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Life

Sperando nella Pace

Sono rientrato a Nairobi dopo cinque giorni di assenza in Italia, dove sono stato intervistato a Le Invasioni Barbariche sulla situazione in Kenya e sull’ impegno di Koinonia ed Amani per i bambini di strada. Un’ esperienza positiva, sopratutto rispetto ad altri poverissimi “talk shows” a cui mi era, disgraziatamente, capitato di partecipare in passato. Infatti mi ero ripromesso di non accettare piu’ inviti di questo tipo, ma le insistenze di Arnoldo hanno prevalso, ed e’ stato bene cosi.

A Nairobi la situazione non si e’ sbloccata, anzi il governo si e’ irrigidito su posizioni che paiono irragionevoli e che non tengono in considerazione il bene comune. L’ opposizione sta organizzando una giornata di proteste di massa per domani, e il timore e’ che torni a riesplodere la violenza.

Stiamo rimettendo in ordine – sia per la grafica che per i contenuti – i siti internet delle varie attività’ gestite da Koinonia, in gran parte elencati qui sulla sinistra. Provate a visitare Africa Peace Point e Koinonia Kenya, e se avete critiche, osservazioni e suggerimenti fatemi sapere.

Segnalo anche che alcuni amici in Italia hanno incominciato a lavorare per la pace in Kenya e pubblicano ogni due settimane una newsletter di informazioni. Se volete riceverla gratuitamente potete chiedere a peaceculture@gmail.com che vi mandino la Peace Kenya! newsletter. E’ disponibile sia in italiano che in inglese

America e Cina

I negoziati fra governo e opposizione continuano, e Kofi Annan fa balenare speranze di accordi a breve termine, entro una settimana.

Intanto si vengono a sapere particolari che sempre piu’ inficiano i risultati delle elezioni, probabilemnte non solo di quelle presidenziali ma anche di quelle parlamentari.

Un amico che e’ professore di diritto internazionale ha avuto la pessima idea di candidarsi al parlamento per il PNU, il partito di Kibaki, in un collegio elettorale vicino al lago Vittoria, una zona tutta pro ODM, dove e’ nato.. Ieri mi raccantava le sue disavventure. Tre giorni prima delle elezioni, sono arrivati in zona dei personaggi della polizia amministrativa, che secondo la gente, avevano il compito di fare dei brogli a favore di Kibaki. Lui e gli altri candidati del PNU, lui dice, non sapevano niente di questa cosa e cosi’ quando la gente ha incominciato a cacciarli, letteralmente, e ne hanno uccisi tre, si sono trovati in grosso pasticcio. Al giorno delle elezioni e’ andato a votare insieme alla mamma molto anziana, che non sa leggere. Al seggio elettorale la persona incaricata di aiutare gli analfabeti ha preso la scheda ad ha chiesto alla mamma “Per chi vuole votare?” Lei ha detto PNU. L’ incaricato invece ha fatto la croce sul simbolo dell’ ODM, sempre fissando negli occhi il figlio, come a voler dire “prova a protestare se ne hai coraggio”. Questo e’ uno dei seggi in cui l’ ODM ha avuto il 93% per cento dei voti. Due giorni dopo i militanti ODM hanno circondato la sua casa rurale, dove stava con la mamma ed altri parenti, e li hanno fatti uscire, poi hanno incendiato la casa e nel cortile hanno sepellito una foto di Kibaki. La mamma e’ morta poche ore dopo, sconvolta da quanto aveva visto. Lui e’ rimasto nascosto in casa di amici per due settimane, e poi e’ riuscito ad arrivare a Nairobi dopo un viaggio di sei giorni, che mi ha descritto come l’ attroversamento di un girone infernale.

Viene subito alle labbra una domanda: ma allora se le cose sono andati cosi e se, come ormai e’ evidente, nelle rispettive roccaforti i due partiti che si scontravano hanno forzato la gente a votare per i propri candidati, come mai gli osservatori internazionali non hanno visto niente ad hanno inizalmente detto che le elezioni si erano svolte in un perfetto clima democratico? Non hanno visto le intimidazioni? Come mai si sono accorti che il conto dei voti e’ stato fasullo solo dopo che i risultati sono stati annunciati? Questi osservatori servono ancora a qualcosa?

Il mio testo che segue e’ stato utilizzato oggi come editoriale di Agora’, l’inserto domenicale del quotidiano Avvenire.

 

MA È L’OCCIDENTE CHE CONTINUA A SOFFIARE SUL FUOCO

di Kizito Renato Sesana

Èdifficile scrivere di Africa.

Sempre più difficile.

Soprattutto se si ama questo continente e la sua gente, e vi si è spesa quasi tutta la propria vita da adulti, com’è il mio caso. Ho cominciato a scrivere di Africa nel 1970, e da allora ho visto troppe genuine speranze frantumarsi sugli scogli del cattivo governo e delle interferenze esterne. Si firmano trattati i pace, ma scoppiano subito altre guerre. I trattati diventano carta straccia nel giro di poco tempo, e i conflitti armati si trascinano per anni, come piaghe purulente. Come continuare a dire parole di speranza quando si parla dell’Africa?
Gli avvenimenti recenti del Kenya sono paradigmatici. Nel 2002 i keniani riescono a democraticamente togliere il potere dopo 24 anni! – a Daniel Arap Moi, e i primi passi del nuovo governo sono incoraggianti. Ma presto favoritismi e corruzione tornano a prevalere, il governo si spacca, l’ opposizione si organizza in quello che assomiglia a un movimento popolare. A fine 2007 la campagna elettorale divide il paese lungo linee etniche, e subito dopo le elezioni, ferocemente contestate, si scatena sopratutto nelle Rift Valley una violenza di una brutalità mai vista. In poche settimane quello che era un paese modello per sviluppo economico e stabilità politica, il perno intorno a cui ruota la sopravvivenza di diversi altri paesi dell’Est e Centro Africa, rischia di precipitare nel caos.
Sbaglia chi parla di nuovo Ruanda. Il contesto è troppo diverso. Certo, ci sono ingiustizie storiche, una maldistribuzione o addirittura non-distribuzione delle ricchezze del Paese che hanno creato una più che giustificabile voglia di partecipare al benessere, un sordo e profondo risentimento nella masse dei disperati ammassati nelle baraccopoli come Kibera: ciononostante il Kenya avrebbe potuto superare questi problemi con i suoi tempi e con le sue dinamiche interne. Senza violenza. Sono state le pesanti interferenze esterne che hanno reso possibile l’ esplodere della violenza. Ciò che è avvenuto in Kenya va visto nel contesto più vasto di una nuova corsa all’Africa, alle sue ricchezze. In sintesi, fino pochi anni fa la competizione era fra Usa e Francia, ed era giocata in sordina, con toni da finti gentiluomini. Adesso la Francia è rimasta indietro e la Cina sta emergendo come una competitrice. L’ evidente supporto logistico e massmediatico che Usa e Gran Bretagna hanno dato all’opposizione – esaltandone gli aspetti positivi e tacendone le gravi pecche – è stato senz’ altro motivato anche dal fatto che Kibaki ha incominciato a guardare a Oriente: per ragioni puramente commerciali, non ideologiche. Le perdita per tante compagnie occidentali la perdita di contratti estrememnte lucrosi, come quello della forniture per le auto al governo e polizia del Kenya, è una delle ragioni di questo voltafaccia.
Dall’inizio degli anni ’90 si verifica tutta una serie di insipienti interventi occidentali che col pretesto di sostenere la democratizzazione hanno causato danni enormi: l’intervento armato in Somalia, il sostegno dato a Mobutu prima e a Kabila poi in Congo, il contrabbandare l’ugandese Museweni o il sudanese John Garang, o l’etiope Meles Zenawi, come la soluzione ai problemi dei loro paesi, solo per capire più tardi di aver aperto la strada a nuovi dittatori. Ma la responsabilità di questi disastri avvenuti o in fieri, per la maggioranza dei mass media internazionali, è sempre e solo dell’ Africa e degli africani che sono immaturi, violenti e tribalisti.
La Chiesa africana in questo contesto tormentato fa fatica a trovare una proprio identità e una propria strada. Le voci che richiamano alle esigenze del Vangelo sono ancora troppo timide. Il secondo Sinodo Africano, previsto per l’ anno prossimo, ha avuto dal Papa il compito di riflettere sul tema «La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, delle giustizia e della pace». Niente di piu’ urgente e rilevante.

