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Life

Una nuova famiglia per gli indesiderati – A New Family for the Unwanted

Padre Biseko con una giovane malata mentale

Bernadetta e’ cieca. Trent’anni fa, quando era una giovani infermiera, non riusciva a liberasi dalla malaria che infesta la sua piccola citta’ sulla riva tanzaniana del lago Vittoria, Musoma, cosi prese dosi sempre crescenti di chinino, col risultato di danneggiare irreparabilmente i nervi ottici. Adesso ha i capelli grigi, e siede paziente con un sorriso sereno sul gradino della porta di quella che era la sua casa, una semplice stanza dai muri di mattoni cotti e un tetto di lamiera. Ma intorno a quello che era l’orto, adesso ci sono altre stanze e si e’ formato un cortile interno, con in un angolo una cappellina, nell’angolo opposto cucina, poco lontano docce e servizi. Tutto pulito, ma essenziale, africano, anzi, francescano. Unico segno di modernita’ e’, sul lato che fronteggia la strada sterrata che attraversa il quartiere, un mulino con un motore elettrico di pochi cavalli che riceve un costante flusso di clienti che vengono a macinare il frumento per la polenta quotidiana. Sulle altre porte si vedono persone con diverse disabilita’, alcune gravissime, e una manciata di bambini in eta’ scolare. In tutto poco piu’ di una ventina di persone.

L’anima di questa piccola comunita’ e’ padre Geofrey Biseko, prete diocesano tanzaniano che ha dedicato la sua vita a dare una famiglia a chi e’ stato rifiutato dalla sua famiglia.

“Nel gennaio del 1988 — racconta padre Biseko — ero un giovane prete. Il vescovo mi aveva chiesto di fare il suo segretario e il promotore vocazionale per la nostra diocesi. Le domeniche celebravo Messa la’ dove magari un missionario o un prete era assente per malattia o per vacanze oltremare. Un sabato ho incontrato un lebbroso che viveva di carita’, ed ho letto nei suoi occhi un appello disperato. Non ho potuto dormire. Mi sentivo chiamato a fare qualcosa, ma non sapevo bene che cosa. La mattina, a Messa, ho detto ai fedeli che dovevamo lasciarci sfidare dalle parole di Gesu’, che il Vangelo doveva entrare davvero nella nostra vita. Parlavo a loro, ma sopratutto a me. Al termine della Messa ho invitato chi si sentiva ispirato a far qualcosa per i piu’ poveri e abbandonati ad incontrarci il sabato successivo. Sono arrivati in dodici. E’ stato il primo di una serie di segni che lentamente mi hanno fatto capire che il servizio ai poveri abbandonati era la mia vocazione. Abbiamo incominciato ad andare a visitare i poveri che vivevano in strada, poi Bernadetta ha messo questo sua casa e terreno a nostra disposizione. Altri hanno cominciato a donarci vestiti smessi e a portarci un po’ di cibo. Nel 1994 il vescovo mi ha esentato da ogni altro incarico e da allora sono qui, con quattro uomini che mi aiutano. Abbiamo aggiunto altre stanzette man mano che ricevevamo qualche donazione, abbiamo imparato a vivere condividendo il poco che gli altri, sopratutto i cristiani del nostro quartiere, condividono con noi. Non ce’ nessuno qui nel nostro quartiere che e’ ricco, ma ci arriva il sufficiente per sopravvivere, piu’ qualche occasionale donazione dall’ estero, come quella che ci e’ servita per acquistare il mulino. Adesso abbiamo anche una casa piu’ grande, a venti kilometri da qui, con un centinaio di ospiti e una quindicina di donne che li servono. Anche la’ sono tutte stanzette o camerate senza acqua a luce, la cappella e la cucina sono in comune, e nel refettorio c’e perfino la luce, con un pannello solare. Ma stare insieme fa bene, a loro ma sopratutto a noi. Ci chiamiamo Watumishi wa Upendi, cioe’ Servi dell’Amore. Tutto qui”.

Padre Biseko fa questo breve riassunto dei suo venti’anni di servizio nel suo “ufficio” una stanza con due divani vecchi e coperti di polvere perche’ le fessure della porta, e quelle che ci sono fra i muri e il tetto di lamiera non riusciranno mai a fermarla. Poi fa il giro del cortile salutando tutti.

C’e’ chi e’ spaventosamente anchilosato, chi e’ sordomuto dalla nascita, chi ha perso la ragione per una disgrazia familiare ed ora guarda nel vuoto ripetendo sempre la stessa litania di parole incomprensibili. Sorprendentemente, non ci si sente sopraffatti della disperazione, ma si e’ presi dalla semplicità‘ e spontaneità‘ dei rapporti. Qui davvero, e’ una nuova famiglia.

Padre Biseko scambia qualche parola, una stretta di mano con tutti. Ha una sorriso felice che contagia tutti. Intanto racconta del suo dispiacere di vedere come la gente stia perdendo i valori tradizionali, e quando alcuni persone come queste diventano un peso troppo grosso li scaricano in strada o appena fuori dall’ ingresso della sua casa. “Finora, pero’, siamo riusciti a non rifiutare mai nessuno, anche se negli ultimi anni abbiamo due o tre persone nuove al mese”. Ha solo un rimpianto, quello di aver fallito coi bambini di strada. Ce ne sono pochi qui a Musoma, ma nonostante si sia impegnato piu’ volte ad aiutare alcuni di loro non sono mai resistiti nella casa per piu’ di qualche settimana. Ce ne sono oggi solo sei o sette, e si stanno divertendo a disegnare. Uno di loro sta facendo colorando quella che, nonostante l’imperizia dell’ artista, si riconosce subito come la scena di San Francesco che parla agli uccelli. Qui Francesco e’ di casa.

