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Life

Il Kenya che Vorremmo

Il 3 gennaio la tensione e’ cresciuta di ora in ora. La potevo misurare dal prezzo delle uova. Prima delle elezioni un uovo costava 6 scellini. Il mattino del 3 ne costava 8, nel pomerigio 10. A sera, dopo l’ annuncio dell’ opposizione che il 4 ci sarebbe stata un’ altra manifestazione di protesta, un uovo costava 12 scellini.

Ieri, il mattino del 4 verso le due ricevo un sms: “Kizito, siamo Kevin e Kenneth, i due acrobati. Vicino alla nostra casa di Kawangware c’e’ un grosso gruppo di mungiki, stanno progettando di dar fuoco a tutte le case dei luo. Possiamo rifugiarci da te, a Kivuli?”

Alle sei vado in auto verso la citta’. Strade vuote. L’ Uhuru Park circondato come ieri da poliziotti in tenuta antisommossa. Le schegge delle vetrine rotte di un supermercato che ieri e’ stato saccheggiato sono ancora sparse nel parcheggio.

Mi chiama padre Wanyoike: “L’ incontro dei giornalisti locali che avevamo pianificato per stassera deve essere cancellato. C’e’ una tensione enorme e tutti temono il peggio”.

Poi, verso le nove, si incomicia a capire che la manifestazione non ha nessuna possibilita’ di successo, e la tensione cala. Arrivano notizie che i manifestanti che si muovono verso l’ Uhuru Park sono poche centinai. Gia’ le migliaia che avevano manifestato il 3 erano immensamente lontani dal milione che Odinga aveva promesso di mettere in piazza, ma oggi sembra proprio che la gente sia stanca, prevale il bisogno di normalita’. Girano anche notizie che le due parti hanno deciso di dialogare. Alle dieci visito tre grandi supermercati che hanno appena riaperto le porte ai pochissimi clienti. Ma alle undici si e’ sparsa la voce della riaperture, le strade si riempiono di gente e di traffico, le donne degli slums arrivano con borsoni miracolosamente colmi di pomodori, cipolle, spinacci, e improvvisano mercatini anche sulle arteri pricipali. La gente si ferma, si contratta, i volti si distendono e si aprono in grandi sorrisi. E’ l’ Africa che conosco e amo. Forte, resiliente, amica, capace di sorridere anche nel dolore.

Faccio pranzo con un gruppo di acrobati, un incontro programmato da quindici giorni. Ken, lo stesso che dodici ore prima mi aveva mandato l’sms di panico ha un’ idea: “Domani invitiamo alla Shalom House tutti gli acrobati di Nairobi e facciamo una grande piramide umana. Ogni membro della piramide deve essere di una etnia diversa. E poi facciamo un comunicato di pace. Noi acrobati ogni volta che ci esibiamo dobbiamo avere una fiducai totale nel team, la nostra vita e’ nelle mani delgi altri. Cosi deve esswere il Kenya”

Ha appena finito di parlare che la radio annucia che i tentativi di mediazione sono iniziati e Kibaki e’ perfino disposto ad una ripetizione delle elezioni.

Le difficolta’ politiche restano, e le posizioni delle due parti non sono per niente addolcite. Ma ci si parla, e si spera che i machete torneranno ad essere usati solo per tagliare la legna.

Poi la doccia fredda. Dal Western Kenya, da sms e telefonate arrivano notizie raccapriccianti.  Si spera non siano vere, ma ancora una volta la notte e’ piena di fantasmi.

Gli Occhi della Paura

Una coppia chiede insistentemente di parlarmi. L’uomo ha una trentina d’ anni, e appena mi siedo accanto a lui inizia un racconto confuso, parlandomi del figlio, Evans, come se io dovessi conoscerlo bene. Gli chiedo di spiegarmi chi e’ lui, chi e’ suo figlio e cosa posso fare per lui. E’ sorpreso che non lo abbia riconosciuto, e tira fuori dalla tasca di una giacca vetusta – e’ ormai chiaro dall’ attegiamento, e dai vestiti che indossano che sono due persone di condizione estremamaente modesta e che hanno prpearato questo incontro con solennita’ – un foglio spiegazzato. “Sono il papa’ di Evans” mi ripete come spiegazione “al quale tu hai scritto questa lettera”. E’ il foglio stampato con cui invitavo le famiglie di Kibera che hanno figli bisognosi di fisioterapia a venire al piccolo centro la cui attivita’ avrebbe dovuto iniziare proprio oggi. Jack, riconosco la calligrafia del nostro giovane assistente sociale, ha scritto sulla linea tratteggiata iniziale Evans Njoroge, un nome che identifica subito un kikuyu. Incomincio a capire, e l’ uomo mi spiega ulteriormente, “Vedi, Jack e’ venuto a trovarci in casa, quando i nostri vicini gli avevano detto un mese fa che avevamo in figlio che non puo’ camminare da solo” E la donna interviene timidamente: “E’ stato molto gentile, ha detto che lo mandavi tu personalmente, e che saresti anche venuto a trovarci.”

Incorreggible mania africana, tutto, nel bene e nel male, e’ basato sul rapporto diretto fra le persone. L’ idea che io possa aver semplicemente scritto, firmato e fotocopiato un foglio per distribuirlo a persone che non conosco non li ha neanche sfiorati. Se sul foglio c’ e’ il nome del figlio significa che in qualche modo so della loro esistenza ed ho stabilito un rapporto di conoscenza.

