Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

Life

L’anno nuovo e i serpenti. The new year and the snakes.

Condividere la vita è la radice della gioa cristiana.

Non avrei potuto cominciare meglio il 2016. Il mattino del primo gennaio mi sono svegliato all’alba, e, come sempre quando sono qui a Mthunzi, la casa per ex-bambini di strada di Lusaka (Zambia), sono uscito dalla mia stanza, passato di fronte al piccolo appartamento dove vive con la famiglia il nostro educatore Chakwe, e mi sono affacciato sul cortile, per respirare l’aria di casa. Tutt’intorno ci sono i dormitori, il refettorio, il vecchio deposito di granaglie adattato a salone per gli incontri. Tutti locali molto dimessi e poveramente arredati. Il grande cortile – con la maestosa jacaranda che quando fiorisce in settembre fa sfigurare la bellezza del cielo, e le generose piante di avocado che in questi giorni ci nutrono – ha ospitato dal 1982, quando siamo venuti ad abitare qui, celebrazioni natalizie e pasquali, funerali e matrimoni, battesimi e competizioni di danze tradizionali. Per me è un album dei ricordi. Ogni pianta, ogni siepe, ogni muro mi parla, mi ricorda le persone che c’erano quel giorno quando le abbiamo messe a dimora, quando abbiamo trasformato il locale del mulino in biblioteca, aggiustata quella porta, costruito quel muro. Anche i ragazzi adesso si svegliano. Alcuni per il caldo hanno messo il materasso per terra, all’aperto. Appena mi vedono vengono a salutarmi, riportandomi al presente. Camminando, correndo, saltellando come fanno i più piccoli, alcuni ancora insonnoliti. Tutti, quasi cinquanta che sono, vogliono abbracciarmi e augurarmi un anno felice.

Ci eravamo dati la buonanotte solo quattro ore prima, quando eravamo già nel nuovo anno. Lo avevamo aspettato dopo aver celebrato un messa di ringraziamento, condiviso una semplice cena con tanta polenta, tanti fagioli e una salsiccia a testa. Poi loro hanno cantato, battuti i tamburi e ballato fin quasi a mezzanotte, quando abbiamo festeggiato con biscotti secchi e succo di frutta.

Stanno finendo di salutarmi quando arriva Mama Edina, la cuoca, e le corrono incontro, e subito Edina assegna le incombenze per il mattino, chi prepara la colazione festiva di riso bollito e zuccherato, chi lava i piatti usati ieri sera, chi pulisce i dormitori e poi tutti a mettersi la maglietta più pulita e più bella per avviarsi alla messa nella chiesetta della parrocchia ad un chilometro da qui. Arriva Chakwe che mi si metta a fianco e mi dice “Mai percepito la felicità dei ragazzi come nella Messa, la cena, le danze di ieri sera. E’ stato un unico ininterrotto momento di gioa. Questi ragazzi sono veramente una bella comunità”. Poi aggiunge “Dopo cena ho chiesto a Matthew cosa lo rendesse cosi visibilmente felice, e lui mi ha risposto: perché qui ci vogliamo bene. Vorrei fossero qui quelli che ieri sera si sono istupiditi di birra in un pub, tra loro anche i miei cugini. e capissero che nella vita ci sono cose più belle. A volte con loro preferisco far silenzio, perché se tento di spiegare la gioia del Natale e di Capodanno come li viviamo a Mhunzi, i loro sguardi di sufficienza mi farebbero morire le parole in gola. Quant’è difficile comunicare le cose belle, e il benessere del cuore”.

E sempre difficile comunicare le cose vere e semplici: troppo facile scadere nel dolciastro e nel banale, suscitando sorrisini di compassione. Ma non dobbiamo stancarci di farlo, anche se non siamo i comunicatori ed i poeti che vorremmo essere e che sarebbe necessario essere per riuscire a comunicare il bene. Facciamo quel che possiamo.

E’ molto più facile comunicare il male, spronare al male. E’ cosi ovunque, in ogni comunità umana. Anche qui, nel clima idillico di Kivuli, i bambini a volte manifestano prepotenza, sopraffazione, astute strategie per dividere e dominare. Mi è venuto in mente che in Italia le persone che sanno risvegliare le peggiori reazioni atavicamente egoistiche si dice sappiano “comunicare alla pancia della gente”. La pancia è una parte nobile del corpo che non merita di essere associata al peggior egoismo. Essa ci segnala la fame, che si ci sprona alla ricerca del cibo, ma per l’uomo la fame è anche cibo da condividere, e Gesù usa la fame per descrivere il forte desiderio di giustizia. Addirittura nella tradizione cristiana si parla di “viscere di misericordia”. Non mi pare ci sia nessuna parte del corpo umano – tutto nobile – che si possa usare come metafora di una comunicazione negativa. Allora ho chiesto a Matthew (un sedicenne che aveva iniziato il 2015 in strada, dove era stato costretto a mendicare dal padre alcolizzato) a chi o che cosa paragonerebbe le persone che seminano odio e quelli che li ascoltano. Mi ha risposto sicuro: “sono serpenti che parlano al serpente che è in noi”. Sapienza antica.

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Quanto costa un bambino? – How much for a child?

La scorsa settimana, il 16 dicembre, a Nairobi, un uomo sui quarant’anni ben vestito si è presentato a Ndugu Mdogo, la casa di Koinonia per ex-bambini di strada situata nello slum di Kibera, ed ha chiesto di parlare con il responsabile. Quando Jack lo ha fatto sedere nell’unica stanza che potrebbe essere definita soggiorno, il visitatore gli ha raccontato di essere stato mandato da un donna che gestisce un grande negozio di vestiti nel centro di Nairobi, e che questa signora è amica della moglie di un ministro del Sud Sudan. A raccontare questo c’è voluto un po di tempo e intanto alcuni dei bambini, che stavano facendo lezione di inglese, si erano fatti vicini, incuriositi. L’uomo è arrivato alla conclusione puntando il dito verso uno dai ragazzi più grandi, un quindicenne, e dicendo: “la moglie del ministro vorrebbe adottare un bambino, per esempio uno come quello. Quanto costa?” Jack si è fatto ripetere tutto, credendo di non aver capito bene, ma dopo diversi chiarimenti la conclusione è stata ancora più esplicita; “Dimmi il prezzo, posso tornare oggi pomeriggio coi soldi in contanti e portarlo via con me. Mi preoccupo io per il viaggio”. Al che Jack gli ha chiesto di aspettare qualche minuto per avere il tempo di concordare il prezzo con il suo superiore. Invece allontanandosi ha chiuso l’uomo nel soggiorno, chiuso il cancello principale e chiamata la polizia.

Mentre portavano via l’uomo che lanciava maledizioni contro Jack, proclamandosi innocente mediatore di un’adozione internazionale, i poliziotti hanno detto che ricevono ogni mese diverse denunce di bambini, ma sopratutto ragazzi fra i 15 e i 20 anni, che spariscono senza lasciar traccia, e temono che siano portati in Somalia per essere addestrati da Al Shabaab, il gruppo terroristico che ha organizzato gli attentati al Westgate shopping center di Nairobi nel settembre del 2013 e all’università di Garissa il Giovedi Santo di quest’anno.