Si lascia il piccolo cortile con la bella sensazione di aver incontrato una cellula viva e genuina della chiesa africana. Una piccola chiesa che ama, che cammina con i poveri, che agisce dal basso senza fare rumore. Quante esperienze ci sono in Africa come quella di padre Biseko? Ne conosco poche, ma anche fosse solo questa e’ un segno luminoso che contrasta tante altre debolezze. Si parlera’ queste esperienze nel prossimo sinodo africano che si terra’ a Roma in ottobre e che ha come titolo «La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace»?

Speriamo di si’, perche’ giustizia e pace non si costruiscono con i grandi discorsi e documenti delle conferenze episcopali, con gli incontri internazionali, con le mediazioni di pace piu’ o meno riuscite — per lo meno non solo con quelli — ma piuttosto con l’ amore fattivo di tanti come padre Biseko.

NB. Ho domandato a Padre Biseko: “mi puoi dare la tua email? La vorrei mettere nel mio blog, magari qualcuno ti vorrebbe contattare, o mandarti un aiuto”. MI ha guardato sorpreso, ed ha risposto “Io sono un pollo locale! Sono nato a poche centinaia di metri da qui, ed ho vissuto qui tutta la mia vita. Non ho un computer, un indirizzo di posta elettronica, niente del genere. Mi servo dell’ indirizzo postale della Diocesi di Musoma, P. O. Box 93, Musoma, Tanzania”

Due piccoli ospiti

Due piccoli ospiti

Missione Zambia

A fine dicembre un gruppo di giovani clown dell’ associazione Vivere in Positivo hanno visitato il nostro Mthunzi, a Lusaka. Sono stato qualche giorno con loro. Sono ragazzi – in verita’ il gruppo venuto a Lusaka era composto in grande maggioranza da ragazze – che fanno volontariato come clown in ospedale per alleggerire le sofferenze dei pazienti, specialmente dei bambini. Quindi sono persone particolarmente sensibili e comunicative, e sono entrate subito in sintonia con i nostri ragazzi. Ho chiesto loro di mandare una breve presentazione della loro associazione, ma si fanno attendere, allora metto qui sotto per il momento la breve relazione di una di loro, molto immediata. Leggendola, mi veniva di riflettere: ma perche’ le domande che si fa adesso non le ha fatte quando era in Zambia? E’ una delle cose che io ho imparato a fare: con delicatezza, aspettando il momento piu’ opportuno, bisogna domandare perche’ poi dalle risposte si imcomiciano a capire tante cose e si avvia il dialogo a l’ apprezzamento reciproco. Ma forse Ciriola aveva troppe domande e non e’ riuscita ad esprimerle tutte mentre era a Lusaka.

27 dicembre 08 – 12 gennaio 09

Non amo scrivere ma stamattina mi è venuta voglia di mettere nero su bianco le sensazioni sullo Zambia.

Sono in treno, e accendo, come tutte le mattine ormai, il mio ipod con le canzoni che ci hanno dato i ragazzi del Mthunzi. Solo al pensiero già mi si riempiono gli occhi di lacrime per la malinconia. Penso di essere stata in trance per 2 settimane lì e forse un po’ lo sono ancora. Se non fosse per il tamburo (scelto accuratamente da Rickon e Richard), il grande batik appeso al muro sopra il mio letto ed il piccolo ippopotamo in pietra fatto da Bernard e Jonas……., penserei che è stato solo uno splendido, meraviglioso, incredibile sogno.

Non so se prima parlerò delle cose brutte e poi di quelle belle.

Arriviamo il 28 dicembre 2008 all’aeroporto di Lusaka. Fin qui è tutto molto normale, almeno se sei del sud oppure hai atterrato almeno una volta all’aeroporto di Reggio Calabria, perché dopo l’atterraggio prendi i tuoi bagagli a mano e a piedi ti dirigi verso l’uscita. Ad aspettarti tanti ragazzi che fanno i facchini per una mancia, e anche qui la sensazione di trovarmi nella Sicilia di un tempo. Ed ecco adesso il nostro fantastico pulmino (della famiglia Bredford, per chi se lo ricorda), con la meravigliosa scritta “MTHUNZI CENTER”, omologato per 9 ma non eravamo mai meno di 16. Lì, il mitico Joseph (uno degli educatori che cerca di mandare avanti il centro nel miglior modo possibile) ed il fantastico Malama (molto Big Jim), commercialista, autista, insomma un po’ un tutto fare del centro, sempre molto profumato e vestito alla moda (in passato faceva il DJ nei locali).

Quindi si parte tutti con i nostri bagagli verso il centro.

Il periodo scelto per partire credo sia il più bello poiché vedi un’Africa che non immagineresti nemmeno. E’ di un verde pazzesco, così vivo, acceso, meraviglioso. Non puoi capacitartene del fatto che poi diventerà tutto così arido e secco da far paura.

La prima parte del viaggio sembrava molto normale, sembrava di essere in una normalissima città. Palazzoni, centro commerciale etc. ma ad un tratto il pulmino fa una svolta e lì il paesaggio cambia improvvisamente, non più asfalto ma tanta terra rossa e sassi, buche, pozzanghere. La cosa, però, più terribile era quella di trovare tutti i giorni, dall’alba al tramonto, sul ciglio della strada, bambini e mamme che spaccavano delle grosse pietre per farne di piccolissime e poi metterle in un sacchetto e venderle al miglior offerente camionista (credo le usassero nell’edilizia). Accanto a loro una capanna fatta di soli 4 paletti rivestiti di sacchetti di plastica dove riposarsi per pochi minuti, quando sei troppo stanco ed il sole diventa troppo cocente.