 

Vent’ Anni

Ho appena finito un incontro di due giorni organizzato dal nostro gruppo comboniano del Kenya, al quale hanno potuto partecipare una ventina di confratelli. L’ obiettivo era di analizzare la situazione politica e sociale in cui ci troviamo, identificare le principali cause dell’ esplosione di violenza e incominciare ad abbozzare una risposta cristiana a quanto sta succedendo. E’ stato uno sforzo comune con grande partecipazione e qualche nuova iniziativa dovrebbe partire presto. Come ho sempre pensato noi come chiesa, comunita’ di comunita’ cristiane, siamo molto lenti a reagire alle situazione, ma siamo piu’ capaci e determinati quando si tratta di fare formazione umana e cristiana sui tempi lunghi. E qui i stempi saranno lunghi.

Ieri Kofi Annan ha incontrato il Parlamento ed ha aperto delle prospettive molto positive, di un governo di transizione per arrivare a nuove elezioni entro due anni. Ma e’ stato subito accusato dal gruppo di negoziatori di Kibaki di non aver rappresentato cio’ che invece era stato detto negli incontri. Oggi tutti i negoziatori si sono trasferiti in una localita’ segreta per essere lontani dalla pressione dei mass media. Intanto la calma sta ritornando quasi dappertutto. E la gente incomincia a riflettere incredula sulla gravita’ degli avvenimenti di questo mese e mezzo, e sui drammi umani che stanno venendo alla luce.

Domani, San “Valentino, saranno esattamente  20 anni dal mio arrivo in Kenya. Sara’ una buona scusa per fare una modesta festa coi bambini di Kivuli. Modesta non solo perche’ siamo in quaresima, ma anche perche’ e’ il nostro stile. Dopo la solita cena di githeri – un bel minestrone di chicchi di granoturco, fagioli e patate – biscotti e succo di frutta a volonta’.

La Misna (www.misna.org) ha intanto pubblicato un’ ottima traduzione dell’ articolo che vi avevo proposto qualche giorno fa in inglese. Ringrazio gli amici della Misna e lo riproduco qui sotto come da loro traduzione per chi non conoscesse la Misna.

 

Non cerchiamo rivoluzionari dove non esistono

 
Non è possibile capire davvero quel che sta accadendo in Kenya e in Africa senza riflettere sulla cangiante natura dei movimenti di opposizione e le differenze tra un movimento spinto dal potere del popolo, ovvero una rivoluzione democratica, e una pletora di movimenti che consolidano le istituzioni democratiche per gli scopi del capitale internazionale volando sotto il radar della democrazia. Parlerò qui avanti soprattutto di Raila Odinga e dell’Orange democratic movement(Odm) ma potrei in realtà star parlando di Mwai Kibaki e del Partito per l’unità nazionale (Pnu). E’ solo perché l’Odm ha attivamente corteggiato l’immagine di ‘movimento di potere del popolo’, impegnato in una rivoluzione democratica, che richiamo la vostra attenzione su questo partito. Amilcar Cabral (padre dell’indipendenza della Guinea Bissau, ndr) una volta disse: “non dire bugie e non rivendicare vittorie piccole”. È con questo spirito che scrivo questo articolo.

COMINCIAMO DALLA QUESTIONE ETNICA. Così come non stupisce incontrare un americano che nega l’esistenza del razzismo nella politica americana, allo steso modo non ci si dovrebbe stupire se un africano nega che la politica africana è profondamente radicata nell’etnocentrismo. Il razzismo è un prodotto storico che ha una sua funzione, è così il ‘tribalismo’. Come gli esponenti politici dell’Occidente strumentalizzano la razza e la paura per scopi politici, così fanno anche quelli africani. L’etnocentrismo può essere una forza benigna o estremamente pericolosa, secondo il direttore d’orchestra. L’etnocrazia, proprio come qualsiasi struttura di potere razzista, esiste nella misura in cui è in grado di nascondere agli occhi delle vittime e degli attivisti le cause profonde dello sfruttamento economico, politico e sociale. È un meccanismo per attirare l’attenzione altrove. Non dimentichiamo anche l’avvertimento di Kwame Ture (al secolo Stokely Carmichael, uno dei capi del movimento per il black power negli Stati Uniti e poi panafricano, ndr) di non confondere successi individuali con vittorie collettive. La maggioranza dei kenyani – che siano di etnia Luo, Kikuyu, Luhya o altre – sono poveri. Il 60% dei kenyani vive con meno di due dollari al giorno, e ciò riguarda tutte le etnie. L’elite kykuyu prospera a spese dei poveri kykuyu; e lo stesso avviene per gli altri. I poveri di tutti i gruppi etnici hanno molto più in comune di quanto non abbiamo in comune i poveri e i ricchi della stessa etnia. Razzismo, nazionalismo ed etnocrazia tutte esigono che i poveri muoiano per difendere le strutture sociali che li mantengono nella povertà. Non sorprende che sia i morti sia chi ha ucciso in Kenya nelle scorse settimane fossero, da entrambe le parti, poveri. E tuttavia si uccidono seguendo criteri etnici, non di classe. I partiti politici occidentali hanno espresso posizioni diverse e contraddittorie lungo la loro storia, così pure è accaduto per i partiti africani. Nelle dittature degli Anni ’60, ’70 e ’80 del secolo scorso, le opposizioni politiche erano “i buoni”. Ma gli analisti politici internazionali progressisti ancora usano quel modello di lettura, che oggi ci impedisce di vedere le palesi contraddizioni davanti noi. Un esperto ben informato sulla complessa trasformazione della politica africana negli ultimi due decenni non può partire più dall’assunto che l’opposizione politica sia automaticamente rappresentativa di una forza popolare. Prendiamo ad esempio il caso dello Zimbabwe. Il Movimento per il cambiamento democratico, all’opposizione, è un partito neoliberista. Definirlo rivoluzionario o antimperialista sarebbe un errore. In Kenya, sia il governo al potere sia l’opposizione vedono spostarsi dall’uno all’altra i reciproci parlamentari con il cambiare delle rispettive posizioni politiche, con lo scopo di spartirsi le poltrone. William Ruto, uno dei capi del Odm è stato in passato il tesoriere dell’ala giovanile del partito Kanu, un organizzazione di teppisti utili alla politica creata dall’ex dittatore Moi, il quale ora è dalla parte di Kibaki. E faccio notare che il recente attacco alla chiesa in cui sono state uccise 50 persone è avvenuto a Eldoret, bacino elettorale di William Ruto, di cui è stato per molti anni il deputato eletto in parlamento.

