Bernadetta e’ cieca. Trent’anni fa, quando era una giovani infermiera, non riusciva a liberasi dalla malaria che infesta la sua piccola citta’ sulla riva tanzaniana del lago Vittoria, Musoma, cosi prese dosi sempre crescenti di chinino, col risultato di danneggiare irreparabilmente i nervi ottici. Adesso ha i capelli grigi, e siede paziente con un sorriso sereno sul gradino della porta di quella che era la sua casa, una semplice stanza dai muri di mattoni cotti e un tetto di lamiera. Ma intorno a quello che era l’orto, adesso ci sono altre stanze e si e’ formato un cortile interno, con in un angolo una cappellina, nell’angolo opposto cucina, poco lontano docce e servizi. Tutto pulito, ma essenziale, africano, anzi, francescano. Unico segno di modernita’ e’, sul lato che fronteggia la strada sterrata che attraversa il quartiere, un mulino con un motore elettrico di pochi cavalli che riceve un costante flusso di clienti che vengono a macinare il frumento per la polenta quotidiana. Sulle altre porte si vedono persone con diverse disabilita’, alcune gravissime, e una manciata di bambini in eta’ scolare. In tutto poco piu’ di una ventina di persone.
L’anima di questa piccola comunita’ e’ padre Geofrey Biseko, prete diocesano tanzaniano che ha dedicato la sua vita a dare una famiglia a chi e’ stato rifiutato dalla sua famiglia.
“Nel gennaio del 1988 — racconta padre Biseko — ero un giovane prete. Il vescovo mi aveva chiesto di fare il suo segretario e il promotore vocazionale per la nostra diocesi. Le domeniche celebravo Messa la’ dove magari un missionario o un prete era assente per malattia o per vacanze oltremare. Un sabato ho incontrato un lebbroso che viveva di carita’, ed ho letto nei suoi occhi un appello disperato. Non ho potuto dormire. Mi sentivo chiamato a fare qualcosa, ma non sapevo bene che cosa. La mattina, a Messa, ho detto ai fedeli che dovevamo lasciarci sfidare dalle parole di Gesu’, che il Vangelo doveva entrare davvero nella nostra vita. Parlavo a loro, ma sopratutto a me. Al termine della Messa ho invitato chi si sentiva ispirato a far qualcosa per i piu’ poveri e abbandonati ad incontrarci il sabato successivo. Sono arrivati in dodici. E’ stato il primo di una serie di segni che lentamente mi hanno fatto capire che il servizio ai poveri abbandonati era la mia vocazione. Abbiamo incominciato ad andare a visitare i poveri che vivevano in strada, poi Bernadetta ha messo questo sua casa e terreno a nostra disposizione. Altri hanno cominciato a donarci vestiti smessi e a portarci un po’ di cibo. Nel 1994 il vescovo mi ha esentato da ogni altro incarico e da allora sono qui, con quattro uomini che mi aiutano. Abbiamo aggiunto altre stanzette man mano che ricevevamo qualche donazione, abbiamo imparato a vivere condividendo il poco che gli altri, sopratutto i cristiani del nostro quartiere, condividono con noi. Non ce’ nessuno qui nel nostro quartiere che e’ ricco, ma ci arriva il sufficiente per sopravvivere, piu’ qualche occasionale donazione dall’ estero, come quella che ci e’ servita per acquistare il mulino. Adesso abbiamo anche una casa piu’ grande, a venti kilometri da qui, con un centinaio di ospiti e una quindicina di donne che li servono. Anche la’ sono tutte stanzette o camerate senza acqua a luce, la cappella e la cucina sono in comune, e nel refettorio c’e perfino la luce, con un pannello solare. Ma stare insieme fa bene, a loro ma sopratutto a noi. Ci chiamiamo Watumishi wa Upendi, cioe’ Servi dell’Amore. Tutto qui”.
Padre Biseko fa questo breve riassunto dei suo venti’anni di servizio nel suo “ufficio” una stanza con due divani vecchi e coperti di polvere perche’ le fessure della porta, e quelle che ci sono fra i muri e il tetto di lamiera non riusciranno mai a fermarla. Poi fa il giro del cortile salutando tutti.
C’e’ chi e’ spaventosamente anchilosato, chi e’ sordomuto dalla nascita, chi ha perso la ragione per una disgrazia familiare ed ora guarda nel vuoto ripetendo sempre la stessa litania di parole incomprensibili. Sorprendentemente, non ci si sente sopraffatti della disperazione, ma si e’ presi dalla semplicità ‘ e spontaneità ‘ dei rapporti. Qui davvero, e’ una nuova famiglia.
Padre Biseko scambia qualche parola, una stretta di mano con tutti. Ha una sorriso felice che contagia tutti. Intanto racconta del suo dispiacere di vedere come la gente stia perdendo i valori tradizionali, e quando alcuni persone come queste diventano un peso troppo grosso li scaricano in strada o appena fuori dall’ ingresso della sua casa. “Finora, pero’, siamo riusciti a non rifiutare mai nessuno, anche se negli ultimi anni abbiamo due o tre persone nuove al mese”. Ha solo un rimpianto, quello di aver fallito coi bambini di strada. Ce ne sono pochi qui a Musoma, ma nonostante si sia impegnato piu’ volte ad aiutare alcuni di loro non sono mai resistiti nella casa per piu’ di qualche settimana. Ce ne sono oggi solo sei o sette, e si stanno divertendo a disegnare. Uno di loro sta facendo colorando quella che, nonostante l’imperizia dell’ artista, si riconosce subito come la scena di San Francesco che parla agli uccelli. Qui Francesco e’ di casa.
Si lascia il piccolo cortile con la bella sensazione di aver incontrato una cellula viva e genuina della chiesa africana. Una piccola chiesa che ama, che cammina con i poveri, che agisce dal basso senza fare rumore. Quante esperienze ci sono in Africa come quella di padre Biseko? Ne conosco poche, ma anche fosse solo questa e’ un segno luminoso che contrasta tante altre debolezze. Si parlera’ queste esperienze nel prossimo sinodo africano che si terra’ a Roma in ottobre e che ha come titolo «La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace»?
Speriamo di si’, perche’ giustizia e pace non si costruiscono con i grandi discorsi e documenti delle conferenze episcopali, con gli incontri internazionali, con le mediazioni di pace piu’ o meno riuscite — per lo meno non solo con quelli — ma piuttosto con l’ amore fattivo di tanti come padre Biseko.
NB. Ho domandato a Padre Biseko: “mi puoi dare la tua email? La vorrei mettere nel mio blog, magari qualcuno ti vorrebbe contattare, o mandarti un aiuto”. MI ha guardato sorpreso, ed ha risposto “Io sono un pollo locale! Sono nato a poche centinaia di metri da qui, ed ho vissuto qui tutta la mia vita. Non ho un computer, un indirizzo di posta elettronica, niente del genere. Mi servo dell’ indirizzo postale della Diocesi di Musoma, P. O. Box 93, Musoma, Tanzania”