Evans e’ appena fuori dalla porta, semisdraiato sulla una panchina di cemento, e appena mi vede cerca di alzarsi usando due grosse stampelle di legno, che probabilmente pesano piu’ di lui.. Avra’ si e no sei anni, le gambe rinsecchite e piegate, gli occhi impauriti.

Intanto il papa’ continua; “Siamo kikuyu, fino all’ altro giorno lasciavamo Evans nella nostra baracca a Kibera da solo, quando noi durante il giorno gestiamo un banchetto di frutta e verdura. Ma adesso non ci fidiamo piu’, i nsotri vicini potrebbero ucciderlo, o bruciare la baracca con lui dentro. Abbiamo trovato una baracca da affittare qui vicino alla tua casa per bambini di strada, ci sentiamo piu’ sicuri, non vogliamo tornare a Kibera. Pero’ non abbiamo i soldi per l’ affitto, facci un prestito, te lo restituiamo il mese prossimo. Aiutaci per piacere in nome di Dio”. L’ affitto per un mese un una baracca senza acqua e luce e’ di 800 scellini, circa 9 euro.

Non sono i soli che oggi sono venuti a cercare aiuto. La manifestazione organizzata dall’ opposizione in centro citta’ e’ fallita da qualche ora, contro un imponente spiegamente di forze di polizia. Forse gli animi si sono calmati. Ma la gente teme la notte, quando anche il piu’ piccolo rumore che fino a una settimana fa era considerato normale,adesso fa sobbalzare nel sonno, nel timore che si stia avvicinando un gruppo di assassini.

(scritto la sera del 03/01/08 per La Repubblica)

Kenya post-election violence: How can we defuse the crisis?

I quasi duecento morti accertati che abbiamo visto in questi giorni sulle strade del Kenya sono il risultato di una politica malata, fondata sull’ idolatria del potere e dei soldi, una religione che e’ stata alimentata dagli uomini politici keniani fin dall’ indipendenza.

Mentre scrivo, il mattino del 2 gennaio, la tensione per le strade di Nairobi, in particolare di Kibera, e’ diminuita. Evidentemente la gente ha bisogno di tornare alla vita normale, di guadagnare qualche soldo. Ma le notizie che giungono dal Western Kenya continuano ad essere allarmanti. D’ altro lato i problemi che hanno dato origine alle violenze rimangono, e nelle prossime settimane, quando il parlamento dovra’ essere convocato, molti nodi politici verranno al pettine, ed e’ probabile che la tensione torni a salire.

A questo punto la possibilita’ che ci siano stati dei brogli elettorali appare probabile. Ora emerge chiaramente che durante il giorno dell’ elezione ci sono state intimidazioni, non necessariamente violente, e che in parecchi seggi sono stati comperati dei voti. Questo riguarda entrambi i partiti che erano in corsa per le presidenza, PNU e ODM, ma non dovrebbe aver influenzato i risultati in modo determinante, anche se e’ un’ ovvia indicazione di un atteggiamento non democratico. Cio’ che potrebbe essere stato determinante invece potrebbero essere stati dei brogli al momento della conta generale dei voti. Ma finora nessuno e’ stato capace di dare prove chiare e sttribuire responsabilita’ precise. Personalmente ho sentito persone che raccontano di voti comperati dall’ ODM sula costa, ma che non sono disposti a esporsi. I documenti che l’ ODM ha assicurato di possedere e che proverebbero brogli su larga scala al momento della conta non sono finora stati esisbiti.

Per capire l’ attuale contesto politico keniano bisognerebbe risalire almeno al 1982, quando, dopo un tentativo di colpo di stato, l’ allora Presidente Moi ha traformato il Kenya in una dittatura brutale, pur mantenendo alcuni elementi di facciata che lo potevano spacciare per una democrazia. Il tutto, e’ bene notare, sempre restando fedele alleato e protetto dalla Gran Bretagna e degli USA, e amico dell’ Occidente. Sarebbe troppo lungo seguire dall’ ’82 ad oggi la carriera politica dei due principali protagonisti della crisi odierna, Mwai Kibaki e Raila Odinga. Basti dire che da allora ad oggi entrambi sono stati alleati di Moi e avversari di Moi, alleati con tutti e avversari di tutti, anche tra di loro. Per entrambi non si puo’ parlare di una posizione ideologica, ma sempre e solo di alleanze per arrivare al potere. Entrambi hanno una rilevantissima fortuna personale, che in qualche caso non esistano ad ostentare. E’ famosa la Hummer di Raila, un fuoristrada che costa diverse decine di migliaia di euro e che fa due kilometri con un litro, usato da Raila per visitare Kibera, il piu’ grande slum di Nairobi, che fa parte del suo collegio elettorale. Per entrambi, credere che siano motivati da desiderio di servire il paese o che siano paladini delle democrazie e dei poveri, e’ cadere vittima di una pericolosa illusione. Il loro atteggiamento e’ descritto bene nell’editoriale del 1 gennaio del The Nation: “Neither the Party of National Unity nor the Orange Democratic Movement during the campains demonstrated any particular restraint or regard for the country’s stability. The mantra appears to have been: We either rule it or burn it.” (Ne il Party of National Unity ne l’ Orange Democratic Movement durante le campagne (elettorali) hanno dimostrato particolare controllo o rispetto per la stabilita’ del (nostro) paese. Il mantra sembra essere stato: o lo governiamo o lo bruciamo”. L’ incontrollata sete di potere, e di proteggere col potere le ricchezze piu’ o meno legalmente acquisite, e’ il motore dell’ attivita’ politica di questi partiti.