Non tutti i partiti d’opposizione sono quindi antimperialisti o contrari all’intenzione del capitale globale di compattare il mondo. IN tempi in cui le nazioni ricche e le loro elite diventano sempre più ricche e le nazioni povere e i loro poveri diventano sempre più miseri, alcuni partiti d’opposizione scelgono di stare dalla parte del capitalismo globale. L’Odm include alcune delle persone più ricche del paese. Ad esempio la famiglia Odinga è proprietaria della fabbrica di melassa Spectre International e ha legami con una multinazionale petrolifera e mineraria per l’estrazione dei diamanti. Sulla stampa internazionale Raila è definito come un “brillante milionario”, il che non è del tutto falso. Ciò detto, è cruciale capire cosa significhi essere un movimento del popolo. Affinché una politica per il popolo sia davvero efficace, la solidarietà deve attraversare tutte le etnie. In altre parole, un movimento che tragga il suo potere dal popolo deve essere fondato sulla coscienza degli oppressi. Poiché non ha una base sviluppata in anni di lavoro con e per il popolo, l’Odm può solo sollevare il malcontento puntando sull’etnicità piuttosto che organizzare l’intero paese contro lo sfruttamento da parte delle elites. Come tutti i movimenti populisti, fa leva sulle peggiori paure della gente (quella di una dominazione kikuyu, per esempio) e le proietta sulla scena politica nazionale. Al contrario, un movimento che sia davvero per il potere popolare scarterebbe queste paure per mettere in evidenza come il potere e il benessere vengono iniquamente distribuiti. Poiché l’Odm non lo ha fatto, i suoi sostenitori hanno identificato i poveri kikuyu come nemici. Un movimento per il potere popolare avrebbe diretto le sue energie e la sua rabbia contro lo stato, non contro un’altra etnia. Un movimento per il popolo dichiarerebbe la sua solidarietà con gli emarginati di tutto il mondo. È terzomondista nella sua visione. Un movimento per il popolo, poiché la sua visione nasce organicamente dalla sua lotta e dal suo impegno al fianco del popolo, presenta una posizione contro un sistema economico internazionale di sfruttamento poiché i suoi membri sono resi più poveri da quei meccanismi. L’Odm non può essere definito come panafricano e terzomondista, piuttosto ha una coscienza populista. Inoltre, il guscio – la facciata – di movimento del popolo può essere usata dall’elite nazionale per conquistare il potere ma al servizio del capitale internazionale. Piuttosto che usare un termine come populista o popolare per riferirsi all’ Odm, sembra utile prendere in prestito una definizione dell’International Republican Institute (Iri, organizzazione fondata dall’ex-presidente Ronald Regan per promuovere “programmi di democratizzazione” nel mondo, ndr): “consolidamento democratico” con riferimento a una tecnica utilizzata dall’Iri nella Rivoluzione arancione in Ucraina e nella rivolta haitiana che portò alla deposizione del presidente Aristide. Il “consolidamento democratico” si traduce nel mettere insieme le organizzazioni della società civile (religiose, universitarie, ong locali, associazioni di donne, etc) e unire le diverse fazioni dell’opposizione in unica forza elettorale. Se i missionari aprirono la strada al colonialismo, i gruppi evangelici delle democrazie occidentali come l’Iri aprono oggi la strada alla politica estera degli Stati Uniti. L’unico vero scopo del “consolidamento democratico” è rimuovere i governi al potere. Non c’è nessuna sottostante e coerente ideologia collegabile al popolo, nessun interesse a dare potere al popolo o a restituire l’economia e le istituzioni alla sovranità popolare. Anzichè sviluppare vere radici con il popolo, in modo da diventare una sua estensione una volta al potere, l’Odm ha scelto il facile percorso del “consolidamento democratico” indicato dal modello Iri. Dobbiamo urgentemente distinguere tra movimenti per il potere popolare (come quelli che vediamo in America latina), movimenti populisti e movimenti d’opposizione neoliberali the consolidano le istituzioni democratiche a beneficio del capitale internazionale. I movimenti per il potere popolare sono una quinta forza solitamente in opposizione alle quattro esistenti: i poteri legislativo, esecutivo, giudiziario e militare.

Quando prendono il potere con mezzi democratici, i movimenti per il popolo cercano di trasformare le altre quattro forze in strumenti della rivoluzione. Vengono varate leggi per la nazionalizzazione delle risorse o per la redistribuzione delle risorse e della terra. L’esercito viene trasformato da strumento di intimidazione a una forza di soccorso in caso di calamità naturali. In poche parole, un governo per il potere popolare mette il popolo al centro dello stato. Quando un movimento che ha agito per il “consolidamento democratico” prende il potere fa esattamente l’opposto e le strutture democratiche diventano uno strumento del capitale globale e della politica estera degli Stati Uniti. La Liberia, per esempio, dopo avere lavorato con l’Iri, è uno dei pochi paesi ad aver aperto le sue porte allo Us African command centre. E dobbiamo almeno riflettere sul fatto che nelle passate settimane l’Odm non si è impegnato nella fase finale di una rivoluzione popolare ma piuttosto nell’ultimo passaggio del consolidamento democratico neoliberale, usando le persone come una testa d’ariete contro lo stato. È quello che accade quando un partito neoliberale chiama milioni di persone a scendere in piazza con la speranza di paralizzare lo stato. Poiché il “consolidamento democratico” ha bisogno del flusso e riflusso dato dalla violenza dello stato e della protesta del popolo, Raila, interrogato dalla Bbc se avrebbe fatto appello alla calma, ha potuto cinicamente dichiarare: “Mi rifiuto di dare un anestetico ai kenyani così che possano essere stuprati”.

