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Life

Erano Sette Bambini Impauriti

Sabato scorso la polizia ci ha portato dodici bambini a Ndugu Mdogo Home, a Kerarapon., e due bambine alla Casa di Anita, dopo aver forzatamente chiuso la casa che li ospitava, a una decina di chilometri da noi. Ci hanno raccontato che in quella casa c’erano oltre cento bambini, con camere, cucina e servizi insufficienti, con pochissimo cibo e una routine quotidiana quasi militaresca, i bambini costretti ad ascoltare istruzioni su temi che non capivano. L’assurdo è che molti dei bambini hanno una famiglia normale e avrebbero potuto essere a casa, tanto che il papà di uno dei bambini portati da noi è un piccolo commerciante della zona, benestante secondo tutti gli standard.
Perché allora erano in una casa per bambini di strada? I responsabili della piccola associazione che gestiva la casa, quando si aspettavano la visita di un gruppo di donatori europei, e volevano far vedere di avere la casa piena e di conseguenza aver bisogno di sostanziosi aiuti economici, andavano nelle zone più povere di Ngong e proponevano ai genitori di lasciare che i loro figli partetipasero a un corso, un workshop, di un paio di settimane per i loro figli, il tutto gratuito. Per molte famiglie che fanno fatica a mettere in tavola cibo sufficiente per tutti, la proposta era troppo allettante per poter essere rifiutata. La cosa, sembra, succedeva con regolarità, due o tre volte all’anno. A delegazione partita, i bambini venivano riportati in famiglia, a parte un piccolo gruppo di una decina che era sempre presente nella casa.
Quando sono arrivato da noi erano pulcini impauriti e bagnati. Quella sera pioveva e non avevano nessuna protezione. Il giorno dopo le due bambine e cinque bambini erano già riunificati alla famiglie. Quando ho fatto la foto qui sotto ai sette bambini rimasti, erano già abbastanza integrati e Shirò, la figlia di Anne, responsabile di Ndugu Mdogo Home, era sempre con loro.
Adesso i nostri operatori di strada stano aiutando la polizia a riunificare i bambini alla famiglie, e pensiamo che per fine settimana saranno tutti a casa.

Riccardo Muti a Nairobi – Riccardo Muti at Nairobi

Comunicato stampa del Ravenna Festival

Le vie dell’amicizia
Piacenza-Ravenna-Nairobi

É a Sarajevo che, nel 1997, è cominciata l’avventura delle Vie dell’Amicizia, il ponte di fratellanza attraverso l’arte e la cultura, divenuto momento irrinunciabile di Ravenna Festival. Oggi, come quindici anni fa, è ancora una chiamata a segnare il cammino del Festival che ora punta al cuore dell’Africa per una grande festa della musica e dello stare insieme che avrà luogo sabato 9 luglio a Nairobi, capitale del Kenya.

Una chiamata arrivata al termine del concerto che Riccardo Muti ha tenuto, con l’Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, poco più di un anno fa al Teatro Municipale di Piacenza a sostegno delle attività di Francesca Lipeti, medico piacentino che opera in Kenya dal 1994, e di Padre ‘Kizito’ Sesana, missionario comboniano in Africa dal 1977 e fondatore delle comunità Koinonia.

In quell’occasione furono presentati a Riccardo Muti un’idea, un sogno: dedicare un concerto alle genti delle baraccopoli cresciute al margine della metropoli di Nairobi con l’intento di sensibilizzare gli animi – grazie al messaggio universale che la grande musica contiene e trasmette senza confini – e portare un segno di tangibile solidarietà e sostegno ad alcuni progetti mirati allo sviluppo ed alla promozione sociale della baraccopoli di Kibera, mai censita nelle sue dimensioni, ma senz’altro la più grande dell’Africa sub-sahariana.

Alla disponibilità immediata di Muti si sono affiancati il Festival di Ravenna e la città di Piacenza (con la collaborazione di Amani, un’associazione laica di cui Padre Kizito è tra i fondatori e il cui impegno è rivolto in particolare alla cura, all’educazione e alla crescita dei bambini più soli in Kenya, Zambia e Sudan), Rai Trade e Rai 1 (che trasmetterà in Italia l’evento) per gettare le basi organizzative del progetto che oggi viene presentato ufficialmente.
Il progetto fin dalle prime fasi organizzative è stato accolto con grande entusiasmo dalla municipalità di Nairobi e reso possibile grazie alla preziosa collaborazione della nostra sede diplomatica in Kenya e dell’Ambasciata della Repubblica del Kenya in Italia.

Una grande festa, aperta a tutti gratuitamente, che la mattina del 9 luglio si svolgerà nella cornice del popolare Uhuru Park (Parco della Libertà) di Nairobi, cuore verde della città, per una scelta che vuole propiziare la partecipazione della popolazione degli sterminati slums che circondano la metropoli. Una festa con e per questa dolente ed umile umanità che, soprattutto nei piccoli e nei più giovani dei suoi componenti, non ha perso la capacità di sorridere ancora alla vita e di sperare in un futuro migliore.

Riccardo Muti dirigerà la Cherubini, a cui si affiancheranno i ragazzi dell’Orchestra Giovanile di Nairobi, con la presenza festante sul palcoscenico della gioventù africana accolta e aiutata dai numerosi missionari italiani (ex bambini di strada provenienti da Kibera e dagli altri slum che si esibiranno con acrobazie, canti e ritmi sulle loro percussioni tradizionali).

Il programma che prevede un’alternanza di sinfonie, arie e duetti del più popolare repertorio italiano sarà concluso dal coro del ‘Va pensiero’ eseguito da oltre 200 giovanissimi allievi delle missioni italiane a Nairobi coordinati da Padre Kizito e da Nino Valerio, ravennate da anni attivo nella metropoli africana per conto dell’Associazione Volontari per il Servizio Internazionale (Avsi).

Un Comitato Promotore dell’evento di solidarietà che affianca il concerto, presieduto dal sindaco di Piacenza Roberto Reggi, sarà costituito al fine di accogliere donazioni da soggetti privati e pubblici di Piacenza e Ravenna dando vita ad un progetto di aiuto concreto: borse di studio per ex bimbi di strada e per giovani meritevoli di proseguire in specifici percorsi formativi; sostegno sanitario per un centro-medico in terra masai, come supporto ad una realtà rurale particolarmente bisognosa di assistenza; risorse e dotazioni logistiche per garantire il funzionamento di un centro di prima accoglienza per bambini nella baraccopoli di Kibera.