Prima domanda: “Ma gli uomini dove sono?”

Arriviamo al centro e tutto sembra molto tranquillo. Scarichiamo i bagagli e iniziamo a preparare i nostri letti per vincere le zanzare, poi cena, qualche chiacchiera e a letto che domani si inizia presto.

Iniziano così le nostre giornate, scandite da visite nei villaggi, giochi con i bambini, visita alle scuole, distribuzione del materiale portato dall’Italia, visita alla clinica, all’ospedale di Lusaka e poi chiacchiere, canti, musica e balli con i ragazzi del Mthunzi.

A pranzo e a cena eravamo sempre una marea di gente e quindi si cucinava tantissimo (mitica Pallola) e mi sembrava strano, delle volte, buttare il cibo che avanzava, in Africa. Diciamo che forse dipendeva dal fatto che non c’era il frigo oppure dal fatto che quando arrivano gli Italiani è davvero una festa, però, comunque mi faceva un certo effetto fare un gesto del genere lì. Poi i nostri commensali si preparavano dei piatti stracolmi, che puntualmente non riuscivano a finire e quindi altro cibo buttato. Che strano!!!

Quando si andava in giro non si cercava mai di organizzare il tragitto in modo da ottimizzare i tempi e sprecare meno benzina ma si andava su e giù. Che strano!!!

Forse perché per loro quelle 2 settimane con i Muzungu (uomo bianco) erano una festa. Non so.

In Africa i tempi sono veramente molto lenti, direi quasi snervante come situazione però poi ti ci abitui ed effettivamente cominci a godertela di più.

I bambini dei villaggi erano splendidi, sempre allegri e molto disciplinati. Lì il più grande guarda il più piccolo, si ha cura l’uno dell’altro. Nessuno sembra apparentemente abbandonato a se stesso.

Cosa differente, invece, nei quartieri poveri della città, dove vige la legge del più forte. La ragazza più grande da uno spintone al bimbo piccolo per rubargli la caramella ed in precedenza aveva rubato almeno 4 braccialetti colorati alle altre bimbe. Mentre sei tranquillo in macchina con il finestrino aperto ecco che all’improvviso ti rubano gli occhiali dal viso. Insomma in città è meglio stare sempre con gli occhi bene aperti e magari sempre scortati. I ragazzi erano grandi in questo, erano sempre con noi, non ci mollavano mai, erano ormai diventati i nostri stupendi “Bodyguards.”

Cosa molto importante era anche quella di chiedere sempre ai ragazzi se nei posti dove ci trovavamo potevamo fare foto, perché poteva essere molto pericoloso se lo facevamo in posti dove non gradivano.

Adesso è appena passato un mese dal nostro ritorno e ancora, ogni tanto, mi sembra ieri e allo stesso tempo una vita fa. Come il tempo in Africa, certi giorni ti sembra di essere lì da sempre, altri invece, di essere appena arrivata. Le giornate ti sembrano lunghissime e ti sembra che in un giorno riesci a fare una marea di cose. Poi senti così forte il calore del posto, il calore della gente, di tutti quei bambini, i loro sorrisi, le loro mani e i loro occhi che ti cercano. E’ meraviglioso!!!!

Non può finire qui. Sento che l’Africa mi chiama e mi desidera, come io desidero Lei.

I bambini e i ragazzi del Mthunzi ci aspettano, non possiamo deluderli. Anche se lontani noi tutti con loro staremo insieme in ogni dove. La canzone dice: “SOMEWHERE OVER THE RAINBOW……” come i 2 arcobaleni dai colori super intensi che ci hanno accolto e accompagnato al nostro arrivo dall’aeroporto di Lusaka e a Mthunzi.

Cosa ti rimane dentro dell’Africa? Io penso che non sia tanto l’ingiustizia e la povertà che vedi attorno a te, anche se terribile, quanto le persone, i loro volti, i loro occhi vivi, i loro sorrisi, la vitalità dei bambini (in realtà già grandi), dei ragazzi (in realtà già adulti). La loro sincerità, semplicità e soprattutto la loro DIGNITA’.

Dov’è finito in noi tutto questo?

LIBERTA’? Nonostante i diversi disagi che vivono il loro mondo ed il nostro, chi si può considerare un uomo veramente libero, NOI o LORO?