Non sappiamo cosa la polizia keniana sia riuscita a sapere da quell’uomo, tuttavia in questo caso l’ipotesi che fosse un reclutatore di Al Shabaab non sembra la più convincente. Perché pagare quando a Kibera ci sono decine, centinaia di giovani senza futuro, disperati, disposti a qualunque cosa pur di assicurarsi un pasto al giorno? Il fatto che l’uomo avesse indicato un quindicenne potrebbe piuttosto far pensare a qualcosa di ancor più sinistro, un’organizzazione per l’espianto di organi.

Ci sono serie ricerche che dimostrano come delle circa 20,000 persone che ogni anno in questa zona dell’Africa sono oggetto di traffico, indotte a trasferirsi verso i paesi arabi e l’Europa come lavoratori ma che finiscono in situazioni di schiavitù, e nella prostituzione. Non poche far di loro, sopratutto persone giovani e sane, vengano successivamente uccise per l’espianto di organi (cuore, reni, fegato, occhi, pelle, tutto) da una rete internazionale difficilissima da combattere, e altre addirittura vengano usate localmente per sacrifici. Lo scorso anno in Uganda un businessman è stato condannato all’ergastolo perché a scadenze quasi annuali sacrificava preadolescenti per garantirsi il successo negli affari.

Questa è uno strano racconto di Natale. Eppure questo è il mondo in cui Gesù si è fatto uomo, mettendosi inerme neonato nelle nostre mani. Mani che possono accarezzare e benedire, mani che possono uccidere. Gli altri operatori sociali di Koinonia hanno ascoltato il racconto che Jack ha fatto a tutti di questo episodio ed hanno concluso che il “farsi carne” di Gesù ci deve far guardare con ancora più rispetto ai bambini che per strade diverse sono stati affidati alle nostre cure. Davvero essi sono la carne di Dio.

Cosa dirà Francesco alla Chiesa Africana?

Tutto in Africa incomincia con una storia. Per esempio la storia di Big Waiguru, un donnone che ha solo trent’anni ma ne dimostra quaranta. Venuta dal villaggio natio a Nairobi in cerca di fortuna oltre dieci anni fa, ha trovato solo un marito da mantenere e tre figli.

Ogni giorno è in piedi prima dell’alba per vendere frutta di stagione su un carretto strategicamente piazzato su kabiria Road. La sera è distrutta dalla fatica, e incomnicia cucinare per gli uomini della famiglia che rientrano a casa, dalla ricerca inutile di un lavoro che non ci sara mai o da una scuola di infimo livello che non li preparerà alla vita.

La distrazione è il venerdì sera, alle prove del coro parrocchiale, con le amiche, e la domenica mattina a Messa. Big Waiguru non si lamenta, non ne ha tempo, sempre pronta a rimboccarsi le maniche e fare qualcosa per gli altri. “Papa Francesco lo vedo ogni tanto alla televisione del chiosco di fianco a alla baracca in cui viviamo. E’ un uomo buono, che parla di misericordia e perdono. Ne abbiamo tutti bisogno”. Si ferma per un attimo, sorride. “Sopratutto mio marito” aggiunge.

Big Waiguru rappresenta le persone che sono le colonne della chiesa keniana. Le donne, i poveri, la gente delle baraccopoli, confusa e sperduta in una città dove si incontrano e talvolta si scontrano mondi diversi, dove ricchi e poveri vivono fianco a fianco, dove differenze e ingiustizie sono tanto eclatanti quanto scioccanti. Dove l’ingiustizia e la miseria fanno si che spesso le vittime diventino i carnefici, in una spirale di violenza senza fine. Dove la speranza è viva nonostante tutto, dove la vita vince sempre. Persone che sono capaci di vedere la bellezza della vita nelle situazioni più disperate.

L’importanza dell’incontro con i giovani

In Africa non succede niente fino a che le persone non si incontrano faccia a faccia. La relazione umana e’ centrale alla cultura africana, e non è difficile immaginare che con Francesco, la sua parola e gestualità semplice e immediata, sarà amore a prima vista.

Le preoccupazioni per la sicurezza sono grandi, in Kenya, specialmente nel prosieguo del viaggio, in Repubblica Centro Africana, ma evidentemente non sono un deterrente per Francesco. Chi porta una parola di pace e giustizia conosce i pericoli che potrebbe incontrare. Non puo deludere le aspettative della gente.

I giovani, in particolare, si aspettano da Francesco che la sua presenza e il suo esempio siano una scossa forte perché la Chiesa sappia intraprendere nuove strade. Mi dice John, responsabile a livello parrocchiale di un’associazione cattolica: “Meno formalismi, meno struttura, più coinvolgimento nella vita quotidiana. Abbiamo tanti preti che sono vicini alla gente, eppure la chiesa ha ancora il volto di una burocrazia lontana e non recettiva delle nostre aspirazioni”. I giovani hanno bisogno di essere ascoltati, e, a differenza di molti giovani occidentali, accettano il dialogo, rispettano le saggezza che percepiscono in un anziano, accettano perfino di essere consigliati. Il Kenya, come tutti i Paesi africani, è una nazione giovane, il 50 per cento della popolazione ha meno di 25 anni. I giovani, le giovani donne in particolare, devono affrontare grandi sfide: il lavoro, la casa, la creazione di una famiglia, costruirsi una vita minimamente dignitosa. Ma i giovani non hanno più il sostegno solido che la cultura tradizionale dava loro per inserirsi nella vita.

Quando escono dalle scuole hanno ricevuto solo un’infarinatura di nozioni imparate a memoria per superare gli esami, nessuna idea su come affrontare il loro futuro, e, senza più la solidità dell’educazione tradizionale, non trovano nella Chiesa una cura pastorale che possa farli sentire accompagnati. Se la Chiesa non si fa carico e non si sente coinvolta nel futuro dei giovani, anche la Chiesa perderà il futuro.

Una chiesa in cammino

Capire l’Africa, anche se ci limitiamo all’Africa sub-sahariana, è difficile. Ogni volta che pensi di averla capita succede qualcosa che ti costringe a rivedere i tuoi schemi.

C’è l’Africa di fame e malattie e guerre civili croniche, della violenza politica e soppressione dei diritti civili, della corruzione e del traffico di persone, delle pesanti interferenze esterne e del land-grabbing, del terrorismo islamico e dei conflitti etnici. Insieme c’è l’Africa che cresce. Nei primi dieci anni di questo secolo nove delle venti economie mondiali che sono cresciute di più sono africane e la percentuale della popolazione giovanile che accede alla scuola superiore è aumentata del 50%. Nel solo Kenya ogni anno le università sfornano cinquantamila laureati, senza contare le migliaia di giovani che ottengono diplomi e certificazioni nel campo informatico. E’ troppo presto per dire, come qualcuno fa, che questo sarà il secolo dell’Africa. Escluderlo sarebbe da imprevidenti.

ll tutto sullo sfondo di una chiesa che ha bisogno di rinnovamento. La chiesa cattolica in molti paesi dell’Africa nera è l’istituzione più importante dopo il governo, quella che raggiunge tutti, nei villaggi più remoti. La rete di servizi sanitari e scolastici è ineguagliata. Le chiese sono piene di giovani, le celebrazioni piene di vita, i seminari traboccano.

