli tutti, un’impresa titanica oltre che sbagliata, quasi impossibile da realizzare anche da un governo dotato di polizia e amministrazione efficienti e incorruttibili. Ha annunciato solennemente che metterà in sicurezza la frontiera costruendovi un muro – non è stato specificato quanto alto – ignorando forse che dovrebbe essere lungo oltre settecento chilometri, ponendo problemi enormi di costruzione, gestione e sorveglianza. Un ministro ha addirittura proposto che prima di accedere all’università tutti gli studenti facciano un corso obbligatorio di antiterrorismo.

Non possiamo dimenticare che il terrorismo somalo contro il Kenya è stato scatenato dalla decisione nel 2011 dell’allora presidente Mwai Kibaki, di inviare truppe kenyane in Somalia, ufficialmente parte dell’AMISOM (Missione dell’Unione africana in Somalia) per ristabilire il potere del governo che si era installato a Mogadiscio con l’appoggio delle potenze occidentali. Gli Stati Uniti in particolare avevano fatto enormi pressioni su Kibaki, garantendogli il supporto logistico per intervenire là dove l’esercito americano aveva miseramente fallito vent’anni prima. I kenyani vennero a sapere di questo intervento a cose fatte, quando già i loro soldati erano entrati in Somalia. Oggi nessuno può dire con certezza quanti soldati kenyani siano morti in Somalia. Probabilmente molti ma molti di più degli studenti morti a Garissa, ma i veri numeri li conoscono solo al Pentagono. Il Kenya è stato lasciato solo a pagare il conto della violenza.

La società civile kenyana, le ong, le comunità religiose delle diverse fedi hanno assunto atteggiamenti più sfumati e ragionevoli che non il governo. Sia nei mass media che negli ambienti che frequento, e sono i più vari, non ho sentito una voce in favore di risposte violente o meramente punitive. Tutti capiscono che il cancro è interno, il mostro da abbattere è prima di tutto dentro di noi e poi all’interno della società. Il grande mostro in Kenya, da cui nascono tutti gli altri mali, è la corruzione.

Personalmente ritengo che in questa crisi epocale dobbiamo abbandonare la logica della violenza e dimostrare di credere per davvero ai grandi principi che in Europa e America del Nord, più che altrove, sono cresciuti e sono stati codificati: giustizia sociale e diritti umani, democrazia, rispetto della vita di tutti. Questi valori rappresentano una conquista di tutta l’umanità. Non possiamo permetterci di sospenderli neanche mentre resistiamo alla furia di un fanatismo ottuso e retrogrado.

Sappiamo però che nelle stanze dei bottoni delle grandi potenze predominano ancora altre logiche. Succede così che paesi grandi per il loro potere economico-militare si rivelino poveri di anima e di visione. Potenze grandi nelle loro affermazioni e discorsi si rivelano meschinamente dedite alla difesa dei propri venali interessi. Grandi per il livello medio di vita, ma piccole, piccolissime perché succubi dell’economia e della finanza.

Mentre guardo sui giornali di Nairobi le foto degli studenti di Garissa mi pare di sentire da loro un invito a uscire dalle logiche meschine, per guardare il mondo con occhi grandi e aperti. Occhi capaci di sognare, ma anche di leggere la storia. Ecco perché il massacro di Garissa non può essere disgiunto dall’immane tragedia in atto nel Mar Mediterraneo. Ciò che vi sta avvenendo, l’ondata dei richiedenti asilo, dei profughi economici, i drammi delle centinaia di annegati, aggravati, dramma nel dramma, dalla disperazione di poveri cristi musulmani che buttano a mare altri poveri cristi cristiani, i morti per mancato soccorso perché nei corridoi del potere dell’Unione europea c’è ben altro a cui pensare, fa parte della stessa storia degli studenti di Garissa.

Della stessa storia fanno pure parte gli operatori della finanza, dell’economia e della politica che a New York, Washington, Londra, Parigi, Mosca, Milano e Beijing, continuano a dividere il mondo in “noi” e “gli altri”, coloro che manovrano i mercati così che chi in Africa estrae il coltan, coltiva le rose, produce il cacao, il tè e il caffè, continui a vivere nella miseria più disperata. Della stessa storia fanno parte i fabbricanti e mercanti di armi che hanno riempito questa nostra madre Terra di ordigni sempre più sofisticati per uccidere, invece che di energia pulita, agricoltura biologica, informatica per lo studio e di pace. E in questa storia sono anche i politici che seminano divisione e odio, che parlano di ributtare a mare gli immigrati, che hanno deciso di tagliare i fondi italiani ed europei alle operazioni di salvataggio in mare. Le mani, probabilmente ben curate di questi signori grondano del sangue dei loro fratelli come, anzi di più, di quelle dei poveri disperati che scaraventano in mare altri disperati.

I signori della guerra che operano dalla grandi capitali del mondo, e che la guerra la fanno fare agli altri perché loro sono troppo occupati a far soldi, sono per lo meno altrettanto colpevoli delle sofferenze di questo nostro mondo quanto i signori della guerra della Somalia, del Sudan e della Libia.

Continueremo a rispondere alla violenza con una violenza ancora più grande, più pervasiva, meglio camuffata? Questa è ormai una scelta che siamo tutti chiamati a fare, come individui e come società. Saremo capaci di fare tutti insieme un passo in avanti, di superare le divisioni e i confini e, almeno come ideale se pur lontano, muoverci verso una comunità internazionale in cui veramente tutti abbiano gli stessi diritti?