Detto questo, bisogna fare delle distinzioni. Mwai Kibaki ha quando e’ andato al potere cinque anni fa, ha fatto delle riforme importanti, come l’ educazione gratuita per gli otto anni di scuola elementare, come il garantire la liberta’ di espressione e di stampa (per cinque anni non abbiamo avuto prigionieri politici e tanto meno assasini politici come avveniva con Moi, e mai in Kenya una campagna elettorale e’ stata libera come quella dello scorso mese, etc), come una serie di provvedimenti economici che hanno fatto ripartire l’ economia del paese, che negli ultimi anni di Moi aveva una crescita negativa e invece dal 2004 e’ cresciuta di oltre il 5 % all’ anno. Due i sono i grandi falllimenti di Kibaki. La corruzione pervasiva, ereditata dai 24 anni di malgoverno di Moi, non e’ stata combattuta con l’ efficacia e la determinazione che il cittadino comune avrebbe voluto. E’ stata si ridotta di molto, ma resta un cancro che pervade tutta la sociata’ keniana. Inoltre, la nuova costituzione promessa da Kibaki appena eletto non e’ stata ancora approvata, e la conseguente promessa di decentralizzazione del potere non e’ stata onorata.

Dal canto suo Raila Odinga, andato al governo come membro della coalizione di Kibaki cinque anni fa, e’ poi passato all’ opposizione sulla questione della nuova costituzione, e e’ riuscito a far bocciare la costituzione proposta da Kibaki con un referendum due anni fa. L’ ODM e’ nato dallo slancio di aver fatto bocciare la costituzione e da allora Raila ha accentrato il potere del movimento ed ha esasperato la questione tribale. Da oltre un anno ormai la parola d’ ordine fra i luo, che e’ l’ etnia di Raila e che ha un peso proponderante nel ODM come invece i kikuyo sono le’ etnia di Kibaki con un peso preponderante nel PNU, e’ stata “e’ arrivato il nostro turno di governare il paese” per poi trasformari piu’ recentemente in “se perdiamo le elezioni vuol dire che ci sono stati brogli”. Raila poi durante la campagna elettorale ha giocato due carte pericolose. Prima ha promesso di implementare il “majimboism”, una specis di regionalismo che era stato negli anni novanta proposto da Moi e rifiutato da Raila, senza specificare che contenuti avesse questo majinboism, lasciando cois temere, anche riferendosi alla storia personale di Raila, che si trattasse concretamente di una specie di rigido regionalismo che avrebbe frazionato il Paese. Successivamente ha firmato con I notabili della comunita’ musulmana un Memorandum of Understandig i cui contenuti non sono mai stati divulgati con chiarezza. I suoi avversari, e molti cristiani, hanno comunque questo MoU comunque come un errore perche fa una distinzione fra i cittadini kenyani basandosi sull’ appartenenza religiosa, e questo e’ gia’ contro la costituzione in vigore, cosi come contro il progetto di costituzione dell’ ODM.

Kibaki e il suo gruppo non hanno trovato di meglio che reagire a questa campagna che alzando steccati e lasciandosi imprigionare nella trappola delgi stereotipi etnici. Questa etnicizzazione della politica e’ cosi responsabilita’ esclusiva dei lidears. Per citare ancora l’ editoriale del Nation, indirzzandois a Kibaki e Raila, afferma: “Never has there been so much animosity between people who have lived together as good neighbors for many years. The chaos we are now experiencing is the handiwork of the tribal, economic and political elite, which identify with you.” (“Non c’e’ mai stata tanta animosita’ fra gente che ha vissuto insieme per molti anni come buoni vicini. Il caos che stiamo vivendo ‘e il prodotto dell’ elite tribale, economica e politica che si identifica con voi”).

Che l’aspetto etnico sia diventato centrale non lo si puo’ negare. Inutile girare intorno al problema. Odinga in primo luogo, ma anche Kibaki e il suo partito, negli ultimi tre anni, per ragioni di opportunita’ politica personale, hanno fatto tutta una serie di passi intenzionali, e a volte magari solo passi sbagliati, che hanno alimentato l’ animosita’ etnica.

Entrambi I partiti usano salturiamente, sopratutto nei momenti cristici, l’ appoggio dei “mungiki” e delle sqaudre organizzate e pagate di giovani disoccupati e disperati.

I mungiki sono nati all’ inizio degli anni novanta come una comunita’ di kikuyo che voleva tornare alla religione ancestrale, la venerazione di Ngai (Dio) rappresentato dal monte Kenya, ecc. Lentamente questo gruppo e’ degenerato in una specie di piccola mafia che a Nairobi ha controllato per esempio alcune della linee di trasporto, e che riesce a mobilitare gli adepti anche per azioni violente e criminali. In questo gruppo ci sono ora anche non-kikuyo ma tendenzialmente si identificano con la difesa delle comunita’ e degli interessi kikuyo. A questa setta parareligiosa si contrappongono le squadre di giovani disoccupati di Kibera controllate da Raila Odinga, e delle quali Raila si e’ sempre servito per provocare disordini di piazza, piu’ di una volta all’ evidente ricerca dei morti da poter poi usare per I propri scopi.. Sono i due volti peggiori dello scontro in atto.