Ci sono anche verità scomode. Non dobbiamo illuderci con l’immagine di una chiesa giovane ed entusiasta. La chiesa “famiglia di Dio” secondo il motto del primo sinodo africano del 1994? I laici, in particolare donne, sono tenute in una condizione di infantilismo, La chiesa povera? Gli scandali per la mala gestione economici di alcune diocesi sono tenuti a fatica sotto sotto controllo, come nel 2009 quando Roma chiese a quasi la metà dei vescovi della Repubblica Centro Africana, ultima tappa del viaggio di Francesco, di dimettersi per condotte economicamente, e non solo, scandalose. La chiesa giovane? Si frequentata dai giovani, ma che fa grande fatica ad accettare i cambiamenti? Una chiesa che opera per la giustizia e la pace? Si, in alcune situazioni, ma ci sono anche situazioni di collusione col potere. Come sempre la chiesa ha necessita di mettersiin stato di conversione.

L’incontro con Francesco, un papa che contrariamente ai suoi predecessori non e’ neanche mai stato in questo continente, offre una grande opportunità. Sarà uno sguardo nuovo, da entrambe le parti, una nuova possibilità di comprendersi fra Chiesa e Africa. Finora Francesco ha mostrato di voler decentralizzare il governo della chiesa, dando più responsabilità ai vescovi locali, come ha fatto con il recente “motu proprio” riguardante le procedure per l’annullamento di matrimoni. Una sfida per i pastori africani che già sommano in se responsabilità di vario genere, sopratutto di ordine pratico.

Quella africana non è una chiesa che ha abbondanza di intellettuali o tanto personale da poter mettere negli uffici delle curie diocesane, o teologi morali o esperti di diritto canonico. La pressante priorità è la guida pastorale delle comunità cristiane gia esistenti, che crescono sia per la demografia interna sia per l’attrazione che esercita dal cristianesimo anche senza esplicita attività missionaria. Nel suo viaggio in America Latina Papa Francesco ha mostrato quanto apprezzi una chiesa che si fa popolo, che assume i valori locali.

Dalla sopravvivenza alla missione

L’incontro con Francesco potrebbe essere l’occasione per la chiesa africana di ripartire dalla parole dette da Paolo VI, in Uganda nel 1969, durante il primo viaggio in Africa di un papa dei tempi moderni: “Voi potete, e dovete, avere una cristianesimo africano” Compito immane. L’Europa ci ha messo secoli, e ogni giorno deve ricominciare daccapo.

Un cammino ancora lungo in Africa. Diceva recentemente una teologa africana, la nigeriana Teresa Okure ”il cristianesimo portato in Africa era una versione completamente europeizzata”. Con i primi pastori e teologi africani una cammino per dare al Vangelo un volto africano era stato avviato, ma poi col primo sinodo Africano si è interrotto.

E’ un cammino che richiede capacita pastorali e preparazione dottrinale, senza paura degli errori. Anche in questo campo si potrebbe applicare il principio che meglio è meglio essere chiesa che cammina per le strade dell’Africa e ogni tanto sbaglia, piuttosto che una chiesa chiusa nelle sacrestie. “Missione” nei discorsi di Francesco è divenuta il paradigma dell’attività della chiesa. Con l’“opzione missionaria” che propone nella Evangelii Gaudium l’attività della chiesa non è più gestire la sopravvivenza, diventa opera audace e creativa per la trasformazione del mondo.

La chiesa che è in Africa, il popolo che cammina sulle piste del deserto o della savana, nei viottoli sconnessi delle baraccopoli, è la carne ferita di Cristo che ha bisogno di essere toccata per guarire e per diventare capace di proclamare la Risurrezione. Big Waiguru, milioni di donne e uomini d’Africa in fondo si aspettano solo questo da Papa Francesco: di essere toccati. Rinnovare, ascoltandolo e partecipando ai suoi gesti, la certezza che Dio cammina con loro.

Il Dottore dei Nuba – The Nuba’s Healing Hand

Tom Catena

Il dottor Tom Catena, statunitense di origine italiana, è stato incluso dalla rivista Time tra le 100 persone più influenti di oggi, vedi http://time.com/3823233/tom-catena-2015-time-100/

Andrew Berends sul Time dello scorso 16 aprile lo presenta cosi.

Incontrare Tom Catena è stato per me come incontrare un santo. Gestisce un ospedale sulle Montagne Nuba del Sudan con un livello senza pari di devozione alla sua fede cattolica e alla gente Nuba che ha bisogno di lui. Gran parte della regione è controllata dai ribelli. I civili lottano per sopravvivere, in mezzo a combattimenti, bombardamenti aerei e alla fame cronica causata dalla guerra. Le organizzazioni umanitarie non sono autorizzate a portare aiuti. Il dottor Catena sfida il divieto ed è l’unico chirurgo che serve una popolazione di 750.000 persone. Lavora instancabilmente, giorno e notte, curando di tutto, dalle ferite di guerra alla fame. Mi dice che la sua più grande ricompensa è il senso di pace che viene dal servire le persone bisognose, ribelli e civili senza distinzione. Nonostante le difficoltà, è esattamente dove vuole essere.

Solo dopo qualche settimana l’amico padre José Rebelo, comboniano direttore delle rivista Worldwide in Sudafrica, mi ha segnalato la cosa e, sapendo che conosco il Dr. Catena da tempo, mi ha chiesto di aiutarlo ad intervistarlo. Non è stato facile, il personaggio è schivo e di poche parole, e non ha mai lasciato i Monti Nuba da quando si è preso la responsabilità dell’ospedale, ormai quasi otto anni fa. Ma con internet José è riuscito a superare l’isolamento dei Monti Nuba e a convincere il dottor Catena a parlare. Ecco una sintesi dell’intervista.

Da quanto tempo lavora sui Monti Nuba? Come è arrivato qui?

Sono qui da quasi sette anni e mezzo. Ho sentito parlare dei Monti Nuba da Suor Dede Byrne. Nel 2002 mi disse che il vescovo comboniano Max Macram stava progettando di costruire un ospedale in Sudan. Contattai l’ufficio del vescovo, a Nairobi, e cominciai a discutere con loro i dettagli relativi all’apertura dell’ospedale. All’inizio del 2008, eravamo pronti ad aprire. Una suora comboniana, Suor Angelina, è stata la direttrice dell’ ospedale sin dall’apertura e ci sono altre due Suore Comboniane (Sr Rocio e Sr Vincienne) che lavorano qui con noi.

Lei ha lavorato in altri paesi africani, ma ha detto che i Nuba sono speciali. Che cosa li rende speciali? Che tipo di legame la lega a loro?

Una cosa che mi ha colpito fin da subito è che sono un popolo fiero e indipendente, e mi hanno sempre trattato da pari a pari, non come qualcuno sopra di loro o sotto di loro. Mi piace il fatto che una donna anziana qui mi chiami per nome, e non ‘dottore’ e non mi tenga a distanza, anche se io sono uno straniero.Sen to una forte connessione con la gente, e credo nasca dal condividere paure e sofferenze comuni. Dopo aver trascorso qualche tempo qui, uno si sente tagliato fuori dal resto del mondo, e tende a sentirsi sempre più vicino a coloro che sono rimasti in questa parte dimenticata del mondo. Qui sono a mio agio, questa è casa. La gente è molto riconoscente di quanto si fa per loro. L’anno scorso, abbiamo ricevuto una donazione di scarpe provenienti dagli Stati Uniti e le abbiamo mandate con una delle Suore Comboniane in un villaggio molto lontano. Due settimane più tardi, 40 persone provenienti da quel villaggio hanno camminato per tre ore sotto la pioggia battente per portarci alcuni semplici regali e cantare e ballare per noi in segno di ringraziamento. C’è voluto un po di tempo perché crescesse le fiducia reciproca. Non si fidano facilmente degli stranieri, a causa dei secoli di oppressione che hanno sofferto per mano di estranei. Ci si deve guadagnare prima la loro fiducia, ma una volta fatto ciò, si costruisce un rapporto che supera ogni difficoltà.