Ciriola

Non servirci dei poveri

Don Milani, lo cito a memoria, diceva che dobbiamo a servire i poveri, ma stare bene attenti a non servirci di loro. Ho letto che Clodovis Boff, fratello del più conosciuto Leonardo, sta preparando un testo intitolato “Con Cristo e con i poveri, contro coloro che strumentalizzano la povertà”. Con la sua seria riflessione teologica, che spero di leggere presto, potrà magari aiutarci ad approfondire questo tema affascinante, e di continua attualità nella chiesa, e non solo.
Me lo ha ricordato un confratello, che mi ha scritto una lettera dura, perché pensava che fossi io il responsabile di una iniziativa che coinvolge alcune persone degli slums di Nairobi e che lui giudica come sfruttamento della povertà. Io non ho niente a che fare con quell’ iniziativa, ma sarei più cauto prima di dare giudizi assolutamente negativi e moralmente inappellabili.
Accettare le ingiustizie che creano la povertà, sfruttare i poveri, servirsi dei poveri per la propria gloria sono aspetti diversi di uno stesso male. E purtroppo la tentazione di servirsi dei poveri per i propri interessi e sempre presente, anche fra coloro che professano di servirli. Lo vediamo con evidenza nelle gigantesche macchine internazionali per combattere la fame e la povertà, in certe ONG, ma anche nella chiesa.
Tutti conosciamo certi campioni dei poveri… e magari abbiamo dei sospetti. Ma non abbiamo nessun diritto di giudicare le motivazioni degli altri. Io per esempio ricordo con affetto un personaggio che era molto famoso quando ero ragazzo, Raoul Follereaux, conosciuto in tutto il mondo per la sua campagna a favore dei malati di lebbra. Mi mi dava un po fastidio quel suo presentarsi sempre con il bastone e il cravattino a farfalla, e altri suoi atteggiamenti quasi da palcoscenico. Poi ho avuto l’ occasione di incontrarlo perché a tradurre i suoi libri in italiano era padre Gianni Corti, il comboniano di Lecco che mi aveva fatto conoscere i comboniani, e i suoi libri erano pubblicati in Italia dalla nostra casa editrice. Imparai ad apprezzarlo ma non mi aveva ancora convinto del tutto. L’ ultima volta che lo incontrai, un paio d’anni prima che morisse, forse indovinando il mio pensiero, mi disse confidenzialmente, alla presenza della sua dolcissima inseparabile moglie “vedi, ormai devo fare il personaggio, la bandiera. Non posso fare più altro per i lebbrosi. Mi fa male, ma se essere usato cosi serve alla loro cause, cosi sia”. Raramente ho sentito qualcuno parlare con più sincerità e umiltà. E capii tutta la grandezza di quell’ uomo che si era logorato nel servizio a cui si era sentito chiamato.
Certo dobbiamo sempre confrontare le nostre azioni col Vangelo, col buon senso, e, parlando di sociale, con gli strumenti di analisi che le scienze ci offrono. Ma chi si mette in una posizione ideologica da “puro” rischia di diventare cieco tanto quanto coloro che sono accecati dall’ egoismo, e di fare più errori degli altri.
Meglio non giudicare le intenzioni, e attendere di vedere i frutti – che possono essere solo persone e non cose – perché le motivazioni degli altri, specialmente quando si tratta di motivazioni che segnano una vita in modo profondo, sono sempre un mistero e, anche nel migliore dei casi, un insieme di slanci ideali ma senza mai escludere che possano essere presenti piccolezze, perfino di meschinità. E’ nella nostra natura umana. Ancora più pericolosamente, il nostro giudizio sugli altri rivela il nostro più intimo modo di pensare. Cosi chi ha accusato Madre Teresa di Calcutta di essersi servita dei poveri per costruire la sua immagine di santa, ha fatto certo più danno alla sua reputazione che a quella di Madre Teresa.
Nella nostre decisioni c’e’ sempre una dimensione di egoismo, e il tenerlo sotto controllo e’ un problema che si ripresenta sempre.
A volte, quando mi devo alzare al mattino molto presto per finire un lavoro, per scrivere un articolo, e magari il giorno precedente ho avuto gravi delusioni e problemi, devo fare uno sforzo cosciente e pensare ai bambini/e e ragazzi/e insieme ai quali sono impegnato a migliorare la loro vita e la mia per poter incominciare il giorno con entusiasmo. E allora magari mi sento con la coscienza a posto, mi convinco che sto facendo un servizio. Altre volte, quando va tutto bene, quando sono in giro coi bambini che riscuotono simpatia e affetto e arrivano aiuti per fare un progetto, costruire un’ altra casa, devo continuamente per non pensare che in qualche modo tutto questo sia il risultato del mio lavoro, invece che un lavoro collettivo. E’ sempre difficile giudicare la motivazioni, anche le proprie: misurare la percentuale di dedizione, di servizio e quella di amor proprio e gratificazione.
E se analizziamo troppo, giudichiamo troppo, finiamo per paralizzarci, per non fare più niente. Il che potrebbe anche essere una bella scappatoia, ma non ci fa fare molta strada, ne a noi ne agli amici che ci sono vicini con i quali condividiamo il nostro faticoso quotidiano cammino.

Ancora sui Bambini di Strada

Alessandra Raichi ha speso un po del suo tempo con noi durante luglio e agosto scorsi, ed ha fatto foto di bambini di strada con espressioni straordinariamente intense, come quella qui sotto. Alcune accompagnano un articolo che si trova qui:

http://blog.panorama.it/mondo/2009/02/17/nairobi-vita-da-street-children/

panorama-1

Notizie da Mthunzi, in Inglese

Qualcuno avrà notato che ho lasciato pubblicare nei commenti al blog qualche testo pesantemente adulatorio nei miei confronti, cosa che finora avevo evitato. Non e’ megalomania, e’ che i ragazzi di Mthunzi, a Lusaka, stanno scoprendo internet, ed hanno trovato il mio blog, e anche se non capiscono i testi che sono quasi tutti in italiano, mandano il loro commenti. E mi hanno fatto sapere che se non avessi pubblicato qualche loro messaggio non mi avrebbero mai perdonato… D’ora in poi pero’ li bloccherò’.

In questa cosa c’e’ un aspetto positivo, ed e’ che si sono impegnati e mettere settimanalmente qualche notizia nel loro sito, quindi gli amici che sono stati a Mthunzi e chiunque voglia tenersi aggiornato puo’ visitare il sito www.koinoniazambia.org e leggere le Mthunzi News.

Padre Giuseppe

Sono in Tanzania, con collegamenti,  anche telefonici, molto aleatorii. Pochi minuti dopo aver messo online il testo precedente ho ricevuto la notizia che ieri mattina a Nairobi, nell’ ufficio della’istituto di filosofia in cui ha lavorato per piu’ di due decenni, hanno ucciso padre Giuseppe Bertaina, missionario della Consolata, originario della provincia di Cuneo.Una violenza assurda e assolutamente non necessaria, oltre che stupida. Sembra che il responsabile del gruppo che ha tentato la rapina fosse un ex-seminarista.