Come reagire alla violenza e al pericolo non è dato sapere finché non ci si trova dentro. Personalmente mi chiedo quale sarebbe la mia reazione se venissi a trovarmi faccia a faccia con un violento che vuole uccidermi. Tenterei una disperata difesa usando violenza? O cercherei di far leva sul residuo di umanità che anche i più incalliti terroristi si spera abbiano nascosto in fondo al cuore? Non lo so. Forse, per salvare altri a cui voglio bene, tenterei anche la difesa violenta…

Ma vorrei sperare di poter reagire come hanno fatto i cristiani su quel barcone che si sono opposti alle violenza di chi voleva gettarli in mare avvinghiandosi l’un l’altro, come hanno fatto quei quaranta giovani, seminaristi burundesi, che nel 1995 in risposta a che voleva separali lungo linee tribali, hanno preferito morire abbracciati, o come i lavoratori egiziani decapitati in Libia pronunciando il nome di Gesù.

Sono comunque contento della compagnia in cui mi ritrovo, o in cui mi ha posto la somma di piccole scelte che ho fatto nella vita. Oggi, domenica, a Kivuli, estrema periferia di Nairobi, ho passato il pomeriggio ad ascoltare giovani che sono stati travolti dalla povertà, dalla droga, si sono invischiati nella piccola criminalità… per riprogettare insieme il loro futuro. Ho trovato persone capaci di sorridere di sé stesse, di piangere, di gridare disperate, di voler bene, di impegnarsi a cambiare. Esseri umani, vivi e veri, che sfidano anche me a essere vivo e vero. Persone, coetanee degli studenti di Garissa, che puzzano di povertà. È insieme a loro che anch’io, con tutte le persone che magari pensano di non essere coinvolte in questa storia, voglio che ci liberiamo dalla “spuzza” di corruzione, di odio e di morte che tutti, tutti, ci portiamo addosso.

Yusuf, Piotr e il Padre

Piotr
Aprirsi all’incontro con gli altri per costruire il futuro.

Oggi a Tone la Maji, una casa per bambini di strada alla periferia di Nairobi, è arrivato Piotr. Non è un keniano con un nome polacco – non ci sarebbe da meravigliarsi, in strada ho trovato bambini con i nomi piu improbabili, come Reagan, Clinton, Amsterdam, Limited e perfino Ivanovich – ma un ragazzo di vent’anni autenticamente polacco che appena terminata la scuola superiore ha chiesto di fare un’esperienza di tre mesi in Africa prima di entrare in seminario. L’ho riconosciuto subito all’aeroporto, un viso aperto ed un accenno di barba bionda. Siamo arrivati a casa poco prima di cena. I bambini lo hanno assaltato eccitati, tutti volevano fare qualcosa per lui, portagli il bagaglio, indicargli la stanza, fargli assaggiare i meloni del nostro orto. Piotr all’inizio si scherniva, poi si è lasciato andare all’autentico affettuoso calore dei nuovi amici e quando è arrivata la cena – polenta, cavolo e lenticchie – era già parte del mondo di Tone la Maji ed ha mangiato di gusto, solo un po impedito da Yusuf, il piccolo musulmano che è con noi dagli inizi di febbraio, che era sempre aggrappato al suo braccio.

I giovani non hanno paura degli altri. Capiscono istintivamente che si cresce e si diventa umani solo incontrando gli altri. L’appartenenza sociale, le differenze religiose, il colore della pelle, le difficoltà della lingua sono superate di slancio appena si guardano negli occhi. Solo le esperienze negative, il rifiuto, l’abbandono e il tradimento, possono incrinare o addirittura negare questo bisogno di socialità, o di comunione con gli altri, come direbbe la spiritualità cristiana.

Mentre Piotr mi mostra il selfie che ha fatto con i nuovi amici, sempre con Yusuf aggrappato al braccio, e mi dice “E’ straordinario, ci siamo già riconosciuti fratelli”, penso che quest’immagine potrebbe illuderci che la fraternità sia a portata di mano, che la prossima generazione la realizzerà. No. Purtroppo è difficile credere che quel seminarista polacco abbracciato dal bimbo musulmano keniano possa essere un’icona credibile del nostro immediato futuro. C’è ancora molto da fare.

Una convivenza che non sia solo reciproca sopportazione ma sia intimamente e sinceramente rispettosa degli altri nasce da un lavoro faticoso a livello personale e sociale. Incontrare gli altri, invece di scontrarsi con loro, tenere sotto controllo i mostri che abbiamo dentro, costruire fratellanza e solidarietà non è facile e spontaneo. Per me cristiano significa tornare alla semplicità del Vangelo, al Gesù che si presenta ai discepoli con le braccia aperte e pronte all’accoglienza, pur sapendo che le stesse braccia aperte sono già state inchiodate alla croce, e che potrebbe succedere ancora. Significa restare davvero giovani dentro, la giovinezza dell’essere pronti ogni giorno al rischio di incontri nuovi, non l’ipocrita giovinezza dei capelli tinti, del volto rifatto, del sorriso senza anima. Significa coscientemente, metodicamente giocarmi la vita con una disciplina interiore che mi aiuta a tenere lo sguardo verso Colui che è l’incontro per eccellenza, giorno dopo giorno, fino all’ultimo.

Da adulti che hanno già sperimentato la durezza della realtà e magari sono diventati un po cinici per la continua assunzione dei veleni della discriminazione e del razzismo che sono diventati parte della nostra cultura,in Kenya come in Europa, sappiamo che l’incontro con gli altri solo raramente nasce dalla improvvisazione e dalla spontaneità. Incontrare chi puzza di povertà e di alcol, chi straparla sotto l’effetto della droga, chi ti guarda con odio perché non rientri nei suoi chiusi schemi mentali, o, peggio ancora, l’ipocrita e il perbenista che si crede al centro del mondo, il politico che per mestiere e per voti è semina rancore e odio, è un esercizio che si non si può fare senza allenamento e forza interiore. Insomma, il “Padre Nostro” recitato il mattino deve essere veramente un programma di vita.