Il ponte di amicizia partirà dall’Italia con i due concerti in programma a Piacenza (6 luglio) e Ravenna (7 luglio).

Il Papà di Wanjohi

Wanjohi ha 16 anni e pochi minuti fa abbiamo dovuto dirgli che suo papà é stato trovato morto in strada, al mattino. Non vittima di violenza, piuttosto vittima della vita che conduceva da anni.
La moglie era morta di AIDS da tempo. Con lui, Waweru, la malattia ha avuto un decorso molto più lento, pur senza che facesse nessuna cura, probabilmente solo perché dotato di un fisico più resistente. Lentamente però si è lasciato andare, il banchetto di frutta e verdura che dava da vivere alla piccola famiglia – Wanjohi era l’unico sopravvissuto di tre figli – si é prima ridotto a qualche mucchietto di pomodori e cipolle posati per terra, poi è scomparso del tutto, e Waweru ha cominciato a vagare per Kabiria Road prestando le sue braccia per fare qualche piccolo lavoro, poco più che sufficiente per procurargli da mangiare. Ormai da mesi dormiva in strada, rifiutando ogni aiuto. Poi la malattia ha avuto il sopravvento.
Waweru avrà avuto poco più di 40 anni, apparentemente una vita fallita, eppure c’era una cosa che lo rendeva orgoglioso e felice, e la raccontava sempre a tutti: “mio figlio Wanjohi vive a Kivuli, anzi negli ultimi due anni frequenta la scuola superiore, alla Domus Mariae, e gli insegnanti dicono che è un ragazzo molto bravo e intelligente”. Quando riusciva a mettere da parte qualche spicciolo, magari il corrispondente di un euro in una settimana, lo portava a Wanjohi perché si comprasse qualcosa di più. Era una scena che si svolgeva davanti agli occhi di tutti, quest’uomo che sembrava ormai un vecchio, che aspettava pazientemente il figlio vicino al cancello di Kivuli, e quando lo vedeva rientrare dalla scuola gli metteva in mano qualche soldo.
Adesso, alla notizia della morte del papà, Wanjohi cerca di trattenersi, poi si lascia andare in un pianto da bambino. Io prego che il semplice gesto d’amore del papà gli resti sempre inciso nell’anima.