Padre Bertaina era un gentiluomo, magro, dritto, affabile, sempre sorridente, che cercava di educare gli studenti – ha speso la piu’ parte della vita nelle scuole del Kenya – con l’esempio. Seguiva con simpatia gli ex-seminaristi. In diverse occasioni, su mia richiesta, mi ha dato documenti e raccomandazioni per loro, chiedendomi poi con trepidazione se erano riusciti a sistemarsi nella vita. Era felice quando, diversi anni fa, ho potuto raccontargli che uno studente di filosofia che era stato postulante dei comboniani, dopo esserenstato dimesso era poi entrato nel seminario della sua diocesi di origine in Sudan ed era diventato un bravissimo prete diocesano. Negli ultimi anni l’ ho visto raramente, e solo alla Shalom House, deve veniva per una pizza con i confratelli nelle rare occasioni in cui si concedeva qualcosa.

Sembra che sia morto soffocato dal bavaglio che i rapinatori gli hanno messo. Immagino il dolore di quest’uomo gentile di 82 anni quando ha visto un ex-allievo fra di loro. Immagino che lo abbia subito perdonato, ma che forse sia morto col cuore trafitto dal dolore che gli causato il riconoscere quel volto piu’ che per il soffocamento. Tantissimi suoi allievi piangono la sua morte, come quello che me l’ha annunciata per telefono. Che il suo esempio ci aiuti a superare tutte le violenze.

Un Ciclone di Simpatia

Mi arrivano ancora reazioni, tutte positive, al giro fatto in Italia dai bambini di Kivuli. Teresa Giorgi, di Chiavari, 
da poco laureata all’accademia di Belle Arti di Genova, li ha accompagnati da Caserta alla Malpensa, insieme a
 Roberta Cerboneschi, di Larderello, un’insegnante socia di Amani, che e’ venuta per la prima volta a trovarmi in
Zambia nel 1988. Teresa, che ha contribuito anche a far crescere la qualita’ dello spettacolo, ha poi chiesto 
ad alcuni amici di scrivere le loro impressioni, e le ha legate con le sue riflesisoni. Ecco il suo testo.

 

“Sono arrivati come un uragano, sono rimasti giusto il tempo di lasciare delle tracce di sé negli occhi e nei cuori del pubblico che li ha applauditi, e sono andati via. Caserta è stata la prima città che ha visto diciotto ragazzini sul palco, e non più sei come nelle tappe precedenti. I dodici ragazzi in arrivo da Roma, dove erano appena atterrati con il volo da Nairobi, e quelli giunti da Bari, si sono riabbracciati davanti al teatro dove un paio d’ore dopo si sarebbero esibiti, carichi di stanchezza ma anche di entusiasmo. E’ stata una tappa vissuta di corsa, preparata a lungo ma consumata in brevissimo tempo. Però, nonostante tutto, lo spettacolo ha avuto un gran successo, gli acrobati hanno stupito tutti con la loro bravura e la loro simpatia; dai più piccoli, che hanno intenerito gli spettatori con i loro sorrisi e le loro battute, ai più grandi, timidi e orgogliosi di loro stessi e dei loro fratelli minori.

Sono riusciti a farsi ammirare per la giusta ragione: non tanto per la perfezione delle loro acrobazie, quanto per il coraggio che mostrano ogni giorno della loro vita, per la fiducia che nutrono verso se stessi e verso i loro compagni, che è così lampante, quando si esibiscono”.

Le parole di Chiara Avezzano riassumono un po’ il pensiero dei tanti che hanno visto i Koinonia Children esibirsi in Italia.

Roberta ed io, che li abbiamo accompagnati da Caserta fino all’ ultimo minuto prima del loro rientro a Nairobi, siamo state nell’ occhio del ciclone di simpatia causato dai Koinonia Children per quindici giorni, e adesso speriamo che il loro ricordo rimanga impresso a lungo e faccia da stimolo per una voglia di conoscenza sempre più profonda di loro e dei loro problemi. Perchè, come scrive padre Kizito, iniziatore del progetto del centro di accoglienza di Kivuli, dal quale i bambini provengono, “l’esperienza occasionale rischia di restare soltanto un bel ricordo, il rapporto continuo invece cambia il modo di mettersi di fronte agli altri, la prospettiva e il senso del vivere”.

Il progetto nacque durante un viaggio a Nairobi di Paolo Comentale, direttore del teatro Casa di Pulcinella di Bari, recatosi in Kenya per tenere alcuni spettacoli di marionette. All’arrivo a Kivuli, i circa 60 ragazzi che vivono nel centro lo accolsero con entusiasmo: canti, balli e acrobazie, ma soprattutto sprigionando un’allegria tale da far nascere l’idea di portare in Italia alcuni di loro. E il progetto si è concretizzato lo scorso dicembre: iniziato proprio da Bari, dove al gruppo è stato assegnato il premio”Pulcinella d’Oro 2008”, il tour ha visto i ragazzi esibirsi in diverse città italiane. Caserta, Fabriano, Torino, Piacenza, Milano. Tappe frutto della rete di relazioni che gli stessi bambini hanno creato tra noi italiani che da anni ormai li seguiamo e li vediamo crescere nella loro casa a Nairobi. Le richieste per portare lo spettacolo nella propria città erano molte di più ma purtroppo per motivi di tempo non è stato possibile esaudirle tutte. In ogni tappa l’accoglienza è stata tanto calorosa da lasciare impressionati gli stessi ragazzi che delle relazioni umane sono i maestri. Gli italiani si sono mostrati ottimi discepoli in quell’arte, così sacra in Africa, di donare tempo agli altri, contribuendo a creare un clima estremamente disteso e gioioso.