Il Venerdì Santo del Kenya

“Il male che fanno ai cristiani è terribile, ma anche il male che fanno a noi musulmani non si può misurare”. E’ il mattino del Venerdì Santo, ed Alamin, gli occhi bassi, addolorato e mortificato, commenta così il titolo del giornale di Nairobi sulla strage di Garissa: “147 morti, 79 feriti nell’attacco al campus”. Sono tre i musulmani in gruppo di una ventina di studenti che avevo programmato di incontrare già da qualche giorno.

Gli studenti sono accomunati dal dolore per la brutale mattanza, che diventa subito il tema centrale del nostro incontro. Sanno che gli assassini hanno selezionato i cristiani per essere uccisi, anche se fra le vittime non sono pochi i musulmani, addirittura alcuni che stavano pregando nella moschea. Sanno anche una cosa ignorata da molti commentatori occidentali: gli studenti di Garissa sono tra coloro che, seppure hanno ottenuto l’acceso all’università, appartengono alle famiglie più povere. In Kenya, infatti, vige la regola che gli studenti di livello terziario che accedono all’educazione pubblica vengano mandati a studiare in una università al di fuori della loro regione. Possono indicare le loro preferenze, ma Garissa, una cittadina fuori dalle strade di grande comunicazione, e perduta nella zona semi-arida e inospitale verso il confine con la Somalia, è fra i campus meno gettonati. Cosi ci finiscono gli studenti poveri e privi di raccomandazioni, di estrazione sociale ben diversa da quelli delle prestigiose università private di Nairobi.

Le foto sui giornali locali mostrano solo studenti feriti e in fuga, misericordiosamente risparmiandoci le foto degli uccisi, ma la precise descrizioni dei giornalisti fanno facilmente immaginare i corpi dilaniati delle pallottole, ed evocano la carne del Cristo morente sulla croce, con immediata fisicità e crudezza.
Gli studenti non risparmiano critiche all’élite politica e sociale del Kenya, che vive nelle super-protette aree residenziali di Nairobi come fossero il satellite di un altro pianeta, preoccupata solo di accumulare potere e ricchezza. Fanno battute amare sul presidente che solo pochi prima aveva criticato il governo inglese che aveva sconsigliato ai propri cittadini di visitare il Kenya e alcune specifiche aree, la costa e Garissa incluse. Altre battute amarissime sulla corruzione, che permette agli agenti di Al Shabaab di muoversi senza controlli effettivi su tutto il territorio e addirittura di infiltrare le strutture governative.

Eppure il sentimento che prevale è quello di partecipazione al dolore dei sopravvissuti e delle famiglie delle vittime. Parole durissime per gli assassini – ben lontane, bisogna dirlo, dalle parole di Cristo sulla croce – ma non una parola di accusa e neanche di presa di distanza verso i musulmani presenti e l’Islam in quanto tale. C’è la preoccupazione che il ripetersi di atti terroristici finisca per scavare una divisione profonda e che questa possa trasformarsi in odio fra gli appartenenti alle diverse religioni.

Il rapporto cristiani e musulmani è un nodo cruciale per le prossime generazioni in questa parte d’Africa e dovrebbe essere al centro delle preoccupazioni anche di tutti gli agenti pastorali. Eppure non c’è ancora stata una grande riflessione comune, che abbia cercato di raggiungere tutti. E così convivono molte visioni diverse e contrastanti. Una parte di cristiani crede che la soluzione sia nell’imposizione della proprio fede, senza escludere la sopraffazione.

Qualche mese fa avevo visto lo stesso Alamin uscire dall’aula della scuola superiore dove frequentava l’ultimo anno con gli occhi pieni di lacrime di rabbia e umiliazione perché un missionario italiano, che aveva fatto una conferenza agli studenti su come affrontare responsabilmente la vita, aveva insultato pesantemente e indistintamente tutti i musulmani e la loro religione.

Visto da Nairobi il fondamentalismo islamico può vincere solo se riesce a scavare un solco di odio fra gli appartenenti alla diverse religioni. Per questo, la nostra risposta al terrorismo non può seguire la stessa logica, ma deve tornare ai valori del Vangelo: l’amore, il dialogo, la croce e il perdono. Deve sconfessare, come fa papa Francesco, chi usa Dio al servizio della violenza e della morte, e aprirsi al dialogo con tutte le persone di buona volontà.

In una prospettiva di fede, il sangue dei martiri è seme di cristiani, e dopo il venerdì di passione viene la Pasqua. Ma neppure una fede salda e la certezza della vittoria del bene sul male ci esimono dallo studiare e dal cercare di capire la storia che si sta evolvendo intorno a noi. Da questa prospettiva, è preoccupante la mancanza di una matura riflessione su quanto sta succedendo nella grande area africana, area in rapida espansione, in cui musulmanesimo e cristianesimo si incontrano e purtroppo spesso si scontrano.

Non basta, come fanno i vescovi di tutte le chiese cristiane keniane dopo ogni episodio di terrorismo, lanciare generici appelli di indignata condanna e rinnovare le richieste al governo di aumentare le forze di sicurezza e di dimostrare una maggiore determinazione nella lotta contro la corruzione. Bisognerebbe favorire un’analisi delle forze che si scontrano in questo momento storico, l’elaborazione di una comune riflessione su come porsi di fronte all’Islam e in genere alle altre religioni. Senza escludere la Religione tradizionale africana, come sempre il grande assente dal dibattito pubblico, ma pur sempre viva – eccome! – nella profondità dell’anima di tutti gli africani.