Quali sono le sue attività quotidiane? Che tipo di interventi esegue abitualmente?

La giornata inizia tutti i giorni con la messa alle 06:30 Siamo fortunati ad avere due sacerdoti che ci garantiscono la Messa quotidiana. Ogni lunedì, martedì, giovedì e sabato, faccio un giro completo dell’ospedale visitando tutti i ricoverati dalle 07:30 alle 13:00, per poi andare alla clinica ambulatoriale. Vi resto solitamente fino alle 17:00 o 18:30, a seconda del periodo dell’anno. La notte è per le email, il lavoro amministrativo e le emergenze. Facciamo fra i 150 e i 200 interventi al mese, coprendo l’intera gamma della chirurgia: drenaggi di ascessi, estrazione di denti, shunt ventricolo-peritoneale su neonati con idrocefalo. Il nostro anestesista è stato addestrato sul posto e fa un lavoro eccellente.Far arrivare i farmaci qui da Nairobi è una vera sfida e richiede un enorme sforzo da parte del personale dell’ufficio di Nairobi per gli inevitabili ostacoli logistici e i costi altissimi.

Quali le maggiori esigenze della gente? Personalmente cosa le manca di più?

Qui non c’è stato sviluppo. Le strutture di assistenza sanitaria sono pressoché inesistenti. Ci sono poche scuole, alcune delle quali gestite dalla diocesi, e altre dove operano insegnanti locali non addestrati. Tutte le scuole sono state chiuse durante i primi tre anni di guerra civile, ma molte hanno riaperto quest’anno. Non ci sono strade asfaltate, la maggior parte delle strade sono piste aperte attraverso la boscaglia. Non c’è acqua corrente, elettricità, niente.

Spesso siete stati in pericolo. Quante volte si è trovato sotto i bombardamenti?

L’ospedale è stato preso di mira direttamente due volte. Sono state sganciate undici bombe su l’ospedale e gli immediati dintroni, ma non ci sono state ne vittime ne danni importanti, Il nostro villaggio è stato bombardato in altre due occasioni. I bombardieri del governo sudanese ci sorvolano con frequenza dall’inizio del conflitto più di quattro anni fa. Il suono dei bombardieri ci fa correre a cercare protezione nelle trincee. Ogni volta potrebbe essere le tua volta.

Cosa le dà la forza per continuare questo servizio solitario e difficile?

Credo che le preghiere di molti mi abbiano sostenuto nel corso di questi ultimi anni. Sono sempre stupito di sentire da sconosciuti che stanno pregando per noi, e io credo fermamente nel potere della preghiera.

Quando vede tanta sofferenza non si sente la tentazione di scappare?

Sì, certo ogni tanto avrei bisogno di andarmene lontano da tutte le sofferenze e i problemi. Quasi ogni giorno ci sono situazioni che sono veramente difficili: un neonato o un bambino che muore, un paziente con complicazioni post-operatorie, qualcuno che è molto malato e io proprio non riesco a capire il problema. La mia unica consolazione è sapere che io non sono perfetto e che l’ultima parola è di Dio. Il mio ruolo è quello di fare del mio meglio ed essere fedele alla mia vocazione. Dopo che un paziente muore ne soffro molto e poi cerco di imparare qualcosa dalla situazione. Devo combattere per rimaner concentrato e tornare al lavoro. Se fossi sopraffatto dal dolore non sarei in grado di aiutare il paziente successivo.

Il suo lavoro ci ricorda Madre Teresa che lottava in un oceano di morte e sofferenza e che per molti anni si senti “disconnessa” da Dio.

Sì, capisco bene come possa aver sofferto madre Teresa. Personalmente non posso direi di aver avuto crisi di fede, ma piuttosto mi sento “disconnesso” dalla società occidentale. Mi sembra che gli altri non possono capire quello che sto vivendo. Mi piacerebbe lavorare un po di meno e poter pregare un po di più. Io sono in pace durante i 20 o 30 minuti prima che inizi la Messa del mattino. Posso pregare e riflettere senza distrazioni.

Qual’e la difficolta piu grande?

I momenti più difficili sono stati quelli in cui ho avuto conflitti interpersonali con gli altri. Questi sono molto peggio di qualsiasi pericolo o paura per i bombardamenti. Questi conflitti sono inevitabili in un ambiente di stress elevato come il nostro, ma la nostra fede ci insegna che dobbiamo intraprendere il percorso lento e difficile della riconciliazione.

Lei è in contatto quotidiano con la sofferenza di persone vittime di una guerra che è dimenticata dalla comunità internazionale. Come si sente, cose vorrebbe chiedere ai leader del mondo?

Sì, spesso ci sentiamo dimenticati dal resto del mondo, questo è un relativamente piccolo conflitto in un angolo remoto. La tragedia è che la gente soffre ormai da 30 anni, e non si vede come il conflitto possa terminare.
Credo che molte delle sofferenze potrebbero essere alleviate se ci fosse pressione sul governo del Sudan perché consenta di far arrivare aiuti umanitari alle montagne Nuba. Le organizzazioni internazionali che normalmente forniscono aiuti alimentari, vaccini e farmaci hanno paura di venire fin qui perché sarebbe un’operazione ‘transfrontaliera’ che violerebbe la sovranità del governo sudanese. I leader mondiali potrebbero usare la loro influenza per spingere il governo sudanese ad aprire un corridoio umanitario, ma sembra non ne abbiano la volontà politica. Questo conflitto non attira l’attenzione di nessuno.

Il papa-pastore e la nuova Europa

All’Angelus di ieri papa Francesco ha chiesto tutte le parrocchie, comunità religiose, monasteri, santuari di accogliere una famiglia di profughi. Il grido di Giovanni Paolo II, “aprite le porte a Cristo” diventa concreto in perfetto stile evangelico. Il Cristo da accogliere è una famiglia di profughi.
Con questo intervento e con altri che ha compiuto nel suo pontificato, Francesco ci sta re-insegnando il Vangelo e ci sta indicano la via per la ri-costruzione dell’Europa.

È un passaggio che la politica fa fatica a capire. Lo interpreta come ingerenza, ma tale non è. È semplicemente Vangelo vissuto che fa esplodere la politica dall’interno, e costringe le leggi, i regolamenti, i confini, soprattutto i confini mentali, ad adeguarsi alla vita.

Gli ungheresi, gli austriaci, i tedeschi che a centinaia, a migliaia si sono rifiutati di obbedire alle leggi e hanno soccorso, rifocillato, trasportato, ospitato, sorriso e applaudito i migranti ci hanno dimostrato che un altro grido che stava diventando un trito luogo comune può essere davvero vissuto: “un altro mondo è possibile”. Davvero siamo prima di tutto esseri umani, fratelli e sorelle, e poi siamo anche siriani, sudanesi, eritrei, musulmani e cristiani. Prima di tutto umani.

Ricordiamoci che qualche giorno fa il segretario generale della Cei, Galantino aveva fatto un intervento “politico”, attaccando quei partiti che cercano voti sulla pelle dei migranti. Ci sono state reazioni durissime, ma ovvie: sei i vescovi scendono nell’arena politica, troveranno risposte politiche. Ma questo è perché alcuni che fanno politica, e magari sono cristiani battezzati, non capiscono che il Vangelo è ben più lungimirante ed esplosivo delle ideologie politiche.