Non sono sicuro di cosa sia successo nelle altre localita’, le notizie sono frammentarie e sempre di parte. A Nairobi pero’ posso dire che la maggioranza delle vittime di questi ultimi giorni on sono state uccise negli scontri con la polizia, ma da azioni organizzate da questi due gruppi. Cosi a Kawangware, dove i kikuyo sono prevelenti, hanno attaccato case e piccole attivita’ artigianali dei luo, e l’ opposto e’ avvenuto a Kibera. Purtroppo poi come sempre capita a farne le spesa sono le persone inermi e innocenti. Il mattino del 31, dopo la notte di peggiori violenze che siano finora avvenute a Kibera, un amico Kamba mi raccontava terrorizzato di aver visto a poche decine di metri dalla sua baracca di Kibera i corpi di 4 suoi vicini e conoscenti, kikuyo, che erano stai sgozzati con un coltello da cucina. Lo stesso sta avvenendo in eastern Kenya, cme mi ha testimoniato una volontaria italiana: I negozi e le case dei pochi kikuyo che vi vivono sono metodicamente attaccati e bruciati e i proprietari “invitati” e rientrare nella loro regione. Un majimboism della peggior specie.

Questa crisi l’ abbiamo vista arrivare, ma nessuno na aveva capito la poteziale distruttivita’ e la carica di tribalismo che stava prendendo. I sondaggi che sono stati pubblicati dai media Kenyani negli ultimi mesi facevano vedere come la gente continuasse ad avere una sostaziale fiducia nel presidente e sempre meno fiducia nel sul partito. Mentre molti che erano favorevoli ai cambiamneti promessi dall’ ODM erano meno entusiasti verso Raila, percepito come un uomo politico con tendenze dittatoriali. Cosi oggi i risultati delle elezioni, prendendo come autentici quelli ufficiali, rendono il paese ingovernabile, con un presidente nel quale sono accentrati molti poteri ma che e’ un minoranza in parlamento, e che quindi non puo’ governare, e con una rivalita’ tribale che e’ sfuggita probabilmente anche al controllo di chi l’ ha scatenata.

E le due parti sembrano ormai fisse su posizioni che non ammettono il dialogo. Un amico giornalista kikuyo mi pare possa rapprentare una mentalita’ comune: “Io ho votato nel mio collegio elettorale per un parlamentare dell’ ODM, perche’ credo che l’ ODM possa avere in parlamento una funzione importante di controllo su un possibile strapotere del Presidente, ma non accetterei mai Railia come Presidente. Con lui al potere fra cinque anni non avremmo elezioni truccate. Non avremmo elezioni, punto e basta”.

Come sbloccare la situazione?

Innazittutto e’ importante che Kibaki e Raila accettino di muoversi nella legalita’, rispettando la legge la costituzione vigente, rinunciando entrambi alle manifestazioni di piazza che inevitabilmente provocherebbero morti e feriti. E servirebbero solo ad inasprire le divisioni e creare un piedestallo per i due leaders: I miei morti sono piu’ dei tuoi.

Il parlamento, cosi come risulta dai risultati elettorali annunciati, deve essere convocato e la Giustizia deve lavorare indipendentemente per esaminare le reciproche accuse di brogli. Ma non basta, Kibaki deve accettare una seria revisione delle elezioni e la riconta dei voti con la presenza di un monitoraggio internazionale. Non c’e’ altra alternativa se vuole garantire la sua legititmita’.

Ma la cosa piu’ importante e; che Kibaki e Raila dialoghino. Kibaki finora ha reagito con la repressione, Raila punta sulle manifesta zioni di piazza che gli diano legittimita’. Ma e’ una strada di confronto che non puo’ portare lontano e che rischia di bloccare il paese in un conflitto irrisolvibile. La diplomazia internazionale deve aiutare il Kenya, Gran Bretagna e USA devono aiutare a avviare il dialogo, la Comunita’ Europea puo’ avere un influnza inportante. L’ Unione Africana potrebbe aiutare a prender tempo. Tutte le possibili pressioni devono essere fatte su queste due persone e i partiti che rappresentano finche’ accettino il fatto che il Kenya e’ piu’ importante di loro, e che devono collaborare.

Ma in ultima analisi la pace non puo’ venire dal di fuori, deve nascere dal di dentro, per poter superare definitivamente le difficolta’ e gli odi seminati negli ultimi mesi e nelle ultime settimane. Un’ ipotesi possibile sarebbe quella di recuperare il “terzo uomo”, Kalozo Musyoka, che e’ cosro per la presidenza ottendneo quasi messo milione di voti. Appartiene ad un’ etnia minoritaria, non ha mai usato ne pubblicamente ne privatamente, da quanto si sa, il linguaggio dell’odio tribale, ha competenza e cpnoscenza della situazione politica del Paese. Potrebbe diventare il mediatore interno ideale, capace di far muovere avanti un processo di riconciliazione che non puo’ essere imposto dal di fuori.

Il dialogo fre le due parti deve cominciare al piu’ presto. Non si puo’ aspettare. Bisogna evitare la manifestazione di piazza di domani. Se questa manifestazione dovesse andare avanti, che il governo si opponga o no, non ci sono dubbia che scatenera’ un nuovo ciclo di violenza e morte che rendera’ ancora piu difficile la possibilita’ di una riconciliazione.

La Capanna Vuota di Hassan

Hassan ha diciannove anni, ma è piccolo e minuto per la sua età. Si muove agile su un sentiero che solo lui vede, infiltrandosi fra enormi sassi, passando attraverso stretti cunicoli che si aprono improvvisamente su squarci di paesaggio che lasciano senza fiato.