La Malattia del Presidente

Lo scorso 8 marzo, il Presidente dello Zambia si è accasciato e ha perso conoscenza per qualche minuto mentre presiedeva le celebrazioni pubbliche per la Giornata internazionale della donna. È stato trasportato in Sudafrica “per cure richiedenti una tecnologia non disponibile in Zambia” ed è rientrato. Successivamente ha ripreso le sue normali attività.

Molti però non considerano convincenti i comunicati ufficiali sulla salute del Presidente. Circolano molte spiegazioni diverse. Non c’è da meravigliarsi se quello che in altre circostanze potrebbe essere giudicato come un malessere passeggero, abbia attirato tanta attenzione: sono ben due i Presidenti zambiani morti per malattia mentre erano in carica. E la gente ricorda che solo pochi mesi prima, i comunicati ufficiali dicevano che l’allora presidente Michael Sata si trovava in vacanza, mentre in realtà era già…morente in un ospedale londinese. La stessa mancanza di chiarezza dei bollettini medici del giugno del 2008, quando un altro Presidente, Levy Mwanawasa, aveva avuto un infarto mentre si trovava in Egitto per un vertice dell’Unione africana, ed era stato trasportato in un ospedale a Parigi dove sarebbe morto nell’agosto dello stesso anno.

Destino curioso quello dei presidenti zambiani. Il primo presidente, Kenneth Kaunda, ormai ultranovantenne, è rimasto in carica 27 anni e 9 giorni. Il secondo Frederick Chiluba, è durato 10 anni e 61 giorni, morendo poco dopo la fine del suo secondo mandato. Il terzo, Levy Mwanawasa resistette per 6 anni e 230 giorni, morendo come detto sopra a Parigi. Il quarto, Rupiah Banda, è stato eletto per completare il mandato di Mwanawasa rimanendo di carico per 3 anni e 86 giorni, e finendo sconfitto alle successive elezioni da Michael Sata, che è stato in carica solo 3 anni e 35 giorni, morendo il 28 ottobre 2014.

Salta agli occhi subito che ogni Presidente è rimasto in carica per un tempo più breve del suo predecessore. E questa stranezza continuerebbe se Edgar Lungu non venisse rieletto. Lungu, infatti, è stato eletto solo per completare il mandato del suo predecessore, che terminerà fra meno di due anni, cioè entro la fine del 2016
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A livello popolare la scarsa salute del presidente Lungu viene attribuita alla sua predilezione per i super-alcolici, una voce che circolava già prima delle scorse elezioni. Il 19 marzo, un quotidiano molto popolare e notoriamente critico del Presidente ha pubblicato un velenoso editoriale in cui, riferendosi a una sua frase dopo il ritorno dal Sudafrica, gli suggerisce di non appellarsi a Dio e alla simpatia della gente, ma piuttosto di ammettere che sta pagando per la sua vita disordinata: «Edgar (Lungu) conosceva benissimo le conseguenze della vita che ha vissuto. Una vita sociale irresponsabile, con nottate intere passate bevendo. E oggi siamo noi a pagarne le conseguenze!».

In altri paesi africani, se fossero morti due presidenti in carica si penserebbe magari a morti violente, ad avvelenamenti o a malocchio. Niente di tutto questo in Zambia, un paese che pur essendo in una posizione geopolitica delicatissima non ha mai avuto colpi di stato, ne conflitti interni o esterni, e che dal 1991 vede presidenti di partiti diversi succedersi con elezioni pacifiche e democratiche. La morte dei due presidenti in carica non è stata attribuita ad intrighi. Semplicemente, si sono ammalati. Ma ormai lo stato di salute del presidente è diventato causa di preoccupazione nazionale e non manca chi maliziosamente si domanda se ci saranno molti candidati alle elezioni del 2016!

Guerra civile. Prevista.

In Sud Sudan esplode ancora la violenza. Alcuni leader storici passano dalla guerra di liberazione al genocidio.

Natale a Kivuli, Nairobi. Tanti bambini, giovani, un bel gruppo di scout italiani. Ieri sera Messa, canti, un po di torte, abbracci e auguri. Oggi, dopo la Messa del mattino in parrocchia, giochi, danze, musica a tutto volume tutto il giorno, la registrazione con Instagram di un messaggio di auguri a papa Francesco. I più piccoli sono felici, ma per i membri di Koinonia la gioa del Natale è guastata dalle continue terribili notizie dal Sud Sudan, dove tanti di noi hanno lavorato quando il Sudan era ancora un unico paese, sopratutto sui Monti Nuba, nelle scuole che abbiamo gestito per una decina d’anni.

Gli amici nuba che vivono vicino a noi seguono come tutti, ma con più grande apprensione, gli avvenimenti sud-sudanesi. La repressione contro i nuba da parte del governo di Khartoum, ripresa nel giugno 2011, aveva provocato un esodo verso il Sud Sudan. Le notizie di questi giorni ci dicono invece che migliaia di nuba, sopratutto donne e bambini, che si erano rifugiati a Yida, un campo profughi in Sud Sudan che aveva raggiunto gli ottantamila residenti, stanno tornando a casa. Meglio essere bombardati in casa propria piuttosto che essere intrappolati in una guerra civile fatta da altri, dei quali neanche si capiscono bene le ragioni. Farid, Yassir, Juma, Yohannes, ogni poche ore riescono ad avere notizie da parenti e amici che sono rimasti intrappolati a Juba o Bor, o Bentiu, e altri che sono già rientrati, dopo marce estenuanti, sui monti e si sono messi in contatto radio. Altre notizie frammentarie arrivano dai keniani che sono stati evacuati.