Gli istituti religiosi, comboniani in primis, sono chiamati a calare nel quotidiano la proposta del papa, e a dare una risposta pubblica, veloce e concreta. Chi nelle parrocchie e nelle case religiose cerca giustificazioni al non fare – evocando tutte le difficoltà possibili ed immaginabili, anche a livello di leggi e di regolamenti locali, di incompetenza nel gestire i rapporti con questure e prefetture, di difficoltà nel reperire il personale che si occupi adeguatamente di questo fatto – non ha capito la profezia di questo gesto.

Piccolo mondo egoista

Il nostro mondo europeo è ormai piccolo non solo geograficamente, e ha dato segni di diventare progressivamente sempre più meschino, gretto, chiuso nel proprio egoismo. Di fronte ai drammi del disastro ecologico e delle guerre – per i quali abbiamo responsabilità gravissime – siamo presi dal panico e rispondiamo alla crescente richiesta di solidarietà con l’indifferenza dei padroni e dei ricchi. E finiamo per diventare un piccolo mondo che si pensa al centro dell’universo e non capisce che al di là dei nostri confini c’è un nuovo grande mondo ribollente di vita, di progetti, di voglia di dignità.

Cosi crediamo a chi vuol farci percepire lo straniero come una minaccia, come colui che vuole derubarci della “nostra roba” e della “nostra identità”, invece che come “colui senza il quale vivere non è più vivere”.
Sbaglia chi crede di poter fermare con le leggi questa ondata di vita che viene ad abbracciarci. Fortunatamente per tutti noi, sono degli illusi. La legge non cambia la storia; anzi, quasi sempre la legge è costretta a seguirla, soprattutto quando si tratta di eventi epocali come le migrazioni oggi in atto. Chi invece cerca di capire la storia incomincia a vedere che la solidarietà o diventa globale o non ha più senso.

Gli egoismi di classe e di nazione sono il linguaggio del passato. Fra pochi anni i politici che hanno inventato i muri che dividono le nazioni come fra Messico e Stati Uniti, fra Israele e Palestina, fra Ungheria e Serbia, chi ha attuato i respingimenti, e chi ha fomentato intolleranza e razzismo, saranno consegnati alla storia come sopravvissuti di un’era in cui nessuno più si riconoscerà.

Nostri fratelli

Che bello questo papa-pastore che ci invita ad accogliere i rifugiati non per fare un’opera sociale, non per calcoli diplomatici o per cambiare equilibri geopolitici, ma “solo” perché queste persone «sono la carne di Cristo». E come meravigliarsi che chi ragiona solo in termini di economia e diplomazia non lo capisca e lo critichi?

Il corpicino di Alan, i corpi dei mille e mille morti affogati nel Mediterraneo vengono da questo gesto trasfigurati in un grande segno di speranza per i vivi. Stiamo imparando a riconoscerli come persone che venivano a noi con la speranza di essere considerati dei fratelli. Essi, che sono già con Colui che è davvero e definitivamente l’Altro, avevano capito ciò che noi fatichiamo a intravedere. Forse essi stessi pensavano di essere dei disperati che venivano a chiedere il nostro aiuto, in verità erano profeti capaci di vedere il futuro che è già qui nel presente. Già aspiravano ad una nuova Europa. Come qualcuno ha già fatto notare, sono loro a creare la nuova identità europea.

From Streets to Social Worker: Yama Kambole’s Story of Commitment

Yama Kambole was picked up by a Mthunzi social worker from the streets of Lusaka in 2001, aged five. Three years ago, after completing his high school, Yama decided to pursue a Diploma in Social Work, and now he is doing his first work experience in the same place where he grew up. His love and passion to work with the children, plus his winning smile, are making him a popular big brother. Catch a glimpse.

http://koinoniacommunity.org/streets-social-worker-yama-kambole%E2%80%99s-story-commitment

Obama e il Kenya, i Dollari e la Guerra

La visita del presidente degli Stati Uniti Barack Obama nel paese di suo padre era stata attesa da molto tempo, molti speravano sarebbe avventua sette anni fa all’inizio del suo mandato. A Nairobi molti giovani e donne hanno avuto almeno un lavoro temporaneo nell’opera di abbellimento delle città e gli affari sono andati molto bene per chi si era inventato modi creativi per sfruttare l’occasione, dagli artisti di strada ai venditori di gadget made in China.
Anche politicamente i preparativi era stati intensi, con diversi partiti che cercavano di posizionarsi per sfruttare la visita a proprio favore, specialmente l’opposizione che fin dall’elezione di Obama ha cercato di identificarlo con la propria base elettorale, in prevalenza del gruppo etnico Luo, da cui proveniva bama Senior.
Non tutti erano entusiasti per visita presidenziale, come i proprietari di attività commerciali del centro città che hanno dovuto chiudere per due giorni consecutivi. Altri hanno optato di allontanarsi per evitare il previsto caos e per paura di attacchi terroristici, approfittando delle offerte speciali delle agenzie di viaggio per le destinazioni turistiche della costa, dove gli alberghi lamentano da mesi l’assenza di turisti stranieri.
Le aspettative erano alte e dal punto di vista simbolico non sono state disattese. Obama ha gestito con grande abilita sia gli incontri con familiari (figli ache il padre ha avuto da altre mogli) come quelli con i giovani e gli imprenditori. Ha detto con la consueta enfasi, anche se un po appannata, le cose che tutti si aspettavano o sapevano che avrebbe detto. La grande delusione è stata la mancata visita a Kogello, il villaggio di origine del padre, dove fino all’ultimo momento hanno sperato in una visita a “sorpresa”.
A parte la pompa e il valore simbolico di questa visita che ha tenuto la maggior parte dei keniani incollati al loro televisore, quasi un mese dopo la visita, emergono le critiche che al momento erano state tenute in sordina dai media ammaliati dal racconto del figlio che torna a visitare la terra del padre, e dal governo che voleva a tutti costi presentare un Kenya pulito e attraente sia come destinazione turistica che come partner commerciale.

Il sogno americano in Kenya

Gladys Adhiambo è mamma per la terza volta da poche settimane. Quando nacque il primo bimbo, sei anni fa, lo volle chiamare Obama. Ora se n’è quasi pentita. Gladys è sulla trentina, completò la scuola superiore a pieni voti, ma per la condizione familiare non aveva potuto accedere all’università. Guardando l’infermiera del dispensario di Kivuli che fa un controllo di routine all’ultimo nato mormora quasi fra di se: “Mio marito ha un diploma di ragioniere, ma ha una lavoro pagato una miseria. Se non hai raccomandazioni importanti non vai da nessuna parte, anche se sei laureato. E’ difficile far quadrare il bilancio familiare, garantire buon cibo e cure mediche ai nostri tre figli. Tutto quel parlare di Obama su imprenditorialità ci darà nuove possibilità? Forse a chi sta già molto bene, a quelli che hanno connessioni importanti. Non a noi. La corruzione e le connivenze fra chi è già ricco sono così radicati che non ci sarà nessun beneficio per noi. Il terrorismo dalla Somalia è in aumento, il turismo continua a diminuire. Dovremo lottare per mantenere il nostro modesto stile di vita e garantire a questo figlio una vita serena”.