Nel caso ve lo chiedeste, lasciatemi in ogni caso dire che per i progressisti non è Kibaki la risposta. Prima delle elezioni, la Commissione kenyana per i diritti umani ha reso pubblico un rapporto in cui si accusa la polizia di quasi 500 uccisioni di giovani uomini, tutti da quartieri come Kibera e Mattare, baraccopoli in fermento. È il segnale che la crescita economica del 6% non arriva alla gente più in basso, neanche le briciole. Il che significa anche che la compravendita del voto (su entrambi i fronti politici) è quasi una certezza. Sufficienti dubbi sono stati espressi dalla commissione elettorale per un riconteggio delle preferenze, una ripetizione del voto, un governo di unità nazionale o altra idonea soluzione all’interno delle regole democratiche. Se vogliamo riconciliare il paese e avere giustizia, le voci progressiste dovrebbero chiedere un’inchiesta delle Nazioni Unite sulla pulizia etnica successiva alle elezioni avvenuta a dicembre e a gennaio a Eldoret e in altre aree. Dovrebbe esserci un’inchiesta dell’Onu anche su quel che accadde nel 1994 nella Rift valley dove centinaia di kikuyu vennero assassinati e migliaia furono costretti alla fuga durante il regime di Moi, come anche nel massacro di Wagalla nel 1984 (sempre durante il regime di Moi), in cui centinaia di keniani di etnia somala furono uccisi. Infine dovrebbe essere aperta un’inchiesta anche sulle morti, non collegate alle elezioni, dei 500 ragazzi, lo scorso anno. I progressisti dovrebbero chiedere che la crisi sia risolta all’interno delle strutture democratiche. Quando Bush vinse un’elezione che noi non abbiamo chiesto ad Al Gore di provare a rovesciare il governo con una rivoluzione arancione, non gli abbiamo chiesto di dividere il paese secondo direttrici razziali: neri contro bianchi, bianchi contro latinos; gli abbiamo chiesto di rimediare usando procedure pacifiche e democratiche. E per questa ragione gli Stati Uniti sono ancora in piedi, nonostante Bush. Sia Raila che Kibaki possono creare un governo d’unità; chiedere un riconteggio dei voti e anche nuove elezioni. Qualunque sia il modo con cui ci si arrivi deve essere uno che lasci il Kenya in piedi per le generazioni a venire.

Il mio appello è questo: “Non cerchiamo rivoluzionari dove non ne esistono”. La solidarietà internazionale dovrebbe essere con il popolo keniano e non con i singoli capi. Un’intera nazione è in gioco. La cosa migliore per il Kenya è che ora torni su una via pacifica governata da strutture democratiche tali da sopravvivere a Raila e a Kibaki. Questo renderà possibile un governo con il potere del popolo attraverso una rivoluzione democratica.

[Mukoma Wa Ngugi, autore dell’articolo tradotto dalla MISNA, è poeta, scrittore ed editorialista keniano e Coordinatore delle conferenze dell’organizzazione panafricana “Toward an Africa without Borders”; per le due parti precedenti dell’articolo vedi notiziario di stamani e di ieri sera.]

Rivoluzionari? Si, ma con la Pelle degli Altri

Ho trovato sul New Internationalist di quasi un mese fa un articolo di analisi sulla situazione sociale del Kenya che trovo molto chiaro e acuto, e estremamente preciso nei fatti che cita. L’ autore e’ keniano, il che e’ indubbiamente un valore aggiunto, in questi tempi in cui si leggono e si sentono molte cose sul Kenya scritta da persone che col Kenya non hanno molta familiarita’.

Qualcuno potrebbe essere infastidito dall’ uso di categorie “marxiste”, ma queste categorie sono ormai parte della sociologia e fintanto che aiutano a capire siano benvenute. A me e’ sembrato fuori luogo l’ inutile parallelo fra missionari di un tempo e l’ IRI di adesso, che non aggiunge niente al discorso, e’ solo un luogo comune tutto da provare.

Ho trovato invece illuminante il pur brevissimo parallelo fra i fatti del Kenya e la rivoluzione ucraina. Come ho gia’ scritto, anche un giornalista ottimo conoscitore dell’ Ucraina si era accorto di notevoli sominglianze fra il modo con cui l’ ODM ha condotto la sua campagna elettorale e quanto era stato fatto in Ucraina. Che ci sia davvero una matrice comune?

Riporto l’ articolo in questione qui sotto. Purtroppo non ho il tempo di tradurlo dall’ inglese, se qualcuno si prestasse a questo servizio sarei poi ben contento di metterolo sul blog in italiano.

L’ originale lo trovate a http://www.newint.org/features/special/2008/01/11/kenya/index.php

From New Internationalist, January 11 2008

Let us not find revolutionaries where there are none

Mukoma Wa Ngugi, urges us to be wary of the democratic revolutionary claims made by various parties in Kenya.

One cannot fully grasp what is happening in Kenya and Africa without considering the changing nature of opposition movements and the differences between a people powered movement, or a democratic revolution, and a plethora of movements that consolidate democratic institutions for international capital while flying under the radar of democracy.

Even though here below I am mainly speaking about Raila Odinga and the Orange Democratic Movement (ODM), I could just as easily be speaking about Mwai Kibaki and the Party of National Unity (PNU). It is only because ODM has actively courted the image of being a people powered movement engaged in a democratic revolution that I draw your attention to it. Amilcar Cabral once said ‘tell no lies, claim no small victories.’ It is in that spirit that I write.

Let me begin by pointing to the question of ethnicity and say this: In the same way you ought to be surprised to meet a white American denying the existence of racism in American politics, so should you be when you meet an African denying that ethnocentrism is deeply entrenched in African politics. Racism is a historical creation that serves a function – so is ‘tribalism’. In the same way that leaders in the West manipulate race and fear for political goals, so do African leaders. Ethnocentrism can be benign or extremely vicious depending on its conductor. Ethnocracy, like a racist power structure, exists to the extent it is able to obscure for the victim and the activist the root causes of economic, political and social exploitation. It misdirects.

Let us also consider Kwame Ture’s (Stokely Carmichael) reminder that we should not mistake individual success for collective success. The majority of Kenyans – Luos, Kikuyus, Luhyas etc – are poor. The 60 per cent of Kenyans living under two dollars a day cut across all ethnicities. The Kikuyu élite live at the expense of the Kikuyu poor; it is the same for other ethnicities. There is much more in common between the poor across ethnicities, than between the élite and the poor of each ethnicity. Racism, nationalism, and ethnocracy all ask that the poor die in the defense of economic and social structures that keep them poor. It is no surprise that those who have been both dying and doing the killing in Kenya in the past week are the poor. Yet they are killing along ethnic, not class, lines.

And in the same way that over time Western political parties come to represent different and contradictory positions, so have African political parties. In the dictatorships of the 1960s, 70s and 80s, the opposition parties were the good guys. Progressive international political analysts are still working with that framework, which has blinded us to glaring present-day contradictions. The assumption that opposition immediately means people-power cannot be sustained by an analysis informed by the complex shifts in African politics in the last two decades. Take Zimbabwe, for example. The opposition Movement for Democratic Change is a neoliberal party. Calling it revolutionary or anti-imperialist would be wrong. In Kenya, both the sitting Government and the opposition exchange members fluidly as they position and reposition themselves, eyes on the national cake. William Ruto, a top leader in the ODM was previously a treasurer for the KANU Youth Wing – a political thug organization created by former dictator Moi, who is now in Kibaki’s camp. And the recent church killings that claimed over 50 lives took place in Eldoret, which William Ruto has represented in parliament for many years.

People power

Therefore not all opposition parties are anti-imperialist or opposed to the move by global capital to consolidate the world. At a time when the rich nations and their élite are getting richer, and the poorer nations and the poor within them are getting poorer, some opposition parties will choose the side of global capital. ODM is composed of some of the wealthiest people in the country. For example, the Odinga family owns Spectre International, a molasses company in conjunction with a multinational petroleum and diamond mining company. The international press, which refers to Raila as a ‘flamboyant millionaire’, is not entirely wrong.