La ferocia degli scontri etnici porta alla luce tutta l’arretratezza del Sud Sudan, il peso di una lunghissima stagione di violenze, la sete di potere e l’incapacità dei leader.

Purtroppo bisogna fare i conti anche con i giornalisti che vogliono essere i primi a dare notizie e non le verificano, le esagerano, danno notizie solo da una delle due parti, e cosi facendo alimentano il conflitto, amplificano straordinariamente le tensioni, creano la psicosi. Mi è capitato di sentire un keniano evacuato il quale parlava concitatamente di pulizia etica in atto a Juba con uccisioni casa per casa, di torture e di stupri. Ad una domanda precisa e insistente ha finito con l’ammettere che lui non ha visto niente, che alla notizia degli scontri si è chiuso in casa ed ha saputo tutto dalle emittenti straniere. Come noi a Nairobi.

I fatti verificati, anche da un amico giornalista che ha visitato Juba per poche ore, sono comunque gravissimi e le vittime ormai si contano a migliaia. In un breve collegamento via Facebook con Yida un amico sud-sudanese mi racconta cose tremende accadute fra dinka e nuer, anche se finora i nuba non sono stati coinvolti.

Tutto era scritto a lettere chiare. Antipatico dirlo, ma mi era stato facile prevedere quello che sta succedendo in un blog dello scorso luglio. Sorprende che la comunità internazionale non sia intervenuta per tempo dopo tutte le dichiarazioni di sostegno al “paese piu giovane del mondo”? Niente più ci sorprende. Neanche che adesso la comunità internazionale esprima il solito finto stupore e faccia i soliti inefficaci interventi diplomatici.

La responsabilità è tutta e primariamente dei leader. Inutile cercare colpevoli esterni. Può esser vero che alcune forze estranee cerchino di approfittare della guerra per trarne vantaggi (forniture petrolifere), è certamente vero che il governo del Sudan, a Khartoum, gongola e probabilmente sta alimentando le tensioni. Ma non sono fattori determinanti. Il fattore determinante degli scontri è che i leader sud-sudanesi, che hanno studiato a Mosca e negli Stati uniti, usano la loro preparazione e competenza al servizio esclusivo delle propria sete di potere e trascinano le loro genti in avventure tanto inavvedute quanto criminali. Un peso gravissimo che condizionerà per molti anni ancora la possibile rinascita del Sud Sudan.

Aiuto! E’ tornato il Concilio – Help! The Council is back.

Papa Francesco ha fatto ripartire il Concilio, anche se per molti sarà difficile dimenticare le delusioni dei decenni appena trascorsi.

Evangelii Gaudium, l’esortazione apostolica di papa Francesco pubblicata pochi giorni fa, è la conferma che il Concilio Vaticano II, con le sue grandi aperture e visioni, è tornato al centro della vita della Chiesa. Questo è per me, missionario di periferia, il significato complessivo del documento. Il Vaticano II deve essere vissuto, non studiato, analizzato, e poi rimesso in archivio, come si e spesso fatto nei quasi cinquant’anni che sono trascorsi dalla sua chiusura. Papa Francesco, il primo Papa che non è stato presente al Concilio, come invece lo sono stati in vesti diverse i suoi immediati predecessori, ne è un autentico figlio.

Papa Francesco ha rimesso in movimento il Concilio. Non lo nomina in continuazione, ma non ce n’è bisogno, perché ogni sua frase ne è ricca di rimandi. Cosi come non fa continuamente citazioni evangeliche e bibliche, ma le sue azioni più che le sue parole evocano continuamente il Vangelo.

Probabilmente molti fedeli e molti preti della mia età, quelli che da giovani adulti e giovani preti hanno vissuto gli anni straordinari del dopo-Concilio, ancora stentano a crederlo. Molti non si sentono preparati a ripartire. Bisogna dirlo, troppe sono state le delusioni.

Mentre gli apologeti di professione, i missionari da scrivania, i teologi da salotto, i testimoni di se stessi, si affannano a spiegarci le parole e i gesti del Papa (il quale non ha proprio bisogno di interpreti), quelli che si sono tenuti in disparte, i laici e i preti che negli ultimi decenni si sono impegnati a portare avanti le linee conciliari quasi nascostamente, stanno col fiato sospeso ad ascoltare Papa Francesco che parla di uscire, di rischiare, di non temere i richiami del Sant’Uffizio, ed hanno nel cuore un misto di entusiasmo e di cinismo. Finalmente sentiamo un Papa parlare cosi! È il Papa che sognavamo da anni. Ma durerà? E, sopratutto, avremo ancora le forze per rimetterci in strada?

Per me le ultime speranze di poter vedere nel tempo delle mia vita un vero profondo cambiamento nella vita della Chiesa si erano quasi spente dopo il primo Sinodo Africano nel 1994. I migliori teologi africani esclusi e poi gradualmente rimossi dell’insegnamento nei seminari e nelle facoltà teologiche. Ogni tentativo serio di inculturazione definitivamente archiviato, sia pur dopo aver accettato al Sinodo che l’inculturazione è una priorità. Un susseguirsi di nomine vescovili per personaggi scelti per un’ortodossia assoluta e la prudenza, anzi l’immobilismo, paralizzante.