Paul Mukirai, leader di un gruppo giovanile a Ongata Rongai, immediata periferia di Nairobi, ha pure uno sguardo critico sulla visita di Obama. “Eravamo totalmente con lui quando ha parlato senza mezzi termini contro i politici e capi di stato africani che restano al potere troppo a lungo, e ha usato parole di fuoco contro la corruzione. Che questi siano gravi ostacoli alla crescita dell’Africa e del Kenya è chiaro a noi tutti. Ma non ci è piaciuto quando la sua difesa per i diritti degli omosessuali ha assunto i toni di una campagna per imporci idee aliene. Questa insistenza ci ha aperto gli occhi sul fatto che stava promuovendo l’american way of life come un nuovo vangelo, un modello che tutti devono seguire se vogliono avere successo. La nostra salvezza consiste nel divenire come gli americani? Ho letto e riletto i suoi discorsi e mi sono reso conto che ha insistito molto sulla centralità dell’individuo, sul suo successo personale, sull’auto-realizzazione economica. Questo è puro American Gospel. Come cristiano e come keniano non credo che questa debba essere la via per la nostra crescita”.

La critica di Mukirai non è molto condivisa. La maggior parte dei giovani del Kenya sono stati conquistati già molto tempo fa dal sogno americano. Caffè istantaneo, successo istantaneo, ricchezza istantanea, sono diffusamente percepiti come valori, segno di modernità, senza alcuna considerazione del modo con cui sono stati conseguiti, del costo per gli altri, per la società.

Lena Lasker è un’insegnate tedesca che viene regolarmente in Kenya per turismo e per interessi artistici. Questa volta ha fatto la sua prenotazione prima di rendersi conto che il momento avrebbe coinciso con la visita di Obama, ed i suoi movimenti ne sono stati intralciati. Ma non è questo che la disturba. La disturba che “sia mancato ogni segno di protesta contro Obama. Mi sarei aspettata delle manifestazioni pacifiche contro la presenza militare Keniana in Somalia. Di solito ai keniani piace protestare! Dopotutto Obama è il presidente americano che ha spinto il Kenya ad inviare soldati in Somalia, e questa è la causa immediata prima degli attentati terroristi in Kenya. O no? Forse la società civile Keniana ha chiuso gli occhi di fronte al fascino di un Presidente degli Stati uniti d’America che ha un padre keniano. O ogni possibile protesta è stata prevenuta dalla polizia?”.

L’opposizione si è sentita emarginata, addirittura tradita da Obama che in un’occasione ne ha denunciato l’opportunismo. Pochi giorni dopo la sua partenza i titoli di prima pagina dei giornali hanno ricominciato e proporre le solite notizie di malgoverno e corruzione. La Kenya Airways ha un buco di 26 miliardi di scellini (circa 236 milioni di euro) e rischia la bancarotta. Nel bilancio dello stato per il 2014 ben un quarto delle spese non sono adeguatamente documentate. Il governo, denuncia l’opposizione, si è lasciato corrompere dalla lobby dello zucchero ugandese ad ha firmato un contratto che penalizza pesantemente i coltivatori locali. E cosi via, come sempre. “La pulizia delle vie e parchi del centro non è bastata a pulire Nairobi, ci vuol ben altro”, dice sempre Mukirai.

I loro soldi, le nostre vite

Sono riemersi anche i commenti piu drasticamente critici sul coinvolgimento del Kenya nella vicenda somala. E’ immediatamente dopo l’entrata dei primi soldati kenyani in Somalia che Al Shabaab ha dichiarato che i kenyani l’avrebbero pagata cara. Era l’ottobre del 2011 quando, sotto la pressione americana un numero imprecisato di soldati keniani sono stati inviati in Somalia per creare una zona cuscinetto fino al fiume Juba, dove il gruppo terroristico Al Shabaab usava come base. Presidente degli Stati Uniti era Obama. Presidente del Kenya era Mwai Kibaki, suo vice era Kalonzo Musyoka, primo ministro era Raila Odinga. Ora Musyoka e Odinga sono all’opposizione e dopo la partenza di Obama chiedono a gran voce il ritiro dei militari keniani dal suolo somalo. Un politico locale che non vuole essere nominato mi dice: “Il presidente della Commissione parlamentare per la Difesa e e Relazioni Esterne, Ndungu Githinji, ha dichiarato che una stretta collaborazione tra il Kenya e gli Stati Uniti favorirebbe la sicurezza, lo svluppo economico, e gli interessi di politica estera che secondo lui coincidono. Gli USA, ha aggiunto, si sono dimostrati affidabili alleati del Kenya conto il fanatismo e il terrorismo, e che ci aspettiamo di vedere il presidente Obama riaffermare il suo impegno a continuare a sostenerci per il nostro ruolo di primo piano in Somalia, dove le nostre truppe stanno combattendo i miliziani di Al-Shabaab, come parte dell’AMISOM. Ha inoltre fatto appello all’Unione europea e altri partner internazionali per sostenere le truppe AMISOM fino a quando i terroristi saranno vinti “. Questo, sottolinea con forza l’uomo politico, dice sono belle parole che nascondono una tragica realtà: “Gli USA nostri alleati? E’ che noi siamo costretti per mantene buone relazioni con loro a combattere per loro. Obama non è venuto a rendere omaggio alla terra dei suoi antenati, questa è un favola. E’ venuto ed ha usato il suo carisma per garantirsi che continueremo ad essere il braccio armato dell’America. In Somalia noi combattiamo una guerra che è stata innescata da loro, ma noi paghiamo le conseguenze. Gli americani ci mettono i soldi, le armi, i droni, i loro sistemi di spionaggio, l’addestramento. Noi ci mettiamo il nostro sangue, i nostri figli, le nostre vite”.

Un’ultima considerazione di Mukirai riassume l’opinione dei pessismisti: “Durante la vista si è parlato di aiuti americani per aiutare le nuove imprese che promuovono innovazione, rinforzare i nostri sistemi di sicurezza, sostenere la nostra presenza in Somalia. I contenuti di queste promesse non sono ben chiari, ed io percepisco, mascherato dal profumo dei dollari, il tanfo disgustoso della guerra”.

Tegla Loroupe, la donna che corre per la pace. The woman who runs for peace.

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“Lo scorso anno ho visitato Kakuma, il campo per rifugiati nel nord ovest del Kenya dove si trovano sud-sudanesi, somali, somali, ruandesi e burundesi. Ho visto tanti giovani, alcuni che avevano praticato sport nel loro paese prima di diventare dei rifugiati, che si allenavano pur vivendo in una situazione difficilissima, e senza una dieta adeguata. Mi sono detta che dovevo fare qualcosa”. Tegla Loroupe, leggendaria maratoneta keniana, sta raccontando ad un gruppo di ex-bambine di strada come sia nata la sua più recente iniziativa: “Questa è una delle cose belle dello sport, che ti aiuta e vedere gli altri al di la delle etichette: non somali, o ruandesi o rifugiati, ma persone come te, che si impegnano per raggiungere dei risultati, che come te gioiscono per una vittoria e decidono di impegnarsi di più quando non raggiungono i traguardi che si erano prefissi”.