With the above said, analysis of what it means to be a people powered movement is crucial. For people-power politics to be effective, solidarity has to be across ethnicity not along it. In other words, a people power movement has to, at its basis, be informed by the consciousness of a collective oppressed. Because it has no real grassroots developed over years of working with and for the people, ODM can only rile up discontentment by pointing to one ethnicity rather than organizing the whole country against élite exploitation. Like any populist movement it takes the worst fears of a people (fear of Kikuyu domination for example) and plays them out in the national stage. A people power movement on the other hand peels away these fears to reveal how power and wealth are being distributed. Because ODM has not done this, its supporters have identified the fellow poor Kikuyu as the enemy. A people power movement would have directed its energies and anger at the state not at another ethnicity.

A people power movement declares its solidarity with other marginalized peoples across the world. It is Third-Worldist in vision. A people power movement, because its vision grows organically from its struggle and engagement with the people, exhibits a stand against exploitative international economic arrangements because its constituents are impoverished through them. ODM cannot be termed as radical pan-Africanist or Third-Worldist, rather it has a populist consciousness.

Also, the shell – the façade – of a people power movement can be used by a national élite to seize power for international capital. Rather than use the term populist/people power to refer to ODM, it is appropriate to borrow a term from the International Republican Institute. The term the IRI uses is ‘consolidating democracy’, referring to a technique it used in the Ukrainian Orange Revolution and in Haiti against Aristide. Consolidating democracy translates into bringing together civil organizations (religious, universities, local NGO’s, women’s organizations, etc.), and uniting various opposition factions into one large electoral force. If missionaries paved the way for colonialism, evangelists of Western democracy like IRI pave the way for US foreign policy.

The sole purpose of consolidating democracy is to remove the sitting government. There is no coherent underlying people-centered ideology in this goal – no interest in empowering the people, or returning economic and political institutions to them. Rather than develop real roots with the people so that when in power the ODM becomes an extension of them, the ODM has taken the easy route of consolidating democracy following the IRI model.

We urgently need to distinguish between people power movements (such as those we have seen in Latin America), populist movements, and neoliberal opposition movements that consolidate democratic institutions for global capitalism. People power movements are a fifth force usually in opposition to the legislature, executive, judiciary and military. When they seize power through democratic means, they immediately attempt to transform the other four forces into revolutionary instruments. Laws nationalizing resources or redistributing land and resources are passed. The army is transformed from an instrument of intimidation into one that helps in times of disasters – in short a people power government places the people at the center of the state. When a movement that has been consolidating democracy gets into power it does the opposite, and the democratic structures become instruments of global capital and US foreign policy. Liberia, for example, after working with IRI is one of the few countries to open its national door to the US African Command Center.

We should at least consider that the ODM has in the last few weeks not been engaged in the last phase of a people power revolution but rather in the last stage of consolidating neoliberal democracy – using the people as the battling ram against the state. This is where the neoliberal party calls for millions to take to the streets with the hope of immobilizing the state. Because consolidating democracy requires the ebb and flow of violence from the state and protest from the people, Raila could cynically tell a BBC reporter when asked whether he will appeal for calm that ‘I refuse to be asked to give the Kenyan people an anesthetic so that they can be raped.’

Wounds need healing

In case you are wondering, let me say this: for progressives, Kibaki is not the answer. Before the elections, the Kenyan Human Rights Commission released a report implicating the Kenya police in extra-judicial killings of close to 500 young men, all from poverty stricken areas such as Kibera and Mathare, slums currently up in flames. This is a stark reminder that the 6 per cent economic growth was not trickling down to the people. Also that vote-rigging took place (on both sides as it turns out) is almost certain. Enough doubt has been cast by the electoral commissioners to make a recount of the votes, a re-election, a united government or another suitable solution a matter of democratic principle.

If the country is to heal, reconcile and find justice, progressive voices should call for a UN probe into the December – January post-election ethnic cleansing in Eldoret and other areas. There should be calls and support for a United Nations probe into the 1994 Rift Valley killings in which a reported hundreds of Kikuyus were killed and thousands displaced during Moi’s regime, and The Wagalla Massacre of 1984 (again during Moi’s regime) in which hundreds of Somali Kenyans were shot to death. Finally the non-electoral extra judicial killings of the 500 young men last year should also be investigated.

Progressives should also call for the crisis to be resolved within democratic structures. When Bush won an election that the rest of the world understood as rigged, we did not ask Al Gore to try and overthrow the government through an Orange revolution, we did not ask him to divide the country across racial lines, blacks pitted against whites, whites pitted against Latinos; we asked him to find redress through peaceful and democratic processes. And for that, the United States remains standing, in spite of Bush. Al Gore did not ask for a recount of all the votes, or for a re-election. But both Raila and Kibaki can form a united government; ask for a recount, and even a re-election. Whatever process or option is used to adjudicate this must be one that leaves Kenya standing for generations to come.

My plea to you is this: Let us not find revolutionaries where there are none. International solidarity should be with the Kenyan people and not with individual leaders. A whole nation is at stake. The best thing for Kenya right now is a return to a non-violent path governed by principled democratic structures that will outlive both Raila and Kibaki. It is this that will make possible a people-powered government through a democratic revolution.

Mukoma Wa Ngugi is co-editor of Pambazuka News, author of Hurling Words at Consciousness and a political columnist for the BBC Focus on Africa Magazine.

Normalita’. O quasi.

I negoziati fra Governo e opposizione continuano. Sono ancora su posizioni molto distanti. Si teme che se non dovessero fare qualche passo avanti entro pochi giorni, una settimana, potrebbe scatenarsi un’ altra manovrata ondata di violenza.

La vita a Nairobi sembra assolutamente normale. Gli sfollati bisogna andarli a cercare, altrimenti sono invisibili, confinati in località precise dove ricevono aiuti. Koinonia e Africa Peace Point continuano a fare donazioni in generi alimentari e coperte, con il coordinamento della Croce Rossa.

Un amico mi ha fatto notare una cosa che non e’ normale nel traffico cittadino, soprattutto il primo mattino: c’e’ un numero molto più alto del solito di mkokoti – i carretti spinti a mano, che sono un’ attività dei ragazzi di strada – e di camioncini di tutte le dimensioni carichi di mobili. Il fatto e’ che molte famiglie si stanno trasferendo, non ritenendosi più al sicuro nella zona in cui vivono. I luo, che sono un minoranza a Riruta, quando rientrano a sera si trovano un bigliettino sotto la porta della baracca o della casa che dice “vai via di qui, non ti vogliamo più’. Lo stesso capita ai kikuyu di Kibera, o ai Kalenjin di Kawangware. Sembra, speriamo che non sia vero e che ci si fermi  in tempo, che Nairobi rischi di diventare un conglomerato di piccoli “bantustan”, la famigerata invenzione dell’ apartheid sudafricano. Un’ apartheid, una bantustanizzazione non imposta dall’ alto, ma volontaria, per modo di dire. Alcuni si rifiutano. Ieri i ragazzi di Kivuli delle pallacanestro si sono fermati per un breve incontro dopo l’ allenamento e, dopo aver riaffermato che nella loro squadra non devono esistere discriminazioni etniche, i  luo presenti hanno appunto raccontato di aver trovato gli infami bigliettini sotto la porta, ma di aver deciso con le loro famiglie di restare. “Siamo sempre vissuti senza dare una priorità’ particolare alla nostra appartenenza etnica, perché’ dovremmo incominciare ora?” Ci dovrebbero essere più’ keniani cosi.