Chiesi un’opinione sul Sinodo Africano al cardinal Martini, mi disse laconico: “Ormai i Sinodi sono diventati un modo per livellare tutti i vescovi sul minimo comun denominatore. Alcuni missionari che erano stati attivi in Africa nella promozione del laicato, nel far crescere nella chiesa uno spirito di co-responsabilità e collegialità, scomparvero dalla scena, e uno di loro mi confidò con amarezza: Non c’è spazio. Si può fare qualcosa di innovativo senza incorrere in sanzioni ormai solo nell’ambito dell’impegno sociale, ma a condizione che sia mascherato da attività caritativa tradizionale”. Per anni abbiamo visto preti impegnati in nuovi ambiti pastorali bollati come teste calde ed emarginati. La creatività pastorale metodicamente punita e il supino adeguamento alle norme metodicamente premiato.

Nei miei ricordi un sorriso pieno di speranza, quello di Bernhard Haring, il grandissimo teologo moralista che aveva riformato la teologia morale nella seconda metà dello scorso secolo, il cui insegnamento spesso oggi riecheggia nelle parole di papa Francesco, e che fu emarginato e alla cui morte il quotidiano vaticano non aveva giudicato valesse la pena di dedicare una riga. A un amico che nel 1994 gli chiedeva come vedesse il futuro della Chiesa, rispondeva con la sorridente fermezza che gli era consueta “Non preoccupatevi. Tutto il ciarpame che maschera il volto luminoso della chiesa di Cristo crollerà presto come un castello di carte”.

Ecco, adesso è arrivato un Papa che chiede che si preghi per lui, che non si sente giudice ma pastore e fratello, che vuole una Chiesa meno preoccupata della conformità alla dottrina e più capace di attenzione ai poveri, di coraggio per uscire da se stessa, di capacità di riformarsi per adeguarsi – anche il papato – sempre di più al ruolo di servizio che le è proprio. Che vuole rimettere Cristo al centro.

Ma saremo noi anziani preti ancora capaci di credere “nella rivoluzionaria natura dell’amore e della tenerezza”? Saremo capaci di ripartire? Saremo capaci di seguire questo anziano e giovanissimo Papa?

Tra coraggio e complicità – Between courage and complicity

Il Kenya sta affrontando molte sfide importanti – il processo alla Corte penale internazionale (Cpi) di Presidente e vice-Presidente, i ciclici scandali dovuti alla corruzione, la scarsa professionalità delle forze dell’ordine, il crescente divario fra ricchi e poveri e la crescente paura dell’estremismo islamico. per non elencare che i primi che vengono in mente – e i leader religiosi stanno dando un ben povero contributo alla ricerca di soluzioni, o almeno per alimentare un dialogo su questi temi. La fede cristiana è diventata un libro di ricette per fare miracoli e per raggiungere la prosperità. Una via di fuga, non un reale impegno per trasformare la società.
Questa la tesi sostenuta da padre Gabriel Dolan in un articolo recentemente pubblicato su The Nation, il principale quotidiano kenyano, dando la colpa di questa situazione ai leader religiosi di tutte le fedi, che sono diventati assenti dal dibattito pubblico.
Dolan ha scritto: «Un mese dopo il massacro Westgate [ …] è bene guardare a ciò che hanno fatto anche i nostri leader religiosi e valutare criticamente se hanno mostrato capacità di ispirazione o leadership quando la nazione era in subbuglio. I leader musulmani hanno subito condannato gli attacchi terroristi così come hanno preso le distanze dagli attaccanti che si è detto avessero selezionato i non-musulmani per essere uccisi.
I leader religiosi sono molto bravi a parole a condannare la violenza, e così hanno subito organizzato conferenze di carattere inter-religioso ovunque i mass-media fossero disponibili. I leader religiosi sono piuttosto bravi anche a organizzare preghiere, e così tre giorni dopo si sono tutti radunati nei loro abiti pittoreschi nel KICC
(Kenyatta International Conference Centre, il più prestigioso centro congressi di Nairobi) a guidare una preghiera ecumenica e a condividere il podio con la classe politica e diplomatica . Ma là è finito anche il loro contributo.
Non c’è stato alcun dibattito pubblico da parte della comunità islamica sulla sua incapacità a impedire la militarizzazione di molti dei suoi giovani. I nostri leader religiosi sono capaci di contribuire solo con la preghiera e la condanna, ma non riescono a organizzare un dibattito a livello nazionale sull’importanza di creare una nuova etica pubblica. Così la maggior parte di loro fanno notizia quando condannano i preservativi, certi libri e i gay, un approccio che difficilmente può attirare i giovani che sono alla ricerca di una guida».

Padre Dolan ha anche ricordato che quando il Parlamento del Kenya ha deciso di votare a favore del ritiro dalla Corte penale internazionale, solo l’arcivescovo di Kisumu Zaccheus Okoth si è schierato a favore del mantenimento del paese nel Trattato di Roma e del completamento dei procedimenti in corso alla Cpi. Okoth è stato ignorato anche dagli altri vescovi cattolici, lasciando pensare che gli altri vescovi cattolici preferiscano seguire, in obbediente silenzio, la linea governativa. Lo stesso vale per i capi musulmani.
La prova che quanto padre Dolan ha scritto è vero, è il fatto che le sue parole così dure non hanno suscitato alcun dibattito pubblico. Sono passate due settimane e nulla è successo. Eppure la tensione tra cristiani e musulmani continua a crescere, alimentata dagli estremisti, ma ben poco è stato fatto dai leader religiosi per disinnescarla.
Solo padre Wilybard Lagho, vicario generale dell’arcidiocesi di Mombasa, ha rilasciato un chiaro comunicato stampa spiegando che non c’è nulla di intrinseco all’islam o al cristianesimo che possa essere identificato come fonte di intolleranza. Il problema è che la religione viene usata e abusata dai leader a scopi politici.
Eppure in passato non sono mancati leader religiosi coraggiosi, che hanno rischiato la vita, e sono stati uccisi, per aver criticato il presidente Arap Moi. Oggi però «mantenere un basso profilo, non rischiare di dire parole che possano creare difficoltà» sembra essere la scelta dei leader religiosi kenyani di tutte le fedi.
Padre Dolan ha concluso il suo articolo con una certa amarezza : «Chi disturba è ucciso, diceva qualche decennio fa l’arcivescovo Romero; non sono molte le possibilità che questo accada oggi in Kenya».