E i bambini hanno fatto il resto. “Sono stati straordinari, e sono riusciti a stupirmi ancora una volta”, ha commentato Kizito.  “All’inizio erano solo in sei (NdA: per problemi con i visti gli altri si sono uniti soltanto a Caserta) e anche in sei sono stati capaci di tener vivi gli spettacoli con grande impegno e disponibilità“. Non è stato importante il numero dei ragazzi, né le spesso ridotte dimensioni del palco; ognuno di loro ha dato il massimo ogni volta come fosse il primo spettacolo. Merito non solo dell’impegno, ma della voglia di stare insieme, divertirsi e divertire. E i sentimenti puri inevitabilmente traspaiono nonostante i piccoli problemi logistici. Ci hanno raccontato che dopo lo spettacolo a Matera un bambini di dieci anni, ringraziandoli al microfono ha detto: “Avete fatto delle cose stupefacenti, ma la cosa più bella e’ che in ogni momento del vostro spettacolo si capisce che vi volete veramente bene come fratelli”.

Gli amici di Fabriano cosi raccontano il passaggio del ciclone Koinonia Children.

Per poter godere di ogni prezioso momento offerto da questa esperienza, i ragazzi del Kenya sono stati ospitati nelle famiglie dei ragazzi, giovanissimi e giovani di AC: di fronte ai sorrisi luminosi e agli occhi luccicanti sui volti scuri, la timidezza e le prime difficoltà di comunicazione sono state superate in fretta, e sin da subito mani bianche e nere si sono intrecciate in saluti, giochi e abbracci.

Giovedì 4 dicembre è stata la giornata dedicata agli spettacoli: i ragazzi si sono esibiti per ben due volte al Pala Guerrieri, in uno show di grande impatto: la mattina è stata la volta dello spettacolo per le scuole, invitate dall’Azione Cattolica nell’ambito di una proposta volta all’approfondimento e al confronto sulla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (di cui il 10 dicembre ricorre il 60° anniversario). Più di 1000 studenti, provenienti dalle scuole medie inferiori e superiori della città, sono quindi giunti al Pala Guerrieri, e l’emozione è stata grande da entrambe le parti: i giovani artisti si sono trovati di fronte ad un pubblico di coetanei davvero numeroso e caloroso, che sono riusciti a stupire e conquistare sin dai primi minuti; con grande abilità interpretativa, gli ex-bambini di strada hanno inizialmente messo in scena episodi di vita nelle baraccopoli per raccontare al pubblico di coetanei il background dal quale provengono, proseguendo poi con una avvincente serie di acrobazie  e giocolerie che ha lasciato gli spettatori a bocca aperta. Gli applausi si sono susseguiti ininterrottamente durante tutto lo spettacolo, ed hanno trasmesso agli acrobati tutta l’ammirazione e l’affetto del giovane pubblico che, alla fine dell’esibizione, è stato trascinato in canti e danze. Al termine dello spettacolo gli studenti, scesi dalle gradinate, hanno avuto l’opportunità di congratularsi di persona con i piccoli artisti che, come sempre, sono andati incontro a tutti coloro che li acclamavano, presentandosi con i loro grandi sorrisi.

In serata, il Koinonia Children Team è riuscito a replicare il successo ottenuto la mattina con le scuole anche nello spettacolo rivolto alla cittadinanza, al quale hanno risposto circa 700 persone (un numero eccezionale per Fabriano!), e anche questa volta non hanno deluso le aspettative: hanno costruito altissime piramidi umane mantenendo equilibri incredibili, hanno coinvolto il pubblico con la forza e l’energia tipica di chi ha voglia di riscatto e trova in un applauso il calore e l’affetto a lungo cercati. Di nuovo al termine dello spettacolo il pubblico, questa volta di tutte le età, è finito in pista, a ballare danze africane al ritmo scandito dai bravissimi percussionisti.

In 3 giorni i nostri piccoli amici africani hanno lasciato un segno profondo nei cuori di tutti coloro che hanno avuto la fortuna di ospitarli, incontrarli, parlarci, giocare con loro.

Noi che ci eravamo presi l’ impegno di accompagnarli in giro per l’Italia, lo abbiamo fatto. Ma spesso sembrava come se le parti si invertissero e fossero loro a portarci per mano lungo nuovi percorsi; e noi lì, affascinati, a guardarli incantati e a momenti imbambolati. Poi riprendevamo il sopravvento appena arrivati in una nuova città. Pochi minuti e l’iniziale loro timidezza si trasformava in entusiasmo e il gioco tornava nelle loro mani. Loro vogliosi di fare e noi di guardare e imparare. Sembrerebbe un’inversione di parti dell’antico stereotipo di un nord esportatore di civilizzazione e un sud pronto ad apprendere; ma quando il campo si restringe fino a scendere nel rapporto uno ad uno con esso si cancella, se mai ce ne fosse stata, qualsiasi forma di presunta superiorità. A livello umano ogni volta sembra palese come siamo noi alla fine ad uscirne arricchiti ed estremamente grati delle gioie del momento regalateci. Perchè quando i bambini diventano Stephen o Martin, Harrison o Kelvin, ecco che le facce assumono espressioni e le parole significato profondo pur nella loro semplicità. E non esistono appelli corali, per quanto lodevoli, che restino impressi più di una singola battuta di uno Stephen o di un Martin, di un Harrison o di un Kelvin. Perchè è a quel punto che il “loro” più volte ripetuto crolla e resta un “io” di fronte a un “tu”.