Sudan: i Nuba e l’Imminente Indipendenza del Sud

Nelle scorse settimane l’attenzione internazionale è stata richiamata dal referendum sull’indipendenza del Sud Sudan, un voto storico che corona l’Accordo di pace globale (CPA) firmato nel 2005 dal governo centrale del Sudan e dall’Esercito di liberazione popolare del Sudan/Movimento (SPLM/A) per mettere fine a una lunga guerra civile che ha causato oltre due milioni di morti.
Dai primi risultati sembrerebbe che i sud sudanesi abbiano scelto di separarsi formando un nuovo Stato. Le immagini dei sud sudanesi euforici perché si lasciano finalmente alle spalle un passato di sangue sono state ampiamente diffuse da giornali e televisioni, ma in tutta questa copertura mediatica emerge un vuoto eclatante: la sorte delle popolazioni dei Monti Nuba, una regione schiacciata tra il Nord e il Sud Sudan, che durante la guerra civile ha combattuto dalla parte del Sud.
L’ex presidente dell’SPLM, John Garang, si recò per la prima volta in visita sui Monti Nuba nel dicembre 2002. Incontrò centinaia di delegati all’ombra di un bosco di manghi a Kauda, cittadina nel cuore delle zone liberate dallo SPLA. Motivo della sua visita era partecipare alla All Nuba Conference (Conferenza di tutti i Nuba), istituzione politica democratica unica dei Monti Nuba durante la guerra civile, costituita dai rappresentanti di tutte le comunità Nuba e delle tribù arabe nomadi allo scopo di deliberare su questioni riguardanti la sopravvivenza del popolo Nuba. Yusuf Kuwa, il carismatico leader dei Nuba e alto comandante dello SPLA, aveva convocato per la prima volta la All Nuba Conference nel 1991, dopo che il regime di Khartoum aveva scatenato una repressione senza pietà e una jihad contro i Nuba. Kuwa chiese ai Nuba se volevano continuare la loro rivolta o arrendersi. La risposta collettiva fu a favore della continuazione della ribellione contro Khartoum.
Fu una decisione senza ritorno. Da allora i Nuba hanno appoggiato pienamente lo SPLA e vissuto anni di reinsediamenti coatti, distruzioni, bombardamenti, uccisioni, senza mai vacillare nella loro determinazione di stare con il Sud.
Davanti a quei delegati a Kauda, Garang promise che «lo SPLA non vi deluderà. Qualsiasi accordo raggiungeremo… includerà anche voi». Fu solennemente promesso ai Nuba che sarebbero stati presi in considerazione nell’accordo di pace che si stava allora negoziando a Naivasha. Due giorni dopo le parole di Garang, presi nota del commento di Adam, un vecchio amico Nuba che era rimasto nella sua terra a Kauda: «Ora siamo sicuri. Garang ha parlato. Staremo con il Sud».
Non sarebbe stato così. La promessa solenne non è stata mantenuta. I Nuba – che avevano dato mandato allo SPLA di garantire che durante i negoziati sarebbero stati rispettati i principi di autodeterminazione, equa distribuzione del potere, delle ricchezze e soprattutto della terra e che il loro destino sarebbe stato strettamente legato a quello del Sud – sarebbero andati incontro a un’amara delusione. Quando l’Accordo globale di pace (CPA) fu finalmente firmato a Nairobi, i Nuba scoprirono che non avevano nemmeno ottenuto il diritto di partecipare al referendum sull’indipendenza. Con il CPA, lo SPLA/M accettò il principio che i Monti Nuba, ufficialmente parte dello Stato del Kordofan meridionale, sarebbe rimasto al Nord. La stessa sorte fu decisa per la popolazione del Nilo azzurro meridionale, un altro territorio conteso vicino al confine del Sudan con l’Etiopia. I due territori hanno condiviso la sofferenza degli anni di guerra civile ma sono ora esclusi dal risultato dell’autodeterminazione. È soltanto ad Abyei – piccola area di confine che non ha mostrato alcuna particolare volontà di combattere con il Sud durante la guerra civile – che alla popolazione è stato garantito il diritto di scegliere a chi vuole appartenere. Ma la gente di Abyei gode anche di un vantaggio particolare: la loro terra è ricca di riserve petrolifere.
I Nuba sono la prima popolazione etnicamente e culturalmente africana che si incontra viaggiando verso sud da Khartoum. La loro posizione geografica (con un deserto al Nord e le paludi al Sud) li ha sempre mantenuti isolati e, nei secoli, la loro determinazione a restare ancorati alla propria cultura e religione ancestrale è stato un ostacolo alla diffusione della cultura araba e musulmana nella zona attualmente conosciuta come Sud Sudan. Soltanto all’inizio del secolo scorso sono avvenute alcune irruzioni/incursioni. Tuttavia, fu nei Monti Nuba che, già nel 1965, un prete anglicano Nuba, Philip Ghabbush, formò l’Unione Generale dei Monti Nuba (GUN) e avviò la campagna per l’autodeterminazione.
Alla fine degli anni Ottanta, la leadership dei Nuba passò a Yusuf Kuwa, un uomo più giovane e carismatico, nato in una famiglia musulmana. Dopo diversi tentativi falliti di ottenere una garanzia politica per il riconoscimento dei diritti Nuba – soprattutto il diritto alle terre strappate ai Nuba e assegnate a società e gente di Khartoum per avviare «fattorie meccanizzate» – Kuwa si unì allo SPLM/A nella lotta armata e diventò il punto di riferimento per tutti i Nuba.
Ne derivò una brutale repressione governativa, che rimase inosservata e incontrastata per oltre un decennio. Con l’attenzione internazionale puntata sul conflitto nel Sudan meridionale, Khartoum isolò la regione dal 1991 al 1995. Dal 1991, i Nuba, tagliati fuori perfino dallo SPLA del Sud, combatterono da soli senza rifornimenti, dipendendo unicamente dal supporto locale. Tuttavia, con la leadership di Kuwa e nel bel mezzo di una carestia di tre anni, istituirono un’amministrazione civile operativa e un sistema giudiziario che integrava la legge tradizionale. Kuwa sostenne fermamente la tolleranza religiosa e sotto la sua leadership i Nuba non hanno mai conosciuto i conflitti intertribali che hanno invece sconvolto lo SPLA in altre zone del Sud. Ma tutti questi risultati non hanno sempre giocato a favore di Kuwa. Molti leader del Sud erano chiaramente infastiditi dalla crescente popolarità che aveva raggiunto prima di morire nel marzo 2001.
Al suo culmine, la guerra civile sui Monti Nuba non fu un semplice conflitto per sconfiggere i ribelli che avevano importato la ribellione dello SPLA dal Sud “Africano” al Nord “Arabo”. Come ha osservato Julie Flint, giornalista inglese e prima outsider a visitare i Nuba nel 1995, «si è trattato di un programma di ingegneria sociale per spostare l’intera popolazione dalle aree in rivolta in campi che avrebbero cancellato l’identità Nuba. Agli inizi degli anni Novanta, l’esercito e le milizie paramilitari delle Forze di difesa popolare (PDF) hanno ucciso tra i 60 e i 70 mila Nuba in appena sette mesi. Massicce offensive militari sono state condotte nel nome della jihad. È stato negato l’accesso agli aiuti umanitari. Leader di comunità, gente istruita e intellettuali sono stati arrestati e uccisi per fare in modo che i Nuba non avessero più voce per denunciare la loro situazione».
Migliaia di giovani Nuba sono partiti per il Sud, mettendo a rischio la propria vita, per combattere nelle forze dello SPLA. Il loro contributo al lungo conflitto in corso non è sempre stato pienamente riconosciuto. Ora, con l’imminente proclamazione dell’indipendenza del Sud, i Nuba si ritroveranno isolati nel Nord Sudan, sotto un governo che appena pochi anni fa intraprese azioni genocide contro di loro e potrebbero non ricevere alcun aiuto dal Sud. «Ancora una volta – mi racconta uno sconsolato Nuba – siamo stati trattati come merce di scambio nel confronto tra Juba e Khartoum». La prospettiva che il presidente del Nord Sudan possa diventare ancora più intollerante in campo religioso fino al punto di applicare la sharia non è un buon auspicio per un futuro democratico e rappresenta una grave minaccia per le decine di migliaia di Nuba convertiti al cristianesimo. Anche i resoconti degli spostamenti militari non sono positivi: fonti molto attendibili riportano che la presenza militare nel Kordofan meridionale è aumentata con truppe pesanti passate da 15 a 45 mila uomini, la maggior parte dei quali dislocati lungo la linea di confine della parte più meridionale dei Monti Nuba – e dello Stato del Nord – con il Sud.
Oggi, mentre i Nuba si uniscono ai loro fratelli e sorelle dei Sud nel celebrare la nascita di una nuova nazione, il loro destino è molto incerto. Un rapporto del 2008 del Gruppo internazionale di crisi ha parlato dei Monti Nuba come del «prossimo Darfur», a causa della loro marginalizzazione, dell’incertezza politica e della potenzialità di scoppio di un conflitto. Quello che il CPA prevede per i Nuba e per l’area del Nilo azzurro meridionale nell’immediato futuro dipende da quelle che vengono denominate «consultazioni popolari». La separazione tra Nord e Sud Sudan sarà completata entro il 9 luglio di quest’anno; una consultazione popolare dovrebbe avere luogo prima di quella data per determinare il destino dei Nuba. I termini di questa consultazione non sono molto chiari nel CPA: secondo l’interpretazione comune, ci saranno elezioni governative e parlamentari nel maggio o giugno 2011, e i leader eletti indicheranno la strada da percorrere in seguito. Se il nuovo governatore e la maggioranza dei parlamentari locali vengono dal ramo dello SPLM nei Monti Nuba, ci sarà la vaga possibilità che possano indire un referendum per chiedere ai Nuba se vogliono staccarsi con il Sud o restare nel Nord. Altrimenti, la partita è conclusa e i Nuba, in un prevedibile futuro, resteranno parte del Nord. E data la loro situazione di marginalizzazione, la possibilità di elezioni manipolate dal Nord è estremamente alta.
Si può solo sperare che la volontà di pace e riconciliazione prevalga anche nel Nord e che il regime di Khartoum, avendo imparato la lezione dal lungo conflitto nel Sud e nel Darfur, si impegni ad affrontare le questioni da lungo tempo irrisolte alla base della battaglia dei Nuba: per prima cosa, il riconoscimento della dignità dei Nuba e il loro diritto a godere di un certo grado di autonomia nell’amministrazione della loro area; in secondo luogo, la depredazione delle risorse naturali e la politica di arabizzazione e islamizzazione insieme al tentativo concreto di sradicare la cultura indigena Nuba.