È un caldo e limpido pomeriggio. Andiamo a far visita a sua madre, vedova e cieca, fin da quando suo figlio aveva pochi mesi. Finalmente arriviamo alla nostra meta: è una casa fatta di sassi, arroccata su una terrazza naturale che guarda verso la valle di Kauda, quasi completamente nascosta da un enorme fico selvatico.

Quando si arriva sui Monti Nuba, si ha di primo acchito l’impressione di trovarsi di fronte ad una natura assolutamente selvaggia e inospitale. Ci si accorge solo dopo che in realtà i Nuba si sono inventati uno stile di vita in perfetta simbiosi con l’ ambiente in cui vivono. Ogni sentiero, ogni sasso porta il segno di una presenza umana, lieve e rispettosa. Ogni casa e ogni cosa che contiene sono tutte costruite con materiali che si possono trovare nel raggio di meno di un chilometro: sono sassi, paglia, legna, zucche secche, corde ricavate dalla corteccia degli alberi. Le tanche di plastica per l’acqua sono invece i soli corpi estranei a quest’ambiente, ma sono anche una grande comodità offerta dal mondo moderno.

Mi viene incontro Peter, il “fratello minore”, in realtà un cugino; ha nove anni ma è già quasi alto come Hassan. Dopo di lui esce la mamma che si muove con grande sicurezza, come se vedesse, nonostante i suoi occhi siano completamente chiusi e rinsecchiti. Come è potuto accadere? Mi spiega che dopo la nascita di Hassan, si era ammalata molto gravemente. Ad un certo punto i vicini pensavano fosse morta, per cui, come di consuetudine, prima di seppellirla le forzarono gli occhi, girandoli verso l’interno: i morti non hanno più bisogno di guardare avanti, devono solo guardarsi dentro. Quando si sono però accorti che era ancora viva, il danno irreparabile le era stato ormai fatto.

Taccio, per rispetto. In tanti anni, con tanti incontri con culture diverse, ho ormai perso, se mai l’ho avuta, qualsiasi pretesa di conquista, ogni presunzione di giudice, ma anche ogni illusione di riuscire a di “farsi tutto a tutti”, come diceva San Paolo. Sono ancora ai primi passi, devo ancora imparare ad ascoltare, libero dalla preoccupazione del dover insegnare, dell’avere necessariamente seguaci. Devo lasciarmi solo guidare dall’interesse sincero per le persone che mi stanno intorno, dalla loro accoglienza ed amicizia, per diventare loro amico, capace di comprendere e condividere. Per poi, quando anche il vicino si mette alla ricerca, proporre una via comune, di volgerci verso l’unico Amico che è capace di dare salvezza.

Hassan mi fa visitare con orgoglio la sua poverissima e piccolissima casa. È lui che la tiene in ordine e che fa da capofamiglia. Al mattino lui e Peter si alzano molto prima del sorgere del sole. Quando è la stagione vanno a lavorare nei campi e prendere l’acqua. Poi preparano colazione, facendo bollire farina di mais e zucchero; danno da mangiare alla mamma e quindi si dirigono verso la scuola. Non si trova molto lontano, sospira Peter; è solo a mezz’ora di cammino e porta il nome di Musa Arat, il catechista che abitava qui vicino. Quando tornano alle due del pomeriggio, bisogna aspettare che il sole cali un po’, per tornare a lavorare nei campi, che si trovano un po’ più in alto, dove la montagna va appiattendosi in una grande altopiano, dove si trova anche la scuola.

I timori che la violenza armata possa scatenarsi di nuovo

La pace fra governo e lo SPLM/A (Sudan People Liberation Movement/Army) è stata ormai firmata da quasi tre anni, preceduta da due anni di cessate il fuoco. Ma quali sono stati i progressi portati dalla pace? La mamma mormora qualcosa a voce bassa e Hassan traduce: “Dice che ha sempre vissuto qui, in questo villaggio arroccato sulla montagna, subito preso sotto il controllo dei ribelli, per cui la guerra qui non è mai arrivata. La conoscevamo solo per il suono degli scontri che avvenivano giù nella valle. Era comunque preoccupata per il figlio e per il nipote, i cui genitori erano stati uccisi dall’esercito governativo. Temeva che entrambi sarebbero stati arruolati. Adesso, senza il rumore della guerra, anche il suo cuore è in pace.”

Hassan e Peter mi dicono che quando sono a scuola continuano invece ad ascoltare avidamente il giornale radio della BBC, che coincide con l’intervallo. Sono consapevoli che la pace è ancora fragile, che in Darfur c’ è in atto una guerra devastatrice e che alcuni rifugiati sono arrivati dal Darfur fino ai Monti Nuba. Sanno che fra la SPLA e il governo ci sono molti scontri che per il momento sono solo verbali e politici, ma non mancano i timori che la violenza armata si possa scatenare di nuovo da un momento all’altro.