Fedeli in preghiera sul luogo dell’attacco terroristico al Westgate Mall. Faithful in prayer at Westgate Mall,

Segni di un Mondo Nuovo – Signs of a New World

Ogni tanto la poesia, quello sguardo diverso sulla vita, ti aggredisce in momenti imprevedibili e immeritati. La vedi, è lì a portata di mano, e ti accorgi che è più vera della realtà.
A me è successo una sera proprio a Mthunzi, nella casa per ex-bambini di strada alla prefieria di Lusaka. Avevo messo una sedia nel grande cortile con tutt’intorno i dormitori, il refettorio, la cucina, la falegnameria, il mulino. C’era una profonda quiete, l’ultima auto era passata oltre un’ora prima, nella strada sterrata ai piedi della collina.
Il sole tramontava ad occidente mentre contemporaneamente ad oriente sorgeva la luna piena. Alcuni bambini rientravano sudati e stanchi per una partita di calcio. Altri erano sotto la doccia, mentre altri, già puliti e coi vestiti odorosi di bucato, preparavano all’aperto il tavolo che sarebbe servito da altare per la Messa. Poco lontano, sotto una tettoia nello stesso grande cortile, mama Edina cucinava un’enorme polenta, mentre il pentolone di spezzatino era già pronto. I bambini indaffarati nelle varie occupazioni mi passavano accanto e facevano un cenno d’intesa, mi lanciavano uno sguardo, un sorriso, ognuno in modo diverso significando la gioia di essere insieme in un posto tranquillo, protetto, dove ci si vuol bene.
Ecco, improvvisamente, il nuovo mondo è qui. La miseria e la cattiveria che hanno fatto soffrire questi bambini sono state vinte, non ci sono più. Sono veri solo i loro occhi che cercano e offrono affetto, il loro sorriso generoso, le loro mani pronte a stringere la tua, a regalarti un abbraccio. Mi è venuto in mente Andrew Awuor, il ragazzo keniano che ha stimolato noi tutti in questa avventura di cammino insieme ai bambini di strada, sfidandomi, nel 1992, a “fare qualcosa insieme per quei bambini”. Allora durante la Messa ho parlato di lui ai bambini, che mi ascoltavano come se parlassi di un loro fratello maggiore, rapiti. Il nuovo mondo è qui, nella comunione fra i vivi, e dei vivi coi morti.
Le grandi aspirazioni di amore e di libertà che sono dentro questi bambini, come dentro tutti noi, diventano palpabili. Libertà e amore – comunione – il motore di tutto ciò che si muove. Siamo aperti al mondo, accoglienti, quando queste due forze sono vive dentro di noi, e le sappiamo vedere nel piccolo mondo intorno a noi, prima ancora che nel grande mondo. Il rivoluzionario che conosce solo i pugni chiusi, l’ urlo di rabbia, parole e gesti di violenza e non riconosce la sete di amore e libertà che ci sono nel cuore di tutti, si condanna alla sterilità.
Noi cambiamo il mondo con gesti grandi e piccoli. Rifiutando un prodotto che sappiamo essere frutto di ingiustizia, contribuendo a costruire una scuola, dando assistenza disinteressata ad un immigrato, coltivando un campo, riparando un computer, fermandoci sull’autostrada ad aiutare chi è coinvolto in un incidente, impegnandoci a denunciare le ingiustizie e a praticare la solidarietà. I nostri gesti, il nostro lavoro, i nostri progetti hanno un valore che va al di là della loro pura materialità. Quando sono posti consciamente costruiscono la nostra identità, il nostro mondo interiore, cambiano il significato della nostra vita personale e del mondo che ci circonda. Diventano segni di amore, di una vita che vede al di là di se stessa. Cosi come nella tradizione cristiana l’acqua, il fuoco, il pane, il vino, l’olio, l’ abbraccio fraterno parlano della presenza di Dio.
Mthunzi è per me il piccolo mondo dove ogni tanto la poesia irrompe, libertà e amore prendono il potere, nasce la comunione.

Justice or License to Kill? -Giustizia o Licenza di Uccidere?

Uhuru Kenyatta, President of Kenya.