Sudan: the Nuba Identity

The Nuba Question in South Sudan’s Imminent Independence

For the past few weeks, much attention has focused on the independence referendum in South Sudan, a historic vote that rounds off the Comprehensive peace agreement (CPA) signed in 2005 by Sudan’s central government and the Southern rebel Sudan People’s Liberation Movement/Army (SPLM/A) to end a protracted civil war that claimed over two million lives.
Preliminary results show that the South Sudanese have chosen to secede into a new country. Images of elated Southerners celebrating this imminent break from the bloody past are fast becoming a news staple, but one glaring aspect has remained missing from this coverage – the fate of the people of the Nuba Mountains, a region sandwiched between Sudan’s North and South, and which fought alongside the Southerners during the civil war.
The late SPLM Chairman, John Garang, visited the Nuba Mountains for the first time in December 2002. He met hundreds of delegates under the shade of a vast mango thicket in Kauda, a small town in the heart of the SPLA-liberated areas. The occasion of his visit was to attend the All Nuba Conference, a democratic political institution unique to the Nuba Mountains during the long civil war, in which representatives of all Nuba communities and the nomadic Arabic tribes used to meet and deliberate on issues related to the survival of the Nuba people. Yusuf Kuwa, the charismatic Nuba leader and high ranking SPLA commander, had convoked the All Nuba Conference for the first time in 1991, after the Khartoum regime had unleashed a merciless repression and a Jihad against the Nuba. Kuwa asked the Nuba people if they wanted to continue their rebellion or surrender. The overwhelming answer was for the continuation of the rebellion against Khartoum.
It was a decision with no return. Since then, the Nuba sided fully with the SPLA and bore years of forced resettlement, destruction, bombing, killings, never wavering in their determination to stand with the South.
Unfulfilled Promise
Before these delegates in Kauda, Garang promised that “the SPLA will not let you down. Whatever agreement we reach… we will include you.” It was a solemn promise to the Nuba that they would be considered in the peace agreement that was then being negotiated in Naivasha. Two days after Garang spoke, I wrote in my notebook the comment of Adam, an old Nuba friend who had stood firm in his homestead in Kauda: “Now we are sure. Garang has spoken. We will go with the South.”
It was not to be. The solemn promise was not kept. The Nuba – who had mandated the SPLA to guarantee that the principles of self-determination, fair distribution of power, wealth and especially land would be kept during the negotiations, and that their fate would be strongly linked to the fate of the South – were to be bitterly disappointed. When the Comprehensive Peace Agreement (CPA) was finally signed in Nairobi, the Nuba discovered they had not even won the right to participate in the independence referendum.  In the CPA, the SPLA/M accepted the principle that the Nuba Mountains, officially a part of Southern Kordofan state, would remain a part of the North. The same fate was decided for the people of Southern Blue Nile, another contentious territory close to Sudan’s border with Ethiopia. The two territories shared in the suffering of the civil war years but are now excluded from sharing in the fruit of self-determination. It is only in Abyei, a small border area that did not shown any particular will to fight alongside the South during the civil war, that the people were granted the right to chose where they wanted to belong. The people of Abyei however have a distinct advantage: their area is rich in oil reserves.
The Nuba are the first people who are ethnically and culturally African that you encounter as you travel southwards from Khartoum. The geographical location of their homeland (with a desert to the North and swamps to the South) has always kept them isolated, and throughout the centuries their determination to stick to their ancestral culture and religion had been an obstacle to the spread of the Arab and Muslim culture to the area now known as South Sudan. Only at the beginning of last century were some inroads made. Yet, it was in the Nuba Mountains that, as early as 1965, a Nuba Anglican priest, Philip Ghabbush, formed the General Union of the Nuba Mountains (GUN) and started campaigning for political self-determination.
At the end of the 1980s, the Nuba leadership mantle was taken up by Yusuf Kuwa, a younger, charismatic man born into a Muslim family. After several failed attempts to achieve a political guarantee for the recognition of the Nuba rights – especially their right to the lands that were taken from the Nuba and allocated to companies and people from Khartoum to start “mechanized farms” – Kuwa joined the SPLM/A in the armed struggle and became the point of reference for all the Nuba.