Ritornando verso la scuola, i due ragazzi indicano un struttura dal grande tetto di lamiera zincata che brilla sotto il sole. “È una chiesa costruita da una ONG americana; hanno promesso che costruiranno altre 150 chiese di questo tipo”, dice Hassan. Centocinquanta chiese per una popolazione di forse centomila cristiani e novecentomila islamici, non sono forse troppe? “No, perchè noi cristiani stiamo crescendo. Con tante chiese potremo pregare tanto, e Dio sarà con noi” afferma Peter. Non sa che la ONG in questione appartiene alla stessa Chiesa del presidente americano George W. Bush e che nelle sue parole riecheggia la certezza di Bush, quella che ci sia un dio che sta dalla sua parte… . Ma non sembra molto convinto, come invece lo era quando al mattino, in classe, lui e gli altri studenti chiedevano più scuole perchè tutti i loro coetanei potessero studiare. Che senso ha costruire tutte queste chiese? Per quanto mi riguarda non è più un tipo di progetto con cui mi trovo in sintonia. Vorrei riuscire solo ad essere un fratello che cammina assieme ai fratelli, che parla il linguaggio semplice ed essenziale dei gesti, degli occhi, e che quando usa le parole usa quelle di Gesù, e racconta di sole e di pioggia, di semi e di raccolti, di morte, di guarigione e di vita.

Poche centinaia di metri prima della scuola c’ è un gruppo di capanne dove abita colui che dà il nome a questo altopiano, il Kujur. Nella tradizione dei Nuba, Kujur è il mediatore tra Dio e gli uomini, quello che in italiano chiamiamo con linguaggio spregiativo “stregone”. Il Kujur di questa ha ricevuto questa carica dal padre, a cosi all’ indietro per generazioni. Ha la reputazione di custodire i segreit piu’ antichi e che le sue cure siano piu’ potenti di quelle degli altri Kujur Nuba, per questa ragione tutta la localita’ si chiama semplicemente Kujur. L’ attuale Kujur è un anziano mite e curvato dagli anni, i cui nipoti frequentano la scuola di Koinonia. Durante il giorno cura le persone che si rivolgono al lui usando la sua conoscenza delle erbe. La sua funzione più importante è quando le piogge tardano ad arrivare. Allora, su richiesta della comunità, organizza preghiere speciali. Anche quest’anno è stato così. Allora il Kujur ha chiamato altri sei anziani e al tramonto si sono trovati tutti nudi sotto il grande albero sacro. Per tutta la notte hanno versato libagioni di birra sul tronco dell’albero, hanno cantato e pregato, fino a quando il sole è sorto ed e’ tornato alto nel cielo. Allora sono rientrati nella loro capanne a riposare. Subito dopo sono venute le nuvole e prima del tramonto un gran temporale benefico ha fecondato le terre dei Nuba. Così mi racconta Peter.

Il miglior regalo sarebbe quello di avere piu’ scuole

Poi dopo un po’ di silenzio, Hassan aggiunge: “Però le sue medicine non funzionano sempre. Abbiamo bisogno di ospedali e di medici. Dopo la firma del trattato di pace ci avevano promesso tante cose. Sono venute tante delegazioni a visitarci. Ma è successo poco a nulla. Ora sembra che il grande ospedale delle Diocesi di El Obeid, giù nel fondovalle, sia stato completato e dovrebbe entrare presto in funzione. Speriamo bene. Sarebbe il miglior regalo di Natale”. “No, no” lo corregge Peter immediatamente “il miglior regalo sarebbero quello di avere più scuole, così poi noi potremo diventare dottori e curarci da soli, senza dipendere sempre dagli altri.”

A scuola i maestri stanno invitando i bambini a preparasi al Natale. Cosa faranno? Una festa: tutti gli studenti porteranno un po’ di farina di mais; l’amministrazione della scuola aggiungerà latte e zucchero. Ci sarà quindi da mangiare per tutti e si starà insieme tutto il giorno, fino al tramonto. Gli studenti inviteranno anche da ogni villaggio la mamma col neonato più piccolo. E saranno proprio questi neonati ad essere al centro dell’attenzione e dell’affetto di tutti. Non è forse Gesù venuto a noi come un bambino?

Penso al Natale di altri bambini che dovranno invece scegliere fra sofisticati giocattoli e dolci elaborati. I doni che riceveranno saranno magari un segno vero dell’affetto dei loro genitori, ma in molti casi potrebbero essere solo il simbolo di un’affannata corsa all’apparire, al successo, al denaro, al potere che riempie la vita dei loro genitori. Il niente diventa idolo ed è adorato. Invece qui il niente diventa un atteggiamento dell’animo, un’ apertura, uno spazio per l’ accoglienza degli altri, per la crescita della solidarietà. Come la povera capanna vuota di Peter, di Hassan e della loro mamma, uno spazio vuoto ma sempre pronto per accogliere chi passa vicino.

Il Bambino che viene a mani vuote e ci porta in dono solo l’Amore, quest’ anno potra’ nascere in una capanna Nuba.

(pubblicato con qualche lieve modifica in Famiglia Cristiana, n. 51, 23.12.07)

The Greatest Gift

“Father, I’d like to become a Christian”. One never gets used to these words, even if one happens to hear them many times. Now, they come from the lips of a young woman who, since two years ago, every Saturday, has been giving a hand in washing the clothes of the smallest children of Kivuli. She is little less than thirty, with three children and was never married. Sometime ago, to one of my questions about her family, she had answered me: “I want children, but I do not want a man whom I must feed. By now, our men here at Riruta are only good at making children; other than that, they are a burden. At night they come home drunk, expect that you serve them supper whereas they haven’t contributed a single shilling for it, and they beat you up for any trivial reason only to prove that they are stronger.” I tell her: “How is that? I have always thought that you were baptized; isn’t your name Esther, a Christian name?” “No, I am not baptized. Esther is only a name that my mother gave me, but I have never belonged to any church even if, on Sundays, I have always liked listening to whoever spoke about God.” Then she tells me the whole story of her life, in that exhaustive, meticulous way that only Africans are capable of. No shortcuts, everything in details, the important episodes that perhaps happened fifteen years ago, quoting the words as if they had been pronounced yesterday: “Then I told him, and he told me, and then a woman friend of mine butted in saying…”

I listen to her, I look at this woman sitting on the bench of Kivuli next to me and, in the meantime, my thoughts wander… I imagine the sufferings and disappointments of a life that had started in the dignified poverty of the village, the unexpected luck of attending secondary school, and then the slow descent into the deepest misery and destitution, the despair of being unable to provide for the most essential needs of the children, the worry about the aged parents there, at the village, who are expecting a little help from her when they are sick. The betrayals of and disappointments the “husbands” have given her… Which feelings prevail in the heart of this woman? Hatred, rebellion, refusal?