Invece Charles, un ragazzo luo che fa il giardiniere alla Shalom House, e’ venuto mercoledi mattina, gli occhi gonfi da una notte insonne, a dirmi a dirmi che lo avevano chiamato dal villaggio al sera prima. Charles ha 21 anni ed e’ il capofamiglia, i genitori sono morti di AIDS, e col suo lavoro mantiene a scuola una sorella e un fratello minori che vivono al villaggio con dei lontani parenti. Dal villaggio gli hanno detto che la sorella e’ gravissima all’ ospedale perché’ un matatu su cui viaggiava e’ stato fermato ad un blocco stradale, tutti i passeggeri sono stati picchiati e poi derubati. Naturalmente Charles temeva che la sorella fosse stata stuprata, perché quest’azione sembra essere diventata comune. La settimana scorsa il Nairobi Women’s Hospital ha dichiarato di aver trattato 242 pazienti vittime di abusi sessuali, 213 femmine e 29 maschi. Deltotale 94 erano minori. Ho dato a Charles il permesso di assentarsi per 4 giorni perche andare a casa sua, una delle zone critiche durante l’ ultimo mese, ci vuole un giorno intero di viaggio.

Charles mi ha telefonato ieri, sollevato perché’ la sorella sta meglio, non e’ stata stuprata  e ancor più’ sollevato perché’ l’ attacco non era di natura etnica ma opera di semplici criminali che approfittano della confusione per operare impunemente.

La Strada verso la Pace

Stamattina il Nation esce con il titolo Road map to peace. Finalmente. I due team di negoziatori hanno accettato l’ agenda proposta da Kofi Annan. Il punto piu’ urgente e’ porre termine alle violenze entro sette o al massimo quindici giorni. Poi Kofi Annan, molto intelligentemente, approfitta del consenso per affermare che per risolvere i problemi a lungo termine ci vorra’ meno di un anno. Il che aiuta a calmare gli animi e a non esigere soluzioni miracolistiche immediate.

Per arrivare alla cessazione delle violenze entro quindici giorni il comunicato congiunto afferma che la legge deve essere rispettata da tutti; i lavoratori, si del settore statale che privato possano tornare ai loro posti di lavoro; le scuole vengano riaperte, tutti gli sfollati siano protetti ed assistiti a ritornare alle loro case e campi; i messaggi di odio tribale che sono stati diffusi attraverso i cellulari e le radio cessino immediatamente. E che chi ha commesso atti contro la legge – come vandalizzare, saccheggiare, bruciare case e uccidere – sia perseguito e processato.

Non sara’ facile, ma, come ho sempre sottolineato nelle interviste che ho fatto in questi giorni, e’ possibile. Perche’ la maggioranza dei manifestanti di questi giorni ( spesso poche centinaia di persone hanno tenuto in ostaggio una cittadina), cosi come la polizia, ha agito dietro ordini superiori. C’e’ solo da sperare che l’ odio seminato non abbia ancora messo radici tanto profonde da non poter essere estirpato.

Oltre al rispetto della legge il comunicato sottolinea che ogni keniano ha il diritto di risiedere in ogni parte del Paese, e questo sara’ un punto critico da far rispettare. L’altro giorno ho parlato per telefono con un avvocato kikuyu che si era rifugiato con la famiglia nella prigione di Naivasha e mi chiedeva se potevo aiutarlo ad arrivare a Nairobi. La sua casa e i sui campi a Eldoret sono stati bruciati da gruppi di giovani – purtroppo i giovani disperati e manipolati sono stati al centro di questa crisi – al grido di “Fuori tutti i kikuyu dalla Rift Valley”.

E’ interessante anche che nel comunicato ci sia per la prima volta un’ ammissione implicita importante: che telefonini e radio private sono state usate per le campagne di odio contro i rivali, e che quindi c’e’ stata una campagna di violenza orchestrata, non che la frustrazione e la rabbia della gente sia spontaneamente esplosa.

E’ un primo passo. Le due prossime settimane ci diranno se i leaders hanno intenzione di mantenere la parola data. Spero di si, se non altro per i danni enormi che il Kenya ha subito. Innanzitutto il danno morale e il danno all’unita’ del paese – tre giorni fa ho sentito in una radio un leader farneticare sull’ indipendenza del Western Kenya – ma anche per il danno economico. Nello stesso giornale di oggi si dice che centinaia di migliaia di lavoratori hanno perso il posto, una sola compagnia di trasporto ha licenziato 600 autisti. Sulla costa, dei 150 grandi alberghi 20 sono gia’ chiusi, 25,000 lavoratori hanno perso il posto, e molti altri lo perderanno. La stima e’ che in totale mezzo milione di lavoratori hanno perso o sono a rischio di perdere il posto nelle prossime settimane.

Una responsabilita’ grande sara’ quella di capire meglio come mai tanta disponibilita’ alla violenza fra i giovani. La poverta’ e il tribalismo non mi paiono sufficienti a spiegarla. Ci sono, credo, cause piu’ profonde. Bisogna cercarle e porvi rimedio. Non e’ possibile lasciare che questi giovani si rovinino e conducano il paese alla rovina. E qui la chiesa, che ha capacita’ di formazione umana a lungo termine, ha una responsabilita’ particolare.

Noi come Koinonia e Africa Peace Point facciamo piccoli interventi nei due o tre campi di sfollati che ci sono a Nairobi, uno e’ a Jamhuri, vicino alla Shalom House. Con l’ aiuto di amici italiani e anche di altri paesi (per esempio un piccola associazione di bambini della Slovacchia ci ha donato cinquemila novecento euro), e con una raccolta locale da una decina di giorni riusciamo a distribuire ogni giorno circa tre o quattrocento cento chili di vestiti e generi alimentari ed altre cose di prima necessita’, dalle pentole per cucinare alle coperte. Michael segue questa cosa, credo che stia per pubblicare un rendiconto nel sito di APP (www.africapeacepoint.org).

Vittime e Santi

Il 30 aprile 1997, un centinaio di guerriglieri hutu fece irruzione alle 5 del mattino nel seminario minore di Buta, in Burundi, vicino al confine con la Tanzania. Quarataquattro seminaristi furono uccici e venticinque gravemente feriti perche’ si rifiutarono di dividersi fra hutu e tutsi, come pretendevano i guerriglieri che avrebbero voluto uccidere solo i tutsi. Morirono abbracciati come fratelli, consapevoli di essere uccisi per questo loro rifiuto. Alcuni di loro, feriti gravemente, cominciarono a recitare il rosario e a pregare per chi li finiva ad uno ad uno sgozzandoli. Ora il vescovo locale ha eratto una cappella sul luogo dell’ eccidio ai “martiri della fraternita’”.