Fabrizio Floris, uno degli amici torinesi di Koinonia di piu’ lunga data e grande conoscitore degli slums di Nairobi sui quali ha scritto piu’ di un libro, ha commentato:

“Se si guardano le statistiche sui bambini di strada si scopre che il tasso di delinquenza è alto, che l’accattonaggio è prevalente e che i servizi sociali in loro favore sono inesistenti. Gli street children appaiono solo come potenziali clienti dell’assistenza delle ONG, destinati a diventare criminali. Sono figli dello slum, di un paese povero, di un quartiere povero e di una famiglia povera e tutto questo comunica loro che “dallo slum non può venire niente di buono” quindi sono loro stessi a essere “buoni a nulla”. La loro vita appare segnata fin dall’inizio, il futuro non è una prospettiva, ma una minaccia. Il tempo che possono vivere è solo quello presente. Non possono andare a scuola perchè troppo costosa, ma non possono nemmeno lavorare perchè la disoccupazione e’ alta e chi sarebbe cosi folle da assumere un ragazzo di Kibera o di Korogocho? Quindi sono vittime e agiscono come tali. Per la Banca Mondiale rientrano in quel miliardo di persone “senza futuro”, sono di troppo, in eccesso.

Eppure vedendo e ascoltando i Koinonia Children, provenienti da un rifugio (kivuli) della periferia di  Nairobi, saltare, ballare e cantare ricordandoci il diritto alla pace e alla giustizia, ci si accorge che il quadro delle statistiche e’ sbagliato: siamo di fronte a persone di grandissma umanita’. E ti vien da pensare che non solo non sono scarti, ma che loro ci stanno precedendo su strade nuove e che noi dobbiamo impegnarci molto di piu’ se vogliamo tenere il passo.”

La Piramide dell’ Amore

Con gli auguri di Buon Natale, un mio breve articolo pubblicato nel n.52/2008 di Famiglia Cristiana

 

«I nostri amici adulti che erano già stati in Italia ci avevano preavvertito che ci sono segnali di razzismo. Ma noi abbiamo incontrato solo delle famiglie in cui ci hanno trattato come se fossimo figli e fratelli. Anche quando andavamo in giro usando i mezzi pubblici, oppure sui treni, la gente ci guardava con simpatia. Forse perché siamo solo dei bambini». È il primo commento di Wilson Abwo, 12 anni, a proposito della sua esperienza italiana. «Ma anche i grandi sono stati bambini con il cuore pieno di sogni», aggiunge Martin, che con i suoi 17 anni è il più grande del gruppo.

Il giudizio lusinghiero di Wilson e la sapienza di Martin sono espressi alla fine di un’esibizione che ha portato il Koinonia Children Team di Nairobi, in Kenya, in giro per l’Italia per quasi tre settimane con uno spettacolo dal titolo Pamoja kwa Amani (“Insieme per la pace“). Provengono tutti da drammatiche esperienze di abbandono, di anni di vita di strada vissuti procurandosi il cibo fra i rifiuti e magari praticando il piccolo furto, delle droghe povere, come la colla da falegname e la benzina, sniffate per calmare i morsi della fame. La loro vita è cambiata da quando il personale di Koinonia, con l’aiuto economico della Ong italiana Amani, li ha convinti a iniziare un processo riabilitativo ed educativo nel grande centro per ex bambini di strada di Kivuli.

Durante i gravissimi disordini avvenuti in Kenya, i bambini di Kivuli si sono accorti di appartenere a tante etnie diverse e hanno voluto immediatamente dare un contributo alla pace improvvisando, pochi giorni dopo l’inizio degli scontri, una manifestazione, chiamando a raccolta tutti i gruppi acrobatici giovanili di Nairobi per fare una grande piramide umana, e adesso con il loro spettacolo vogliono lanciare un appello di pace che vada al di là del Kenya.

«Quanto vale il passaporto di ciascuno di questi bambini? Quanto vale l’esperienza che stanno facendo e la gioia di stare insieme che stanno comunicando? Quanto vale il messaggio di pace contro il razzismo che stanno lanciando ai loro coetanei?», si domanda Paolo Comentale a chi obietta che le risorse per portare i 18 bambini di Koinonia in Italia avrebbero potuto essere usate per necessità  più urgenti.

Comentale è il direttore del Teatro Casa di Pulcinella di Bari. Lo scorso maggio è stato invitato dal Centro italiano di cultura di Nairobi, col collega Giovanni Mancino, a tenere alcuni spettacoli di marionette.

Nel corso della visita è stato a Kivuli, dove vivono oltre 60 ex bambini di strada. Mentre lavorava con una trentina di ragazzini felici di esibire le proprie qualità  di acrobati e giocolieri, Comentale, toccato dalla serenità  e dalla gioia che si respira a Kivuli, ricorda di essersi detto: «Mi avevano detto che negli slum di Nairobi avrei trovato l’inferno, invece ho trovato il paradiso», e poi ha avvicinato John Kanene, il keniano che gestisce il centro, dicendogli: «Io un gruppo di questi bambini li voglio portare in Italia». Così i bambini di Koinonia sono arrivati a Bari, dove è stato loro assegnato il Pulcinella d’oro 2008, premio per la promozione e diffusione del teatro di figura.

Dopo Bari i bambini sono stati a Matera, Caserta, Fabriano, Torino, Piacenza e Milano. Ovunque sono stati accolti da gruppi e famiglie che li avevano già  visitati e conosciuti nel loro ambiente, a Nairobi, e il viaggio in Italia è stato un ritrovarsi, un continuare a costruire dei rapporti di solidarietà. I bambini hanno improvvisato nel parlatorio di un convento di clausura un mini spettacolo per ringraziare le monache che da anni pregano per loro.