A program to destroy the Nuba identity

A brutal government repression ensued in the Nuba Mountains. It went unnoticed and unchallenged for more than a decade, and with international attention focused on the conflict in southern Sudan, Khartoum sealed the region off from 1991 until 1995. From 1991, the Nuba, cut off even from the southern SPLA, fought alone without resupply, dependent solely on local support. Yet, with Kuwa’s leadership and in the  middle of a three-year famine, they established a working civilian administration and judicial system that incorporated traditional law. Kuwa stood firmly for religious tolerance and under his leadership the Nuba never experienced the inter-tribal fighting that plagued the SPLA in other parts of the South. These accomplishments did not always play in Kuwa’s favour however. Many Southern leaders were clearly annoyed by his raising popularity by the time he died in March 2001.
At its height, the civil war in the Nuba Mountains was not a mere fight to defeat the rebels who had taken the SPLA’s rebellion from the “African” South and into the “Arab” North. As it has been noted by Julie Flint, a British journalist who was the first outsider to visit the Nuba in 1995, “It was a programme of social engineering designed to resettle the entire population from insurgent areas into camps that would eliminate the Nuba identity. In the early 1990s, army and government paramilitary Popular Defence Forces (PDF) killed 60,000–70,000 Nuba in just seven months. Massive military offensives were dignified in the name of jihad. Humanitarian access was denied. Community leaders, educated people and intellectuals were detained and killed to ensure that the Nuba couldn’t speak for themselves.”
Thousands of Nuba youth travelled to the South, risking their lives, to fight in the SPLA forces. Their contribution to the long running struggle was not always fully recognized. Now, with the imminent proclamation of independence of the South, the Nuba will find themselves isolated inside North Sudan, under a government that just a few years ago meted out genocidal actions against them, and they may not be able to get any support from the South. “Once more,” – one disconsolate Nuba tells me – “we have been treated as an exchange commodity in the ongoing confrontation between Juba and Khartoum.” The prospect that President Omar al-Bashir of North Sudan could become even more religiously intolerant to the extent of applying Sharia law does not augur well for a democratic future and is flatly scary for the dozens of thousand of Nuba people who have since become Christians. Reports of the military movements are not positive either: very reliable sources say that the military presence in South Kordofan has risen from 15,000 to 45,000 heavily armed troops, most of them deployed along the line where the southernmost part of the Nuba Mountains –  and of the Northern state – borders with the South.

Uncertain future

Today, as the Nuba join their Southern brothers and sisters in celebrating the birth of a new nation, their fate is very unclear. A 2008 report by the International Crisis Group described the Nuba Mountains as the “next Darfur”, because of its marginalisation, political uncertainty and potential for conflict. What the CPA foresees for the Nuba and the Southern Blue Nile area in the immediate future depends on what are termed “popular consultations”. The separation between North and South Sudan will be completed on July 9 this year; there should be a popular consultation before this date to determine the fate of the Nuba. The terms of this consultation are not very clear in the CPA, the normal interpretation being that there will be a gubernatorial and parliamentary election in May or June 2011, with the elected leaders indicating the way forward. If the new governor and the majority of the local parliamentarians come from the SPLM branch in the Nuba Mountains, there is a vague chance that they could demand for a referendum to choose on whether to secede with the South or remain in the North. If not, the game is over and the Nuba will remain part of the North for the foreseeable future, and due to their marginalized situation, the possibility of election rigging by the North are extremely high.
One can only hope that the will for peace and reconciliation will also prevail in the North and that the Khartoum regime, having learned some lessons from the long confrontation in the South and in Darfur, will commit itself to addressing the longstanding issues that have always informed the Nuba struggle: firstly the recognition of the Nuba dignity and their right to have a degree of autonomy in the administration of their area, then the depredation of natural resources and the policy of Arabization and Islamization alongside the sustained efforts to eradicate the indigenous Nuba culture.

Il Cuore di Lusaka – The Heart of Lusaka

Questa è una città? Si, ci sono case, ma non c’è una piazza centrale, non un parco dove la gente possa incontrarsi, non un teatro, un municipio degno di questo nome” L’amico mozambicano, abituato ai tentativi di civetteria latina delle città nate nelle colonie portoghesi, forse esagera. Lusaka, la capitale della Zambia, non è poi cosi brutta. Tuttavia le sue osservazioni hanno del vero.
Come tante altre città africane, Lusaka è nata per soddisfare le esigenze dei pragmatici colonizzatori britannici, costruita intorno alla linea ferroviaria che serviva principalmente per esportare il rame. I criteri che ne hanno guidato la pianificazione della città sono fondamentalmente gli stessi dell’apartheid: tre strade parallele alla ferrovia per sistemarci alberghi e negozi, un quartiere per gli uffici governativi, un quartiere per i coloni inglesi e, allontanandosi dal centro, prima un quartiere indiano, poi una corona di quartieri africani, poi fattorie (di proprietà dei coloni) per rifornire la città di viveri. Unica concessione alla fantasia, o meglio ai sogni imperiali, il nome della strada più importante, Cairo Road. Nel 1931, quando Lusaka è stata fondata come capitale della Rhodesia del Nord, si poteva partire da Città del Capo, e, passando da Cairo Road, raggiungere la capitale egiziana sempre muovendosi in territori dominati dagli inglesi.
Il valore complessivo del rame che gli inglesi hanno esportato sulle rotaie che attraversano Lusaka fino al 1964, anno dell’indipendenza, senza un euro di compenso alla popolazione locale, fa girare la testa se si cerca di calcolarlo. Quando gli inglesi allentarono la stretta e la Zambia divenne formalmente indipendente, ci fu un periodo di grande prosperità. Gli Zambiani affermavano con orgoglio che Lusaka era la città africana con la più grande percentuale di crescita, e paragonavano Cairo Road al Miracle Mile di Los Angeles, perché in negozi elegantissimi vi si trovava di tutto, anche le ultimissime novità tecnologiche del tempo. Oggi, dopo anni disastrosi politicamente ed economicamente, la risalita del prezzo del rame e l’arrivo di compagnie e capitali cinesi, stanno ridando splendore a Lusaka, anche se la maggioranza della gente continua a vivere in grande povertà
Per conoscere una città pensata per il business bisogna andare al mercato. Fra cassette di pomodori e peperoni, sacchi di pesce secco, di fagioli e di riso. caschi di banane, montagne di cavoli – un panorama che cambia a seconda dei prodotti della stagione – si incontra tutta la Lusaka che non conta agli occhi del mondo, gli uomini che portano al mercato il prodotto dei loro orti, i facchini, le donne che col piccolo commercio mantengono la famiglia, le casalinghe che tutte le mattine vengono qui a cercare i prodotti più economici. Qui si incontrano anche i bambini di strada, che si muovono svelti in piccoli gruppi, innocenti e scaltri, pronti a fare sia un servizio a pagamento sia a non lasciarsi sfuggire l’occasione di un piccolo furto.
Oggi mi viene incontro Lavu, il più anziano di una banda di adolescenti. Mi mostra Ouma. “Lo vedi? Ha otto anni, la mamma si è messa con un altro uomo che lo ha cacciato di casa. Da ieri è con noi. Ma perché la gente è tanto cattiva?”. Domanda che farebbe tremare i polsi ad un teologo. Ouma ha ancora i segni delle lacrime sul viso sporco, e segni di percosse su tutto il corpo. “Lavu – gli dico – non è vero che tutta la gente è cattiva. Fra la gente ci siete voi, e voi avete accolto Ouma. Non si può essere al mondo senza aver a che fare con ingiustizia a violenza, ma noi siamo qui per aiutarci, per vincere con l’amore, facendo ciò che è bene. L’amore vince il male, e voi lo state dimostrando. Io vi prometto che vi aiuterò ad aiutare Ouma, voglio imitarvi, perché voi state facendo quello che farebbe Gesù”.
Mi guardano sbalorditi, Sorridono felici. Mi promettono che se hanno troppa fame o si ammalano cercheranno aiuto a Mthunzi, dove già decine di ex ragazzi di strada hanno trovato rifugio, e in pochi secondi scompaiono di nuovo, inghiottiti dalla fiumana di gente che si muove intorno a noi. Ancora una volta mi hanno confermato che sono loro il cuore vero di questa città.