L’Ibrahim Index of African Governance (IIAG) è un’organizzazione creata nel 2007 dal miliardario sudanese Mo Ibrahim per promuovere il buon governo in Africa. Ogni anno assegna il più importante premio mondiale individuale ? cinque milioni di dollari, più di duecentomila dollari l’anno per tutta la vita – a un leader africano che sia stato democraticamente eletto, abbia governato bene, alzando gli standard di vita del suo popolo, lasciando l’incarico, al termine normale del suo mandato.
Ieri è stato annunciato che il comitato incaricato di selezionare il vincitore di quest’anno non ha trovato alcun candidato degno del premio. Visti i requisiti, non sono molti i leader, anche a livello europeo e mondiale, a potersi candidare. E infatti, nei sette anni dalla sua istituzione il premio è stato assegnato solo tre volte : a Pedro Verona Pires di Capo Verde , a Festus Mogae del Botswana e a Joaquim Chissano del Mozambico. Con l’annuncio è stato pubblicato anche il rapporto annuale sulla sicurezza nazionale in Africa, con uno sconsolante risultato per il Kenya, classificato verso il fondo della graduatoria delle 52 nazioni africane prese in considerazione, in buona compagnia con le “nazioni fallite” come la Somalia e le altre che si trovano ad affrontare situazioni di sicurezza ingestibili.
Il giudizio dell’IIAG sul Kenya è troppo severo. Eppure rappresenta abbastanza bene l’opinione pubblica internazionale, dopo che sono stati resi noti i pasticci combinati dalle forze di sicurezza keniane durante il recente attacco terroristico al Westgate Mall.
Un altro fatto che ha minato la fiducia nella capacità del governo del keniano di affrontare le crisi di sicurezza e i connessi abusi dei diritti umani, è l’azione diplomatica che vorrebbe rinviare la causa della Corte penale internazionale (Cpi ) contro il presidente del paese, Uhuru Kenyatta. Lui e il suo vice, William Ruto, sono infatti accusati di aver organizzato le violenze seguite alle elezioni del 2007 che hanno causato circa mille e cinquecento morti. Il parlamento del Kenya ha già avviato il processo di ritiro del paese dalla Cpi.
I rappresentanti dell’Unione africana (Ua) si sono ritrovati ad Addis Abeba ( Etiopia) sabato scorso, 12 ottobre, in sessione straordinaria richiesta da Kenya e dedicata al rapporto dell’Africa con la Cpi.
Nella dichiarazione finale hanno sottolineato che, al fine di salvaguardare l’ordine costituzionale, la stabilità e l’integrità degli stati membri, «a nessun capo di stato o di governo dell’Ua, o a qualcuno che agisce o è autorizzato ad agire in tale qualità, può essere richiesto di comparire in qualsiasi corte internazionale o in un tribunale durante il suo mandato». E «riconoscendo il ruolo fondamentale che il Kenya sta giocando nella lotta contro il terrorismo, l’assemblea ha osservato che il procedimento contro il presidente e il suo vice potrebbe distrarre e impedire loro di assumersi le proprie responsabilità costituzionali, incluse le questioni di sicurezza nazionale e regionale».
Hailemarian Desalegn, primo ministro etiopico, ha sottolineato: «Il nostro obiettivo non è e non dev’essere una crociata contro la Corte penale internazionale, ma un invito solenne all’organizzazione di prendere sul serio le preoccupazioni dell’Africa».
Eppure l’iniziativa dell’Ua è stata interpretata da molti come un vero e proprio attacco all’esistenza stessa della Cpi. Alcuni giornali africani titolavano: “La Cpi sotto processo ad Addis Abeba”. Sullo sfondo, infatti, incombe la minaccia del ritiro di tutti gli stati africani dalla Cpi, col pretesto che molti africani la percepiscono come pesantemente prevenuta nei confronti del continente. Lo statuto della Corte è stato ratificato da 122 paesi, 34 dei quali africani. Oltre che in Kenya, ci sono al momento 7 indagini in corso: in Uganda, Repubblica democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Sudan, Libia, Mali e Costa d’Avorio.
Una delle ragioni addotte dagli oppositori della Corte è: «Come può la Cpi mettere sotto processo un presidente democraticamente eletto da più della metà degli elettori?». Un argomento molto simile a quello che utilizzano in Italia i sostenitori di Berlusconi: «Com’è possibile bandire dai pubblici uffici un politico sostenuto da un terzo dell’elettorato nazionale?».
Ma non mancano i critici. Alcuni leader di fama internazionale hanno criticato l’Ua. L’ex segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, ha detto che il ritiro dalla Cpi sarebbe per l’Africa un “marchio d’infamia”. L’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, uno dei leader africani più amati e rispettati dopo il suo connazionale Nelson Mandela, ha pure lui manifestato il suo forte dissenso. Tutu ha le credenziali giuste per parlare di giustizia, e non solo perché ha sofferto e lottato contro l’ apartheid, guadagnandosi il premio Nobel per la pace nel 1984. È stato un critico feroce del trattamento riservato da Israele ai palestinesi così di come la Cina discrimina i tibetani. Nell’agosto dello scorso anno a Johannesburg aveva abbandonato un incontro di leader mondiali, rifiutandosi a condividere una piattaforma con l’ex primo ministro britannico Tony Blair, affermando che il signor Blair e l’ex presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, dovrebbero essere processati presso la Cpi per aver mentito sull’Iraq e le armi di distruzione di massa per giustificare l’invasione del paese.
La scorsa settimana in un appello on-line Tutu ha scritto: «Mentre alcuni leader africani giocano sia la carta del razzismo che la carta coloniale, i fatti sono chiari: lungi dall’essere una caccia alle streghe organizzata dall’uomo bianco, la Cpi non potrebbe essere più africana di quanto già lo sia. Più di 20 paesi africani hanno contribuito a fondarla. Delle 108 nazioni che inizialmente hanno aderito, 30 sono africane. Cinque dei 18 giudici della Cpi sono africani, cosi come lo è il suo vice presidente, Sanji Mmasenono Monageng del Botswana. Il procuratore capo del tribunale, Fatou Bensouda , che ha un potere enorme sui casi perseguiti, è originaria del Gambia. La Cpi è molto chiaramente un tribunale africano. I leader che cercano di aggirare la Cpi sono effettivamente alla ricerca della licenza di uccidere, mutilare e opprimere il proprio popolo senza doverne subire le conseguenze. Semplicemente tacciano l’istituzione come razzista e ingiusta, così come Hermann Goering e i suoi compagni nazisti imputati hanno vilipeso il processo di Norimberga dopo la seconda guerra mondiale”.
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