She stops talking, gathers her hands on her lap and bends her head, in a humble attitude, as if expecting a verdict. The smallest child, frightened by the silence, hides behind her.

I ask her: “Esther, why do you like to become a Christian?” She answers me without hesitation, getting hold of the child and placing him on her knees. “I do it also for them, for my children. Because I have understood that the God of Jesus loves us as we are, in flesh and blood, dirty and sick, sad or cheerful, competent or good for nothing. I had understood it since sometime past. Jesus attracts me. I got confirmation here at Kivuli, when I saw the attention and affection that Bonny, your street social operator, has for all the children he meets. I have read the Gospel. I have seen the Light”.

Jesus said to His disciples that He was sending them to announce the Good News, according to Matthew: “Cure the sick, raise the dead, cleanse the lepers, cast out devils. You received without charge, give without charge”. Gratuitousness: love given and received without calculations, without the fear of losing, without the hope of gaining something in the future, is the only way of announcing the Gospel. Esther has understood it, as well as the innumerable African mothers I have known, who called their children Given, Gift, with all the variations in the vernacular languages. They are the women who have understood that life has meaning only if it is a gift, a gift received with gratitude and offered with love, in a gratuitous way. The gift of oneself to the others is the logic of life.

It is the gratuitous gift of oneself that God wants. When Jesus, always according to Matthew, goes on saying: “Provide yourselves with no gold or silver, not even with a few coppers for your purses, with no haversack for the journey or spare tunic or footwear or a staff.” I do not think he wanted to make rigid rules for us, justified a little later by the fact that “the workman deserves his keep.” He wants rather to insist on gratuitousness. To travel without luggage means to leave room for the unexpected, not to be oppressed by the fear of not making it, it means to entrust oneself to the sense of gratuitousness of the other, besides providence.

What can I say to Esther? She has already understood that her children are the greatest gift that God has given her and she is ready to sacrifice herself for them, so that they themselves may walk towards God. I am going to tell her that God loves her and her children and that, together, we must kneel with respect and reverence in front of Jesus who has made Himself present to her.

This is to be missionaries: to contemplate the presence of the spirit of God; to remain in silence in front of the mystery in order to discover the right words, not arrogant or empty, but true and humble, in order to attempt to speak of Him and of His work to others, the friends who are around us, the indifferent who believe they can lead a full life even without Him. It is to learn where words end, silence prevails, and the Light shines on everyone.

Trent’ anni

Sono arrivato in Zambia trent’anni fa, a metá settembre del 1977. Dopo l’ordinazione sacerdotale, nel ’70, avevo lavorato a Nigrizia e fatto tanti viaggi in Africa per raccogliere materiale scritto e fotografico per la pubblicazione e gli arichivi della rivista. Poi era finalmente il momento di partire per restare. Certamente nella mente di qualcuno dei miei superiori era un allontanmento, forse una punizione, per essere stato troppo vicino ai movimenti di liberazione qiuelle che erano le colonie portoghesi. La visita ai ribelli della Guinea Bissau, e il libro che ne era seguito, non erano stati accettati da tutti. Almeno inizialmente. Poi, dopo la rivoluzione dei garofani e la caduta di Caetano, quegli stessi superiori in una conferenza stampa si erano fatti belli del libro, dicendo “noi comboniani avevamo visto lontanto e da anni abbiamo fatto opposizione al colonialismo portoghese, come testimonia il libro di padre Kizito…”. Ma di tutto questo e di come gli altri vedessero le cose non mi importava niente. Finalmente partivo.

Il padre generale di allora mi aveva chiesto quale fosse la mia preferenza. Volevo andare nel Ghana, dove i comboniani era presenti da poco e che aveva bisogno di giovani? O in Kenya , dove si erano rifugiati alcuni dei nostri espulsi dall’Uganda di Amin? Il Sudafrica, che avevo visitato un paio d’anni prima, mi attirava, ma mi aveva intimorito la presenza massiccia di un gruppo di missionari anziani, quasi tutti tedeschi, con i quali temevo non mi sarei sentito in sintonia. Poi padre Agostoni aggiunse, “vorremmo anche aprire delle nuove missioni in Zambia, se te la senti…Saresti il primo comboniano ad andare in quel paese”. Padre Agostoni aveva in mente una grande strategia: i comboniani erano gia presenti in Mozambico da molti anni, e da poco erano in Malawi. Prendendo delle missioni nell’angolo orientale della Zambia, incuneato fra Mozambico e Malawi, si sarebbe creata una zona di presenza comboniana in cui si parlava praticamente la stessa lingua locale pur essendo in tre paesi diversi, rendendo possibile degli scambi di personale in caso di instabilitá politica. L’ occasione di mettere in atto questa grande strategia non venne mai. Se ben ricordo, da allora, é capitato solo una volta che un comboniano si sia spostato dal Mozambico in Malawi, accompagnando i rifugiati, negli anni ’80. Non gli lasciai comunque il tempo di pentirsi per l’ offerta, ed accettai, li dov’ero, nel giroscale della casa generalizia a Roma. Cosi son partito dall’Italia, con stopover ad Abidjan, in Costa d’Avorio, dove la prestigiosa rivista degli intellettuali neri Presence Africaine aveva organizzato un colloquio sul tema “Africa e Chiesa”. Arrivai in Zambia con l’incarico di rilevare la missione di Chadiza dai Padri Bianchi che avevano giá cominciato a risentire della crisi di vocazioni che avrebbe coinvolto i comboniani solo qualche anno dopo, e con nel cuore la visione di un Concilio Africano che era stata ufficialmente proposta per la prima volta ad Abidjan.