Questi ragazzi hanno dato un esempio straordinario: perche’ aspettare anni e anni di processi canonici? Perche’ non proclamarli tutti santi subito, come martiri della fraternita’? Abbiamo tutti bisogno del loro esempio, non solo in Burundi e Rwanda, ma nel mondo intero, dove regionalismi e etnicismi stupidi creano odi e divisioni. Anche se forse alcuni seminaristi fino al giorno prima non avevano condotto una vita interamente santa, erano comunque persone da presentare a tutta l’ Africa dicendo: “Il Vangelo ci propone la fraternita’ e non possiamo chiamarci cristiani se non ci riconosciamo fratelli e sorelle. Questi ragazzi, con tutti i difetti che volendo si sarebbero potuti trovare in loro, lo avevano capito e sono stati disposti a testimoniarlo con la loro vita, quindi li proclamiamo santi, modelli di vita per tutit i cristiani”.

Non e’ bello citarsi, ma scrivevo i due paragrafi che ho riprodotto qui sopra nel 2002, con il coautore Stefano Girola ne La Perla Nera. Resto convinto che nella chiesa primitiva quei ragazzi sarebbero stati acclamati santi immediatamente, e sarebbere cosi diventati dei modelli. Non proclamiamo i santi solo per proporre dei modelli di vita, ma certamente i santi diventano tali anche perche’ rispondono in un modo luminosamente cristiano ai problemi del loro tempo, e i martiri della fratenita’ di Buta ce ne hanno dato un esempio eminente. Se fossero meglio conosciuti potrebbero indicare alla gente cristiana dell’ Africa come superare gli aspetti limitanti dell’identita’ culturale e tribale.

Questa straordinaria storia, una delle tante storie di eroismo cristiano che sono avvenute durante e dopo il genocidio del Rwanda, mi e’ tornata in mente l’ altro ieri, domenica, mentre cercavo di balbettare qualcosa ai ragazzi di Tone la Maji (La Goccia d’ Acqua, una delle case gestite da Koinonia e sostenuta da La Goccia di Senago) sulla grandezza, il mistero e la santita’ della vita umana, nel contesto dei fatti teribili che stanno avvenendo in Kenya in questi giorni. I particolare ricordavo loro la brutale uccisione di padre Michael Kamau Ithondeka, 41 anni, avvenuta il giorno prima mentre viaggiava in auto verso Nairobi. E’ stato fermato ad un posto di blocco di sostenitori dell’ opposizione, tutti Luo, e gli e’ stato chiesto di presentare la carta d’ identita’. Quando lo hanno identitficato come Kikuyu – Michal Kamau e’ Kikuyu come Ambrogio Brambilla e’ milanese – e’ stato ucciso a colpi di panga e di pietre.

A Tone la Maji tutti i ragazzini, dai 9ai 17 anni, provengono da Kibera. Nel marzo del 2005 sono stati scelti ad entrare nella nuova casa perche’ fra quelli piu’ disperamente bisognosi. Non ho mai esaminato i loro record dal punto di vista tribale, ma son certo che provengono da almeno una dozzina di diversi popoli del Kenya. Mentre parlavo, mi son ricordato dei martiri della fraternita’, ed ho raccontato la loro storia – arricchendola di particolari forse un po’ immaginati, ma certamente credibili, basandomi sulla mia esperienza d’ Africa. I ragazzi sono stati ad ascoltarmi rapiti. So di non essere un gran narratore, la loro attenzione era dovuta al fascino profondo delle storie di padre Kamau e dei martiri della fraternita’ di Buta in relazione alla loro esperienza umana a Kibera.

*

Stavo per impostare questo testo quando ho sentito per radio che nelle prime ore di questo mattina e’ stato ucciso Melitus Were. Melitus era appena stato eletto deputato per l’ opposizione in un collegio elettorale di Nairobi. Sembra, dai prima rapporti, che stesse rientrando in casa in auto, non si sa da dove, ed e’ stato ucciso mentre aspettava aprissero il cancello. Non si capisce ancora se e’ stata un’ esecuzione o una rapina.

Melitus era stato tirato su da un comboniano, padre Adelmo Spagnolo, che adesso e’ in Ethiopia. Quando io sono arrivato in Kenya, quasi esattamente venti anni fa, Adelmo mi chiese di farlo lavorare un po’ nell’ uffico della nuova rivista che stavo lanciando. Forse allora Melitus non aveva ancora vent’anni, e per quasi un anno gli feci fare i primi passi nello scrivere e nell’ uso del computer. Poi i comboniani gli avevano offerto una borsa di studio in Italia dove nel corso degli anni sviluppo’ molti legami. Una decina di anni fa aveva cominciato ad impegnarsi in politica. Era venuto a trovarmi e mi aveva detto “Vedrai che un giorno saro’ deputato al Parlamento”. Ha fatto qualche anno come consigliere comunale a Nairobi, e lo scorso 29 dicembre, appena conosciuti i risultati elettorali e appena prima che si scatenassero le violenze, e’ venuto a trovarmi solo per dirmi “Hai visto che ce l’ ho fatta!”.

Non Vogliamo un Kenya Diviso

Scontri a Nakuru. Coprifuoco. Conferma che giovani disoccupati disperati sono stati e sono pagati per incendiare e uccidere. Voci, molto credibili, che mi dicono che intorno ad Eldoret cominciano ad arrivare armi e che gli anziani della comunita’ Luo, che pure sono immigrati in questa zona, hanno fatto prestare giuramento ai loro giovani di combattere fino a che tutti i Kikuyu non saranno stati cacciati. Il tribalismo seminato n questi due anni da politici irresponsabili incomincia a dare i suoi amarissimi frutti. 

Voci, anche queste da fonti credibili, dicono che l’ opposizione si sta dividendo, con Raila Odinga piu’ disposto a trattare e un’ ala irriducibile che vuole arrivare a tutti i costi alla presidenza, cosi da poter poi nascondere i misfatti perpetrati. Per questo gruppo, in cui ci sono molti che hanno fatto carriera ai tempi di Moi, non ci possono essere mezze misure.

 Tutto questo mentre a Nairobi la vita e’ tornata quasi normale. I segni degli scontri bisogna andarli a cercare. A Kibera le fila di baracche bruciate sono ancora visibili, come pure la chiesa protestante bruciata e con un buon quarto di tetto crollato, un container in mezzo alla strada principale per cui puo’ passare a stento un’ auto alla volta, l’ albero abbattuto che sta ancora bruciando, le file di gente che gia’ prima dell’ alba e’ al Jamhuri Park sperando di ricevere un po’ di farina e di fagioli.  Ma chi va a Kibera?

 Tutto il West del Kenya, da Nakuru fino a Eldoret e Kisumu, rischia di entrare in uno stato di permanente agitazione e insicurezza, staccato del resto del paese. La necessita’ quindi di risolvere questa crisi in modo credibile diventa sempre piu’ urgente, prima che la violenza si incancrenisca, come abbiamo visto avvenire in Uganda.

E’ importante che la pressione internazionale continui.