Una Nuova Corsa all’Africa, o l’Inseguimento alla Cina? – A New Scramble for Africa, or the Pursuit of China?

Il decennio che si apre vedrà la Cina diventare la prima potenza economica mondiale? E’ probabile. Quello che si comincia a capire, a giochi fatti, è che in Africa il decennio dell’avanzata cinese è stato quello che si è appena chiuso, e il prossimo decennio sarà quello del consolidamento delle posizioni. Dal 2000 ad oggi la Cina in Africa ha fatto progressi irreversibili, conquistandosi la fiducia di molta parte della classe dirigente, e diventando il principale donatore e partner commerciale di molti paesi.

I cinesi si sono imposti anche perché fanno infrastrutture che gli altri non fanno più, con investimenti enormi. Dopo gli errori del passato – i grandi stadi, i faraonici palazzi presidenziali – oggi i cinesi privilegiano la costruzione di infrastrutture di comunicazione, grandi strade, ferrovie, porti, aeroporti. E li costruiscono in fretta, con efficienza, senza i ritardi, senza le condizioni e sopratutto senza le false promesse che sono diventate un contrassegno della cooperazione occidentale. E’ vero che sono infrastrutture che servono anche ai cinesi per acquisire materi prime, ma servono anche localmente, e restano, e sono altamente visibili.

A Nairobi le compagnie di costruzioni cinesi stanno trasformando la faccia della città. La strada per Thika, la cittadina industriale a circa 50 km al nord della capitale, con i suoi 250,000 veicoli al giorno in transito, era diventata un incubo per gli automobilisti. I cinesi la stanno portando a quattro corsie, più due di servizio, in entrambe le direzioni, per un totale di 12 corsie. Il governo keniano finanzia 15% dell’opera, il resto lo finanzia il governo cinese. La gente guarda allibita le gigantesche opere – sovrappassi, sottopassi, svincoli – e approva. Finalmente un cambiamento, finalmente, dopo tante promesse, i fatti.

Già si parla del nuovo porto industriale a Lamu, e del collegamento con i giacimenti petroliferi nel Sud Sudan, quel Sud Sudan che fra una settimana voterà e sceglierà l’indipendenza. Il porto di Lamu sarà più grande del porto di Mombasa e i lavori dovrebbero cominciare entro la metà di quest’anno, il collegamento con un oleodotto, una ferrovia e una strada è un’opera di importanza strategica ed economica assolutamente straordinaria. Chi li costruirà? I cinesi sono i più probabili candidati. Eppure i cinesi hanno terminato oltre 10 anni fa l’oleodotto che dagli stessi giacimenti va verso nord, a Port Sudan, e quindi erano logicamente visti come alleati del Nord contro il Sud Sudan. Nonostante questo non si sono dubbi che i Sud Sudanesi accerteranno senza difficoltà l presenza cinese in un’opera di tanta importanza strategica. I cinesi non mettono condizioni, non fanno domande imbarazzanti sui diritti umani, sulle leggi per la protezione dei lavoratori, sul regime politico. Non pretendono di mantenere il controllo, fanno solo manutenzione se sono pagati. Non fanno neppure obiezioni sull’impatto ambientale. Lamu, che è un gioiello della civiltà Swahili in una laguna da sogno e dove fino ad oggi l’unica auto esistente è quella della polizia, per i resto ci si muove solo a piedi, in bicicletta o con l’asinello, potrebbe essere travolta da un porto di quelle dimensioni, ma questo per i cinesi non è un problema, è un problema per il Kenya, e se il Kenya decide di fare il porto e fanno un debito contratto, loro il porto lo costruiscono a tempo di record.

Le critiche dell’occidente a questa pesante e crescente presenza cinese non mancano, e si focalizzano sul fatto che i cinesi fanno solo puro business. I cinesi non lo negano. D’altro lato l’Occidente ha ben poca autorevolezza politica e morale per denunciare i metodi altrui. Non si può nascondere che i quasi cinquant’anni di cooperazione e aiuti all’Africa dei paesi occidentali sono stati, globalmente, un disastro da tutte le prospettive, dall’ economica alla morale, passando per lo sviluppo e la politica.

Dove dieci anni fa gli europei e americani vedevano solo i problemi, i cinesi hanno visto delle opportunità. Hanno comperato terreni, miniere, partecipazioni in concessioni petrolifere che le compagnie occidentali snobbavano perché sembrava dovessero dare profitti a troppa lunga scadenza. Oggi le acquisizioni cinsi si sono rivelate lungimiranti, in un continente dove gli occidentali cominciano ad accorgersi che non ci sono solo fame, guerre e miseria ma dove da qualche anno gli indici i crescita economica sono in costante ascesa.