Tegla di traguardi ne ha raggiunti tanti. Nelle Olimpiadi del 2000, a Sydney, era la favorita nella maratona e nei 10,000 metri femminili. Aveva già vinto in tutte le principali maratone del mondo e aveva stabilito, oltre il record per la maratona, anche i record mondiali femminili per i 20, 25 e 30 chilometri, che ancora oggi non sono stati superati. Aveva già anche stabilito il record mondiale femminile di Un’Ora, percorrendo 18,340 metri. La notte prima della partenza per la maratona olimpica , Tegla soffri per una violenta intossicazione alimentare, cosi violenta che la sua salute ne restò minata per oltre un anno. Eppure dopo una notte tormentata da vomiti e diarrea, si presentò alla partenza e nonostante ricorrenti crampi allo stomaco, lottò fino alla fine, arrivando tredicesima. Il giorno dopo si presentò per le semifinali dei 10,000 metri, si qualificò, e il giorno successivo, in finale di 10,000 metri, riuscì ad arrivare quinta. Sempre a piedi nudi. Tutto perché, come dice lei senza enfasi, “dovevo tenere alta la bandiera del Kenya”.

Tegla ha fatto la sua ultima gara importante nel 2007, ma non si è messa in pensione. E’ stata nominata Ambasciatore dello Sport dalle Nazioni Unite e con la sua fondazione, Tegla Loroupe Peace Foundation, che da sei anni ha sede alla Shalom House di Nairobi, ha partecipato e promosso iniziative di pace in tutto il mondo.

La pace è il respiro del mondo, senza pace si muore.

Oggi è raggiante perché la sua azione per promuovere lo sport fra i rifugiati ha fatto un passo avanti. Insieme al Comitato Olimpico del Kenya e quello internazionale è riuscita a far partire un piccolo centro di allenamento per rifugiati sulle colline di Ngong, alla periferia di Nairobi. “Una ventina di rifugiati da paesi confinanti col Kenya si allenerà qui, inseme ad alcuni atleti keniani”. Perché, dice Tegla “gli sportivi, i veri sportivi, competono per il loro paese, ma sono persone che sanno convivere e promuovono la pace. Le scene di violenza che si vedono in certe cosiddette incontri sportivi sono assolutamente inaccettabili. Lo sport è pace! Questo nuovo centro per preparare atleti dell’Africa orientale a partecipare alle olimpiadi di Rio de Janeiro il prossimo anno è il primo tentativo di far allenate atleti rifugiati da paesi che sono in una situazione di conflitto, o l’hanno superata da poco. Sono sicura che da qui usciranno atleti che vinceranno medaglie. Alcuni mi chiedono: e se i paesi d’origine non accettassero di inserirli nella squadra nazionale? Troveremo il modo di superare anche questo ostacolo. Questi atleti saranno ancora più degli altri, un grande segno di pace. Dobbiamo fa capire a tutti che la pace è il respiro del mondo, dove non c’è pace si muore, sia fisicamente che dentro, nel cuore”.

La ragazzina che la federazione atletica Keniana inizialmente aveva giudicato troppo esile per poter competere in gare internazionali, continua a correre con la caparbietà che la contraddistingue. Non più per un’altra medaglia d’oro: per la pace.

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Quelli che aspettano Obama

Barak Obama, presidente degli Stati Uniti, figlio di uno studente keniano che era andato in America con un programma di borse di studio organizzato dal presidente John F. Kennedy, sta per arrivare a Nairobi. La prima volta in Kenya come presidente. I segni dei preparativi sono ovunque. Fra la gente degli slums gira addirittura voce che per tutti i tre giorni della sua presenza in città i network telefonici saranno oscurati, e cosi forse anche internet!
Se questa visita fosse avvenuta agli inizi del suo primo mandato per Obama sarebbe stato un trionfo popolare, i keniani si erano convinti che uno di loro era diventato presidente della prima potenza economica e militare mondiale. All’euforia subentrò l’attesa – non pochi contavano su sostanziosi aiuti per il paese – poi la delusione e perfino l’indifferenza. Oggi, nonostante i mass media giochino bene il loro ruolo di cheer-leaders, la gente comune sembra preoccupata per queste conseguenze ma poco interessata alla visita.

Il giornalista
Un giornalista che lavora per il più importante quotidiano keniano e che è della stessa etnia di Obama senior, mi dice: “Come tutti sanno i servizi di sicurezza americani hanno completamente preso in mano la situazione, estromettendo i servizi keniani, notoriamente incapaci e corrotti. Gli americani riusciranno a tenere tutto sotto controllo, e il loro presidente non correrà pericoli, ma ci potrebbero essere attentati i margini delle zone in cui Obama sarà presente, magari fra la folla. Grazie a Dio io son riuscito a far coincidere le mie ferie con questa visita”.

La profetessa
Achieng Awiti, un’anziana donna anche lei della stessa etnia del padre di Obama, è ancor piu pessismista. Ieri, fuori dal cancello di Kivuli, e forte della sua fama di profetessa diceva a tutti con aria misteriosa: “Obama sa di dover venire a morire qui, dov’è nato suo padre. Porterà dolore per tutti”.

Il ragazzo di strada
Martin invece non si azzarda in pronostici e profezie, guarda la realtà che sta vivendo. E’ un ragazzo di strada di sedici anni molto indipendente, ogni giorno viene a Kivuli Ndogo solo per il pasto di mezzogiorno: “La polizia ci perseguita, vogliono ripulire le strade, secondo loro Obama non deve sapere che noi esistiamo. Dove possiamo andare? Hanno distrutto le nostre basi, ci rincorrono e picchiano appena ci vedono. Ci mettono in prigione. Poi ci lasceranno andare quando Obama sarà partito. Ma siamo noi la minaccia?”. Martin dice il vero. Questi ragazzi-spazzatura, come vengono chiamati, per i governanti sembra siano i colpevoli di tutti i mali de Kenya, mentre invece ne sono le vittime, e il segno più chiaro di un’economia che arricchisce i ricchi e impoverisce i poveri.

L’educatore
Un educatore del centro di prima accoglienza preferisce guardare al futuro con ottimismo e azzarda in un paragone difficile ed una facile profezia: “Spero che questa visita sia il segno che il Kenya è guardato con ottimismo dalla comunità internazionale. Ma la visita a cui guardo con speranza è quella di Papa Francesco. Lui è davvero un leader speciale, non Obama. Son sicuro che quando verrà in Kenya a fine novembre, come ha promesso, non si arroccherà dietro i servizi di sicurezza, andrà a visitare i poveri a Kibera. Neanche il nostro presidente osa andarci, figuriamoci Obama. Ma lui, Francesco, ci andrà”. Non mi ero accorto che a popolarità di papa Francesco fosse arrivata cosi lontano, fra i poveri di Kawangware.

Il piccolo commerciante
La scorsa settimana i mass media hanno messo per giorni e giorni in grande evidenza a riapertura del Westgate, il lussuoso centro commerciale in cui avvenne un feroce attentato terroristico nel settemebre del 2013. L’evento e’ stato presentato come il segno della capacita del Kenya di superare le difficoltà. Personaggi dell’alta borghesia sono stati intervistati con sullo sfondo vetrine di lusso, bambini felici che guardano a bocca aperta avveniristici intrecci di scale mobili.
Sfogliavo il giornale al Baraza Cafe, e un conoscente si avvicina e commenta: “Io avevo un piccolo negozio di cartoleria a Kibera. Qualche mese dopo i fatti di Westgate il mio negozio è bruciato in uno dei periodici incendi che devastano Kibera. Ho perso tutto, e nessuno era colpevole. La banca che conosceva il mio piccolo business si è rifiutata di farmi un prestito, mi hanno detto che non c’erano i soldi. Ho sudato e faticato, con l’aiuto di mia moglie che si è rimessa a vendere frittelle ai margini della strada, come faceva da ragazza, e finalmente siamo riusciti a ripartire. Mi domando dove quelli del Westgate abbiano trovato tutti i soldi per ricostruire il loro gigantesco e sfarzoso palazzo in meno di due anni”.