Perché ci sia cambiamento occorrono costanza e continuità  per tutti. Per i bambini, che hanno bisogno di sentirsi voluti, cercati, amati, così come per i gruppi e le famiglie italiane. L’esperienza occasionale rischia di restare soltanto un bel ricordo, il rapporto continuo invece cambia il modo di mettersi di fronte agli altri, la prospettiva e il senso del vivere. Per questo, Comentale intende andare ancora il prossimo maggio a Nairobi, con più tempo da dedicare ai bambini di Koinonia, per imparare a fare rivivere le grandi fiabe della tradizione africana. Poi si vedrà come continuare.

Questa visita non poteva capitare in un momento più opportuno, in particolare a Bari, dove recentemente in una scuola alcuni vandali avevano deturpato le immagini di bimbi africani dipinte sui muri di una scuola primaria.

Chi ha incontrato i bambini di Kivuli, li ha ascoltati mentre raccontavano i loro sogni, si è lasciato aprire il cuore dal loro sorriso disarmante, non può non essersi posto delle domande sul suo modo di rapportarsi agli africani, e agli stranieri in genere. Conclude Comentale: «Dobbiamo certo far conoscere i grandi drammi dell’Africa, le ingiustizie di cui è vittima e quelle di cui è complice, ma dobbiamo farne conoscere anche le aspirazioni e le immense potenzialità».

 

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La Luce

Ieri mattina 35 ragazzi di Kivuli, dai 10 ai 16 anni, sono stati battezzati nella chiesa parrocchiale non lontana da noi. E’ stata una giornata molto bella, in grande semplicità, a conclusione di due anni di catechismo che gli interessati hanno personalmente deciso di seguire sempre nei locali della parrocchia, dalle 5 alle 6 di sera, appena ritornati da scuola, rinunciando magari ad attività come il calcio o le lezioni di karate, o semplicemente a rilassarsi. La sera abbiamo avuto un momento speciale di preghiera in comune, una grande famiglia di oltre sessanta persone, intorno ad un grande cerchio di candele che rappresentavano tutti coloro che sono stati per noi una luce. Hanno pregato per tutti, i genitori, i fratelli e le sorelle, gli amici che sono ancora in strada, quelli che non vanno a scuola, quelli che soffrono per le malattie e la fame, per gli amici che ogni anno vengono a trovarci e a stare con noi. Issa, l’ unico musulmano, ha chiuso con una preghiera lunghissima in cui ha fatto il riassunto di tutto ciò che avevano detto gli altri. Poi una fetta di torta e un bicchiere di succo di frutta,  musica e danze fino quasi alle 11, quando e’ incominciato a piovere ed e’ mancata la corrente. Ma c’era dentro una luce che non si e’ spenta.

Perché’ Kenya ed Etiopia Dovrebbero Annettere e Dividere la Somalia

Il 4 ottobre, nella pagine delle opinioni del Saturday Nation, che e’ il quotidiano di gran lunga più’ importante del Kenya, e’ stato pubblicato un articolo di  Donald B. Kipkorir. Opinione importante, perché’ era di lato ai due editoriali, e perché’ l’ autore contribuisce regolarmente su temi di politica estera.

Il titolo e’ “Why Kenya and Ethiopia ought to annex and divide Somalia”, il titolo che uso anche per questo post. Quando l’ ho letto pensavo si trattasse di una boutade, come a volte il Nation ama pubblicare. Invece no, e’ un pezzo estremamente serio, come lo sono di solito quelli di Kipkorir, e il titolo riflette perfettamente in contenuto dell’articolo, che e’ ancora leggibile nel sito del Nation.

In sintesi, l’ articolo afferma che il continuo disordine in Somalia e’ un pericolo per il Kenya, che, giustamente, e’ da tutti considerato un alleato dell’ occidente, e quindi un nemico fondamentale dei paesi arabi. Annettere la Somalia e’ perciò nell’ interesse strategico del Kenya, e questo e’ il momento opportuno perché il mondo e’ distratto dalla crisi economica. Una Somalia fallita potrebbe risucchiare il Kenya nel caos in cui e’ caduta. La proposta di Kipkorir e’ precisa: Kenya ed Eliotipia dovrebbero dividersi la Somalia usando il 4 parallelo come confine. Non ci saranno  problemi, afferma il nostro autore, e esemplifica col precedente storico degli USA che nel 1845 hanno annesso il Texasprendendolo dal Messico senza che ci fossero reazioni significative (e adesso il “Presidente George W. Bush e’ orgoglioso di essere un Americano-Texano”), tanto meno ci saranno problemi a convincere i legislatori somali, visto che quasi tutti vivono a Nairobi.La conclusione: Il momento di annettere e smembrare la Somalia e’ adesso; Washington e Mosca ce ne saranno grati.

Sono andato a vedere sul sito del Nation le reazioni dei lettori: non ne ho trovata una positiva, ne’ dai keniani ne’ dai somali residenti a Nairobi. Anzi quasi tutte sono rabbiosamente negative, e molti keniani sottolineano amaramente che il Kenya ha già‘ i i sui bei problemi interni, come abbiamo visto quest’ anno, e non e’ il caso di creacene altri, e inoltre certamente il Kenya non può’ sognarsi di aver successo la’ dove hanno fallito gli americani e una serie di forze di pacificazione.

Parlavo di questo articolo con un gruppo di amici keniani, e alla fine, mettendo insieme altri tasselli come l’ evidenza che il Kenya sta riarmandosi e che i mass media internazionali stanno riaccendendo l’ attenzione sulla Somalia, ha prevalso l’ idea che probabilmente questo articolo e’ solo il primo tassello di una campagna per promuovere una “soluzione locale” del problema somalo, preparando l’opinione pubblica keniana per una decisione che e’ già’ stata presa, non in Kenya. Sembra impossibile, ma che sia cio’ che ci aspetta?

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