Ciò che gli europei vedono in Africa è ancora un po annebbiato dalla loro visione paternalista e condiscendente di vecchi colonialisti. Gli americani stanno aprendo gli occhi, se non altro perché si vedono sfuggire il controllo delle riserve petrolifere africane. Recentemente Micheal Battle, ambasciatore degli Stati Uniti presso l’Unione Africana, una posizione creata dal Presidente Bush nel 2006, in in incontro tenutosi lo scorso settembre alla University of Virginia, ha detto “If we don’t act now we will miss a golden opportunity in Africa, and wake up to find that China and India have divided up the continent without us.” Battle non avrebbe potuto essere più esplicito, e invece di invocare alti principi di intervento umanitario, cooperazione e sviluppo, ha fatto un discorso tutto centrato sulla necessità di difendere e potenziare la presenza militare americana e di sostenere l’espansione delle compagnie americane nel continente nero. Ha parlato di sollecitare i governi a “harmonising trade rules” e “simplifying regulations”. Un intervento molto concreto, da businessman. Lo stesso discorso che i cinesi hanno cominciato a fare 10 anni fa, e che hanno continuato a fare, riuscendo a non farsi notare, con costante determinazione. Ma oggi la presenza cinese e il suo successo in Africa è cosi evidente che essi stessi non riescono più a nasconderla.

La Luce e le Tenebre, l’Incontro e la Paura

L’amico Seba per Natale ha fatto circolare fra gli amici questa riflessione che gli è nata dentro durante la sua ultima visita a Nairobi. O meglio passeggiando per “il corso” di Riruta, la favolosa Kabiria Road. Ve la ripropongo, col suo permesso.

Da sempre l’oscurità suggerisce all’immaginazione intrighi, storie di contrabbando, traffici furtivi e silenziosi: e allora si chiama penombra; oppure notti di passione, romantiche carezze che prolungano la cena e possono arrivare fino al mattino seguente: e allora si dice a lume di candela.
A me Riruta di notte ricorda il presepe.
Riruta è un quartiere. In altre parti del mondo poteva aspirare al ruolo di cittadina, forse di capoluogo. Ma con intorno una metropoli come Nairobi, diventa una modesta periferia urbana, un prolungamento informale di cittadinanza, uno sparpagliato esistere di baracche ed edifici in mattoni collegati da sterrato.
Perché nella vita la propria statura si decide anche in relazione a chi ci sta intorno.

La sera le persone tornano a casa. Chi a piedi chi in autobus, al termine di una lunga giornata. E’ così in tutto il mondo. Ma è verso il tramonto che Riruta mi appare in tutto il suo fascino, a metà tra penombra e lume di candela. Sarà per le sgangherate bancarelle di verdura che accendono le loro lampade a cherosene; sarà perché ci sono ancora animali che girano liberi e gruppi di caprette che attraversano caotiche la strada stando attente alle poche motociclette, che sopraggiungono a fari spenti; è perché i piedi che calpestano queste strade impolverate a quest’ora si moltiplicano, e le loro vibrazioni risalgono lungo il mio corpo un attimo prima di comprare un cartone di latte dalla ragazza dell’alimentari; sono i neon quasi scarichi della bottega del barbiere che aspetta anche i più ritardatari, sono le mani di una signora che conta e riconta l’incasso della giornata, sono le chiacchiere dei bambini che hanno finito la scuola, i compiti, e persino i giochi; sono gli equilibristi della bicicletta in questo magma di buche e persone; sono i cani randagi, le marmitte bucate, sono gli ubriachi che hanno perso la verve, le note country che si diffondono dalla radio a pile, è il poliziotto; sono le ricariche del telefono grattate e lasciate cadere a terra, i carboni accesi del braciere su cui viene passata una pannocchia, è il predicatore, lo sfaccendato, il conoscente dal saluto cortese, una donna corpulenta.
E’ il passo di un quartiere impegnato nello sprint finale; seguirà il notiziario della sera, un pasto caldo, forse un breve black out, fino a sfumare verso il freddo dell’altopiano che sale dalla terra e percorre le strade.

E’ notte. Attraverso Riruta da un capo all’altro per andare in città e da lì all’aeroporto. Guido col rispetto che merita un’auto presa in prestito, consapevole delle buche.
E’ allora che mi accorgo che qualcosa è cambiato: che fine ha fatto il presepe?
La Riruta al buio, quella con qualche luce a fare intendere che il quartiere continua anche in quella direzione, ma senza capirne bene limiti e contorni. Con le baracche che emergono nella notte, e lampade ad olio sparse qua e là come piccole lingue di fuoco.

L’arteria principale del quartiere ora è scandita da enormi lampioni, simili a quelli da stadio.
La strada è piuttosto illuminata, i passanti si vedono in faccia, e le cose son lì, a portata di mano, senza bisogno di immaginarsele. Inchiodo di colpo. La modernità ha distrutto la poesia anche da queste parti? mi chiedo.
Come apprezzo quando giro di notte in bicicletta per la mia città. La mia città è abbastanza piccola che se uno non si inventa delle scuse la può girare tranquillamente in bicicletta. Ci sono notti in cui nel mio quartiere si spengono i lampioni, per intere vie. Si tratta di guasti, che colpiscono le centraline collegate tra loro. E il quartiere resta al buio. E io godo, perché mi sento a Riruta. Perché non mi sembra più tutto chiaro e preconfezionato; perché mi conquisto ogni metro dovendo usare la vista ed anche gli altri sensi.
Ma non capita tanto spesso, dalle mie parti.

Così maledico l’amministrazione comunale di Nairobi, che si è ricordata di questa baraccopoli solo per toglierle il fascino del presepe, ed ora mi sembra di guidare in mezzo a un campo da rugby.

Qualche sera dopo sono in compagnia di alcune ragazze di Anita’s Home. E’ saltata una lampadina, e sparecchiamo la tavola aiutandoci con torce e qualche candela.
In questi anni le ragazze di Anita mi hanno insegnato così tante cose, che ogni tanto mi concedono un ripasso. Parliamo del buio, di qualche storia a base di fantasmi, cimiteri e spiriti del bosco. Sembra il romanticismo scandinavo. Poi una di loro racconta che la settimana precedente è tornata qualche giorno a fare visita alla nonna, che vive sola in una baraccopoli dall’altra parte della città. Lavora? Sì, lavora. Ma in un quartiere un po’ lontano, come donna delle pulizie. Tornare a casa le prende più di un’ora, e la sera deve fare presto. E’ pericoloso girare col buio. E non per i fantasmi, che sono belle storie da raccontare e far paura ai bambini. Per i ladri; i ladri veri. Quelli sono capaci di prenderti tutto, e di lasciarti con niente. Ci vorrebbero dei bei lampioni, come quelli che hanno messo a Riruta.
Ah..la magia del presepe allora può fare male..?
Prendo attentamente appunti anche questa volta: voler tenere spenti i lampioni a Riruta perché è più affascinante ed evocativo per le poche volte che mi capita di passarci di notte, non si fa. Per chi ci vive, tutti i giorni, sono una grossa risorsa, un aiuto che li fa camminare sicuri anche la notte, in contesti difficili.
Bisogna stare attenti prima di giudicare le cose.