Mai come in questi giorni in Kenya si percepisce quanto sia necessario passare dall’economia dello spreco, l’economia che uccide, ad un’economia del bene comune. Non sono profeta come Awiti, ma è facile pronosticare che se papa Francesco verrà a Nairobi, questo sarà una parte centrale del suo messaggio evangelico.

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Disuguali, sempre

Un altro attentato terrorista in Kenya perpetrato da Al Shabaab, stamattina a Mandera, sul confine con la Somalia. Mons. Joseph Alessadro, vescovo coadiutore della non lontana Garissa, dove ai primi di aprile avvenne la strage di studenti universitari, intervistato dall’agenzia Fides afferma, con buoni motivi, che “L’obiettivo degli Shabaab è di ‘liberare’ il nord-est della Somalia, abitato da keniani di origine somala, dai non musulmani e dai non somali. Come negli attacchi avvenuti in precedenza, sono stati presi di mira dei lavoratori provenienti da altre aree del Kenya, quindi non somali e non musulmani. Purtroppo sembra che questa strategia stia avendo successo. A risentirne maggiormente sono i settori della sanità e dell’istruzione. In tutto il nord-est l’educazione è in gravi difficoltà per la mancanza di insegnanti, provenienti da altre aree del Paese, che si rifiutano di tornare a lavorare lì”.

Non trovo la notizia sui siti italiani, dve pure l’altro ieri era stata riportata l’uccisione di un operatore turistico italiano a Watamu. Anche il sito della BBC da poca rilevanza al fatto

In margine ai non mai abbastanza condannati atti di terrorismo bisogna notare che sono sempre riportati con occhio razzista. E’ razzista chi vede in ogni bianco un crociato cristiano, chi vede in una fisiognomia medio-orientale segni di terrorismo, chi vede in ogni persona di pelle scura un clandestino. Ma è innegabile che sia razzista anche il modo, il contesto e l’importanza con cui si riportano gli episodi di terrorismo.

Razzismo è una parola che non si vorrebbe mai pronunciare, un concetto che vorremmo eliminare dal nostro pensiero, ma l’evidenza dei fatti quotidiani, locali ed internazionali, ci deve far prendere coscienza che il razzismo non solo esiste, ma pervade in profondità la “modernità” . E’ importante quindi essere consapevoli di vivere in una società seriamente malata di razzismo e identificare quegli agenti che ne provocano una recrudescenza e una crescita. La nostra cultura e società, per ragioni storiche, sono predisposte al razzismo, e certi movimenti sociali e politici, come in Europa i vari movimenti autonomisti e partiti che vedono nell’Europa una fortezza da difendere, hanno gioco facile a far leva sul razzismo più o meno latente, a scopi elettorali.

Non esistono “razze umane”, e quindi sarebbe addirittura improprio parlare di razzismo, ma continuiamo ad usare questa parola per parlare di una visone dell’umanità profondamente anti-umana e anti-cristiana, quel razzismo grossolano che distingue brutalmente le persone in base alle gradazioni di colore delle pelle, mettendo i più scuri al livello più basso. Il razzismo di Dyllan Roof, l’assassino ventunenne bianco e biondo che lo scorso 18 giugno ha ucciso a Charleston, negli Stati Uniti, nove persone in preghiera, colpevoli solo di avere la pelle di colore diverso dalla sua.

Ma c’è anche un razzismo che cerca di essere politicamente corretto, che si nasconde dietro altre maschere. La disuguaglianza basata su presupposti razzisti persiste sia in Sudafrica – dove l’apartheid è finito nel 1994 – che negli Stati Uniti – che hanno abolito il segregazionismo trent’anni prima – e pervade il pensiero occidentale. Nei mass media, nelle analisi politiche, nelle statistiche sociali, non è normalmente nominato, per una ipocrisia tipica del politically correct, ma esiste, eccome. C’è un “apartheid globale”, un sistema internazionale di governo della minoranza globale costruito sul tacito presupposto che le persone e la loro vita abbiano un valore diverso, in base al luogo di nascita, alla ricchezza ma anche al colore della pelle. Semplificando, ma non troppo, possiamo affermare che nel nostro mondo i poveri, coloro che non hanno potere, sono neri. Anzi, i poveri sono Africani. E, siccome sono poveri, sono un po meno persone umane degli altri.

Molti in questi ultimi mesi si sono domandati perché venti vittime del terrorismo a Parigi creano molte più reazioni che non duecento cinquanta vittime in Nigeria, o centoquarantotto vittime in Kenya? Perché ebola viene affrontata con determinazione solo quando alcuni bianchi muoiono e si scatena la paura che possa arrivare in Europa e negli Stati Uniti? Perché i riflettori restano puntati per giorni sulle trentotto vittime europee in Tunisia e poche ore sulle decine di vittime a Mogadiscio e Kuwait City? Forse le risposta è che la vicinanza della Tunisia ci ci fa sentire più vulnerabili? Sarebbe un errore vedere nell’accettazione tacita del valore differenziale della vita umana solo superficialità o indifferenza a ciò che avviene in paesi lontani. Il fatto fondamentale è che nel modo che gli occidentali hanno di porsi nel mondo il razzismo non è meno importante delle strutture militari, economiche, finanziarie e politiche che gli stessi occidentali hanno creato nel corso specialmente degli ultimi secoli per mantenere il privilegio, la supremazia, il dominio dei pochi sui molti. Il loro dominio.

Nel nostro tempo parte dell’inganno è consentire che i fatti della disuguaglianza razziale siano nascosti dietro altisonanti dichiarazioni di principio che negano il razzismo. Si dice “noi non siamo razzisti, da noi tutti hanno pari opportunità” per negare il passato, la storia, l’origine delle singole persone. “La nostra società non giudica dal colore della pelle” è un altro mantra tanto importante e falso quanto “il mercato è neutro”. Ma entrambe le affermazioni non sono vere. Nel sogno americano tutte le persone possono avere successo a prescindere dalla loro origine. La povertà, il fallimento sono attribuiti all’incapacità dei singoli, senza riferimento alla discriminazione passata o presente. Sei povero, sei in prigione, sei un fallito nelle vita per colpa tua, non perché sei nero, e non importa se l’80 per cento dei poveri, dei carcerati, dei falliti siano neri. Lo si dimentica, come un dettaglio statistico trascurabile. La prova del contrario invece sono proprio i casi di successo, che rimangono l’eccezione. Chi pensava che l’elezione di Barak Obama alla presidenza degli Stati Uniti fosse il segno che l’America avesse definitivamente superato il razzismo, adesso si accorge che cosi non è.

Quando si analizza l’ordine, o il disordine, mondiale, non si evidenzia mai l’importanza che in esso ha il colore della pelle. Anche la critica drastica che papa Francesco in “Laudato Sì” fa del sistema economico mondiale non nomina mai l’esistenza della discriminazione razziale o del razzismo. Invece, proprio come dovrebbe essere inconcepibile parlare del passato, presente e futuro della società americana nominare la storia degli afroamericani, così non si può parlare delle disuguaglianze globali del 21° secolo senza nominare l’”apartheid globale”. Ciò deve essere detto non per fomentare divisioni o rivendicazioni, ma semplicemente per riconoscere la verità, e ripartire dalla verità per costruire un mondo abitato da persone di uguale dignità.

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