A Lusaka c’erano giá le suore comboniane, che si chiamavano ancora Pie Madri della Nigrizia, e che avevo visitato due anni prima, in un lunghisssimo viaggio che mi aveva portato in quasi tutti i paesi dell’Africa Australe. Appena arrivato a Lusaka, a metá settembre del 77, andai ad alloggiare nela casa dei Padri Bianchi, che si erano offerti di ospitarmi fino all’aprile successivo. Li risiedeva anche padre Jean Vermeullen, che mi avrebbe insegnato il chinyanja, la lingua locale. Il giorno dopo l’arrivo andai a salutare le Pie Madri, nella parrocchie di New Kanyama, un vasto quartiere popolare alla periferia di Lusaka. Suor Clara, levatrice nel piú grande ospedale pubblico della Zambia – l’University Teaching Hospital – mi suggerí “quale miglior modo di iniziare la vita in Zambia che assistere ad un parto?” Avevo il mio diploma di infermiere generico conseguito all’Ospedale di Gallarate, dove avevo anche visto qualche parto, anche se non era previsto dal corso, perché il dottore responsabile aveva una visione romantica del missionario che doveva essere capace di fare di tutto, e mi aveva doto questa possibilitá. Accettai l’invito di suor Clara, e il mattino del mio terzo giorno a Lusaka, verso le 9, assistei al parto di un maschietto. Non si prevedevano complicazioni, ed il parto avveniva in corsia, il letto separato solo da un paio di tendine. La mamma raggiante, subito dovo aver sentitio il primo pianto, lo volle fra le braccia. Quando, dopo un paio d’ore in giro per l’ospedale, tornai a quel letto, c’era giá un’altra mamma in preda alle doglie del parto, mamma e bimbo che evevo visto nascere erano giá stati dimessi.

Ho pensato spesso a quel bambino. Ormai, se gli é andata bene, e non é diventato un numero nelle statisitiche della mortalitá dovute e malattie infantili, malaria, tubercolosi e AIDS, é un uomo di trent’anni.

Sono stati trent’anni di cambiamenti per la societá e per la chiesa africana. La chiesa, anche se provvidenzialmente ormai ha vescovi e leaders quasi tutti africani, nel suo complesso ha un volto ancora troppo marcatamente europeo, e fa fatica a capire e a tenere il passo con i cambiamneti del continente. D’altronde il processo di appropriazione del Vangelo puó solo essere lungo e faticoso. Io, nei paesi in cui ho vissuto, ho cercato di camminare al passo dei miei fratelli e sorelle della comunitá locale, cercando di non creare ostacoli.

Per quanto riguarda la vita ecclesiale gli anni della Zambia sono stati i piú intensi. C’era allora il fermento delle comuntiá di base, e línculturazione era l’orizzonte teologico entro il quale ci si muoveva. L’ aria fresca che era entrata nella chiesa quando Papa Giovanni si era accorto che la chiesa aveva bisogno di spalancare la finestra sul mondo era ancora in circolazione.

Non ho mai avuto rimpianti. L’Africa mi ha restitutito non cento, ma mille volte, quello che ho lasciato. Ho visto ripetersi mille volte il miracolo del seme che muore e rinasce, e quello del seme piccolissimo dal quale nasce una grande albero. Se alcune delle cose che ho fatto sono cresciute, e’ perche il frutto che dá valore all’albero. Sono grato ai miei amici e fratelli e sorelle africane che hanno fatto frutitficare il lavoro che abbiamo fatto insieme,

In Africa ho approfondito la mia comprensione del senso cristiano della vita. Che i fallimenti sono piú importanti dei successi. Senza gli insuccessi, riconosciuti e direi quasi assaporati, amati, la chiesa rischierebbe di diventare una efficiente multinazionale della caritá. L’insuccesso, la Croce, ci aiuta a vivere nella fede.

Ho imparato anche che la virtú che dá un dolce sapore a tutto, anche agli insuccessi, ai tradimenti di coloro che si pensava fossero amici, é la bontá. La vecchia a volte vituperata bontá, che rende visibile la bontá di Dio sulla terra. Dio é buono, e e noi tutti siamo attratti dalla bonta’. Molte volte, in un ambiente difficile o ostile, la possibilitá di comunicazione e di dialogo é cominciata da un gesto di bontá che ho visto fare da una persona.

E, fra le tante cose, l’ Africa mi ha insegnato che la mia personale avventura umana non ha senso e valore se vista da sola, deve essere capace di dissolversi nel contesto della comunitá. Solo insieme ci possiamo muovere verso gli orizzonti di Dio.

Kizito

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