Ma io, penso tra me e me, i lampioni li vorrei levare anche dal mio quartiere. Per far posto a un po’ di mistero. E creare zone dove è pericoloso camminare la notte, come era a Riruta? No.
Bisogna che ne parli con Mary, con Judit, e con le altre ragazze di Anita. Per trovare una soluzione. C’è da coniugare penombra e lume di candela; bisogna che la scoperta ed il fascino innato della natura non vengano schiacciati dall’imposizione della tecnica; al tempo stesso che le persone possano godere delle bellezze incontaminate in tutta tranquillità. Intravedere chi mi viene incontro, e lanciarmi con fiducia nella relazione; cercando di non finire tra le mani di un brigante.
Unire libertà e sicurezza, piacere e garanzia, è una sfida a cui ci richiamano i nostri giorni.
Già, bisogna che ne parli con le ragazze di Anita.
So che loro hanno spesso soluzioni intelligenti.

Miracolo a Natale – Christmas Miracle

G***** è una dei ragazzi che nel giugno dello scorso anno mi aveva accusato di aver abusato di lui. In diretta televisiva, una sceneggiata organizzata da coloro che mi avevano accusato in precedenza, dalla stazione televisiva KTN e da sua mamma. Si, sua mamma si are lasciata accecare dalle promesse di ricchezza, sperava forse di riuscire ad uscire da una vita squallida. G***** non era riuscito a resistere alle pressioni della mamma, che ha sempre amato molto pur conoscendo il tipo di vita che faceva. Dopo tutto è la persona che lo ha messo al mondo e fatto crescere. Il papà non sa chi sia.
Per dopo una settimana, attanagliato dal rimorso, era andato dalla polizia a raccontare tutto: come la mamma lo avesse psicologicamente forzato, come lo avevano istruito fin nei minimi dettagli su quello che avrebbe dovuto dire. Dopo circa sei mesi ha trovato il coraggio di cercarmi e di chiedermi scusa. Ma non ha avuto il coraggio di tornare a Kivuli. Temeva che gli amici di un tempo lo avrebbero insultato e cacciato. La mamma aveva cambiato casa, e lui aveva cambiato scuola, andando in collegio in una scuola a cinquanta chilometri da Nairobi. Durante le vacanze veniva a trovarmi, e mi parlava sempre del suo desiderio di venire a far pace con i vecchi amici di Kivuli, ma poi non trovava mai il coraggio per farlo.
Lo scorso luglio G***** ha compiuto 18 anni, ed ieri sera tardi, pochi minuti prima che iniziasse la Massa della Natività, è arrivato di sorpresa al cancello di Kivuli. Agli inizi era un po timoroso, poi ha trovato solo volti amici e sorridenti, ed ha preso il suo posto in mezzo agli altri. Tutti lo hanno ricevuto con semplicità, come se non lo vedessero dal giorno prima. E’ venuto al cenone natalizio – riso e patate bollite, spezzatino di manzo e le torte più economiche del supermercato tagliate e metà e riempito di marmellata – e poi è andato a dormire nel suo vecchio dormitorio.
Stamattina, quando mi sono messo in azione presto per preparami ad andare a celebrare Messa coi bambini di Kibera, era da solo, seduto sulla panchina di cemento appena fuori dalla porta del dispensario. Mi ha guardato serio e pensieroso, e senza enfasi, con semplicità, ha constato: Kivuli è il posto più bello che abbia mai conosciuto.

Marcia per i Diritti dei Bambini – March for Children’s Rights

Negli ultimi mesi a Nairobi Koinonia ha organizzato alcuni eventi importanti, ma io non son riuscito a tenere il passo. Provo a dar uno sguardo a ritroso, cominciando dall’ultimo evento la Marcia per i Diritti dei Bambini, che abbiamo tenuto a Kibera lo scorso sabato 11 dicembre.

La marcia è stata la conclusione di un lungo percorso iniziato lo scorso luglio. I nostri educatori di strada hanno tenuto oltre una ventina di workshops, coinvolgendo 200 educatori anche di altre ONG, e oltre mille bambini. Durante i workshops si sono aiutati i bambini a riflettere sulle loro situazioni e sui loro diritti e doveri, dando loro la possibilità di esprimersi attraverso il disegno, la recitazione e il canto. La Marcia, che ha attraversato Kibera da una capo all’altro e che ha visto la partecipazione di quasi duemila bambini e giovani, è stata quindi solo l’atto conclusivo.

Il finanziamento che abbiamo ricevuto dalla Fondazione Cariplo, con l’intermediazione del Centro Helder Camara di Milano, ci ha permesso anche di aggiornare il sito web che elenca tutte le comunità, parrocchie, organizzazioni che fanno interventi a favere dei bambini di strada a Nairobi, e di produrre un video, che dovrebbe essere disponibile entro fine mese.

Per l’occasione abbiamo creato una nuova entità, KAP (Koinonia Action for Peace), con un bellissimo logo – il logo di Koinonia in negativo sui colori dell’arcobaleno. L’anno prossimo vorremmo fare di questa educazione ai diritti un processo permanente per tanti bambini non solo a Kibera ma a Riruta, Kawangware, Nkaimurunia, incominciando fin da gennaio.

Diciamo che la marcia è per i diritti dei bambini, ma parliamo sempre anche congiuntamente di doveri, come “tu hai il diritto di mangiare, ma hai anche il dovere di non sprecare il cibo e di condividerlo quando ne hai troppo…” I bambini capiscono questo immediatamente e si sentono responsabili. Un esempio sono i due fratellini nella foto qui sotto che hanno fatto tutta la marcia tenendosi per mano, il più piccolo con una mano sul cuore in segno di impegno e responsabilità.

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