 A proposito di Nakuru. Lunedì scorso, mentre la tensione era ancora alta ma non era ancora esplosa la violenza di questi ultimi tre giorni, John Kanene, il responsabile di Kivuli, ha deciso di andarvi per prendere quattro dei nostri bambini che ci erano rimasti bloccati e avevano paura di viaggiare, e per portarci invece altri tre ragazzi piu’ grandi che frequentano la scuola superiore a Nakuru, in una specie di collegio. Come fare per evitare problemi in un viaggio di circa 200 km di sola andata? John ha avuto un’ idea brillante e ha fatto mettere, sporgenti dai finestrini ma alte sopra il tetto, da un lato la bandiera della pace, con scritto PEACE in grande evidenza, dall’ altro la bandiera di Amani, che pure vuol dire pace in kiswahili, e sul retro la bandiera di Koinonia. Cosi addobbati sono andati e tornati senza incidenti. Ai posti di blocco della polizia come ai posti di blocco di manifestanti nessuno ha fatto domande, venivano immediatamente lasciati passare. E la sera un John raggiante poteva annunciare a tutti i ragazzi di Kivuli “Missione Pace compiuta!”

 Stamattina, a Kibera, nella nostra Ndugu Mdogo,  i piccoli fratellini e sorelline – Ndugu Mdogo vuol dire “piccolo fratello” – che sono arrivati l’altra sera erano serenamente impegnati a disegnare. Con me e’ venuto Raphael, n quattordicenne che avevamo accolto a Kivuli qualche giorno prima di Natale. Era preoccupato perche’ non aveva saputo piu’ niente della nonna, che, malaticcia, era rimasta da sola a Kibera. L’ abbiamo trovata un una baracca dove c’e’ appena posto per un materasso perche’ il tetto e’ per meta’ crollato – stranamente il ‘padrone di casa’ non si fa vedere da due anni e lei e’ contentissima perche’ non paga l’ affitto. Ma e’ anziana e malata, e in questi giorni ha mangiato solo saltuariamente. Prima aveva l’ aiuto di Raphael, che alla sera riusciva sempre a portarle qualcosa con le ‘attività’ che svolgeva in strada. Raphael e’ stato felicissimo di trovarla viva, temeva fosse rimasta vittima negli scontri, i peggiori sono avvenuti proprio in quella strada, ma la nonnina ha detto sorridendo che lei avrebbe anche voluto protestare, ma che non aveva avuto la forza di alzarsi dal letto. Raphael le ha promesso che ogni sabato andra’ a trovarla e con il  nostro aiuto le portera’ qualcosa da mangiare.

Sfollati. Eta’ media sei Anni

Stamattina sono arrivato a Ndugu Mdogo, nel cuore di Kibera, per vedere i nove bambini che la polizia ha portato ieri sera tardi perche’ hanno perso il contatto con la famiglia duranze le violenze di questi giorni. Si stavano lavando e vestendo, poi, mentre Jack scaldava il latte, abbiamo tentato di capire le loro storie, ma con poco successo perche’ alcuni sono proprio piccoli e non riescono a spiegare cosa e’ successo. Inoltre erano distratti dal profuno del pane e latte zuccherato e caldo che Jack stave mettendo in tavola… Poi, dopo mangiato, si sono rilassati ed hanno incominciato a familiarizzarsi con noi e con la casa. Eunice, la piu grande, ha fatto fare il bagno alla sorellina e il fratellino, mentre Kevin e Eric hanno scoperto un vecchio monopattino ed hanno incominciato a giocare. Adagio adagio i sorrisi sono tornati.

E’ venuta in visita un’ assistente sociale mandata dalla polizia, e anche lei non ha saputo dirci niente di piu’ sulla loro provenienza.

Eccone alcuni qui sotto. E grazie a chi ci ha mandato gli aiuti che ci permettono di non dire mai di no a questi bambini.

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La Fine di un Mito

Finalmente i due protagonisti della crisi Kenyana hanno incominciato a parlarsi. Il presidente Mwai Kibaki e il leader dell’ opposizione Raila Odinga si sono incontrati ieri pomeriggio con la mediazione di Kofi Annan. Ieri sera li abbiamo visti in televisione, circondati dalle loro due corti, tutti giulivamente sorridenti e stupidamente dimentichi che per giorni hanno incitato la gente ad ammazzarsi. Inebriati dal potere. Le speranze di una soluzione veloce della crisi restano minime, ma e’ un passo avanti. E resta deprimente il fatto che il futuro della gente del Kenya dipenda da questi personaggi.

In questo contesto e’ importante notare la conversione della BBC (per pura coincidenza oggi celebriamo la festa della conversione di San Paolo, ma il parallelo fra la BBC e San Paolo finisce qui). Nelle settimane precedenti le elezioni e fino a ieri mattina la BBC ha dato le notizie sul Kenya favorendo in modo incredibile e non professionale una delle due parti. In alcune occasioni si e’ comportata come se fosse l’ ufficio stampa dell’ opposizione, con speciale attenzione ad esaltare la figura del leader Raila Odinga.

In particolare sono stati rilevantissimi i peccati di omessa informazione. Per esempio in oltre tre settimane di scontri ha sempre evitato di identificare i principali protagonisti degli eccidi piu’ sanguinosi come membri e sostenitori dell’ opposizione. Durante lo stesso periodo i famosi giornalisti investigativi della BBC non sono riusciti a trovare una singola testimonianza del fatto che centinaia di giovani disoccupati e disperati sono stati pagati due euro al giorno per partecipare alle “azioni di massa” che hanno bloccato Nairobi per giorni interi ed innescato la spirale della violenza. Eppure bastava andare a Kibera e chiedere a qualche osservatore indipendente. Ancora l’ altro ieri la BBC e’ riuscita a non dire, con incredibili acrobazie giornalistiche, sia nelle notizie internazionali che locali, che dopo l’ “incontro di preghiera” per i morti di Kibera, organizzato e presenziato da Raila a un paio di centinaia di metri dalla casa provincializia dei comboniani, sulla Ngong Road, le poche centinaia di persone presenti hanno assaltato e devastato l’ adicente centrale del telefono, con danni nell’ordine di centinaia di migliaia di euro (e lasciando Comboniani e Shalom House senza telefono e fax).

Oggi invece la BBC anche nel sito web ha il coraggio di citare un rapporto di Human Rights Watch – una ONG americana indipendente e specializzata in ricerche sugli abusi dei diritti umani, con una ineccepibile reputazione fatta di decenni di lavoro e di rapporti sul Sudan, Rwanda, Somalia ecc. – in cui si accusano “i leaders dell’ opposizione di aver aiutato ad organizare la violenza etnica che ha devastato la regione della Rift Valley, durante la quale centinaia di Kikuyu, membri della comunita’ etnica di Kibaki, sono stati individuati  ed uccisi con predeterminazione”. Il rapporto dice anche di avere evidenza che uomini politici dell’ opposizione e leaders locali hanno attivamente fomentato parte della violenza post-elettorale.

Ieri sera, pochi minuti dopo aver visto in televisione i nostri due eroi felici e sorridenti, ricevo una telefonata da Kibera. E’ Jack, e mi dice che il vicecapo della locale stazione di polizia ha portato alla nostra Ndugu Mdogo nove bambini che durante la violenza dei giorni scorsi hanno perso il contatto con la famiglia, e ci ha chiesto di tenerli “provvisoriamente”.  Adesso, mentre sto finendo di scrivere, si sta facendo giorno, e corro a Ndugo Ndogo per riceverli con con tutta l’ attenzione a cui hanno diritto.

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