L’altro ieri, 16 giugno, i giovani delle nostre case hanno partecipato alla Giornata del Bambino Africano, da protagonisti. A Ongata Rongai le bambine della Casa di Anita e i bambini di Ndugu Mdogo Home e Tone la Maji. A Kibera quelli di Kivuli, Kvuli Ndogo e Ndugu Ndogo Rescue.
Non sono mai stato un fanatico delle “giornate del …”, ma questa in Africa è sempre più sentita, ed è un’occasione per organizzare incontri di preparazione che possono incidere più della celebrazione pubblica in se stessa, specialmente per noi, che lavoriamo in stretta unione con le famiglie estese di provenienza dei bambini. Quest’anno il tema era proprio “i bambini di strada”.
Il 16 giugno è stata proclamata giornata del bambino africano nel 1991, dall’Organizzazione dell’Unità Africana, per ricordare che in quel giorno del 1976 quasi diecimila ragazzini di Soweto, in Sudanfrica, scesero in strada per protestare contro il razzismo, l’”apartheid”, praticato in quel paese. La polizia sparò su di loro, e, in due settimane scontri, oltre cento bambini e ragazzini furono uccisi. Io allora stavo studiando inglese a Los Angeles, nella parrocchia nera di Watts, e ricordo l’incredulità mia, ma anche la rassegnazione dei nostri parrocchiani a che un fatto simile potesse succedere, ed essere fra le notizie minori, subito eliminate dalle prime pagine. Oggi negli USA c’é un presidente “nero” – che non sta facendo meglio ma neanche molto peggio dei suoi ultimi predecessori – e in Sudafrica la generazione dei bambini he furono uccisi è al potere – anche loro con risultati non esaltanti.
Ma nonostante tutte le delusioni i bambini ci stimolano a sperare in un futuro migliore.
Vi metto qui sotto qualche foto presa a Kibera. Prima i bambini di Ndugu Mdogo che aprono la marcia, poi Andrew che fa il discorso ufficiale, e perfino il piccolo Junior, in strada fino a due mesi fa, che ha preso parola ad ha concionato la folla come se non avesse fatto altro nei suoi meno di sei anni di vita.
Life
Giornata del Bambino Africano
Iniziative per l’Estate
In luglio, agosto e settembre Koinonia organizza a Nairobi e a Lusaka i campi di lavoro di Amani, de La Goccia e di altri gruppi che ci hanno contattato, scouts e parrocchie.
Ci saranno poi due iniziative nuove e molto interessanti. Una Summer School organizzata dall’Università Cattolica, con residenza in Shalom House e la collaborazione di alcuni nostri operatori video, e un campo di studio sulla pace, organizzato insieme ad Amani, Mani Tese, Tavola della Pace.
Metto qui sotto i pieghevoli delle due iniziative, e invito eventuali interessati a contattare direttamente le persone indicate.
San Daniele Comboni
1) Qual è stata, secondo lei, la grande novità che Comboni ha introdotto nel modo di fare missione e di guardare agli altri?
Personalmente non vedo San Daniele Comboni come un grande innovatore delle metodologie missionarie. Le idee che ha proposto e che ha cercato di mettere in pratica sono sostanzialmente quelle degli altri grandi missionari dello stesso periodo storico. E lui leggeva molto e mutuava di quanto si scriveva soprattutto nel mondo missionario francese. Ha messo l’accento su alcuni aspetti, come il salvare l’Africa con l’Africa, l’importanza della donna, delle suore, come protagoniste della missione, ma mi pare che in questo fosse nel solco dei grandi missionari suoi contemporanei, come il fondatore della Società delle Missioni Africane di Lione, Melchior de Marion Bresillac, il quale già diceva ai suoi missionari di procedere immediatamente alla preparazione di un clero locale, cosi che dopo pochi anni non sarebbe più stato necessario mandare missionari… Per non parlare di San Justino de Jacobis, che diversi anni prima del Comboni aveva una visione modernissima della missione. Spesso, nel Comboni come negli altri missionari del tempo, più che di metodologie, si trattava di visoni necessarie a tener viva la speranza di fronte alle orrende difficoltà fisiche che la missione in Africa comportava a quei tempi. Basta visitare il cimitero dei missionari Spiritani a Point Noire, oggi Congo Brazzaville, dove sono sepolti decine di missionari, padri e suore, che morirono neanche o poco più che trentenni, dopo pochi mesi o pochissimi anni dal loro arrivo in Africa, per rendersi conto di quanto fosse difficile, eroica, la missione di allora. C’era bisogno di grandi visioni per poter andare avanti, credendo fermamente che il fallimento e la croce sono solo un passaggio per arrivare alla risurrezione. In questo contesto Comboni sogna la salvezza dell’Africa con L’Africa, vede “la perla nera”, la chiesa africana come una splendida realtà. Ma non si può parlare di metodologia. Anche il suo Piano per la rigenerazione dell’Africa del 1864 è una visione, una grande visione.
Ma questo non inficia minimamente la grandezza e la santità di Daniele Comboni, perché non stanno nei nuovi metodi missionari che avrebbe introdotto, ma, evangelicamente, nel sua smisurato amore per le persone Africane. Un amore che lo ha portato a spendere la vita completamente al loro servizio, fino alla morte. L’ultimo anno della sua vita è stato tutto un confronto con la morte. Sapeva di essere alla fine, ma non si è mai fermato, non ha mai smesso di dedicare tutto il suo tempo al servizio della gente che amava. Nessuno degli altri grandi fondatori degli istituti missionari dell’ottocento è morto in Africa. Lui ci è morto perché di fronte al fallimento dei suoi “metodi”, all’incomprensione e difficoltà, alle malattie che decimavano i missionari e anche le sue forze, non si è mai arreso. Il suo amore per le persone africane non si è mai fermato di fronte a niente, neanche alla morte. Questa per me è il motivo della sua santità. Insisto ad usare “le persone africane”, e non l'”Africa”, Il grande missionario protestante Davide Livingstone, per esempio, è morto in Africa, ma Livingstone amava l’Africa anche per i suoi aspetti geografici e la maestosa bellezza che si incontra ad ogni passo in questo continente. Cosi è morto in una palude vicino al lago Bangwelo, in quella che oggi è la Zambia, mentre cercava le sorgenti del Nilo, e voleva coronare la sua attività di esploratore. Questo per il Comboni sarebbe stato inconcepibile. Per lui lo scopo delle sua vita, l’amore che lo muoveva, era la gente, perché la gente potesse conoscere Gesù e il Vangelo. Anche se la sua visione della gente e delle cultura e delle religioni dall’Africa era quella sostanzialmente negativa che tutti avevano in quel tempo. Ma l’amore, e nel caso del Comboni, un amore testardo a invincibile, superava anche questi aspetti limitati dalla cultura del tempo. In sintesi per me il Comboni è un grandissimo santo perché ha dedicato la sua vita a Dio e al suo prossimo, in particolare le genti d’Africa, donandosi a loro fino alla morte. Non c’è amore più grande che dare la vita.
2) Comboni nel suo stile di vita e nei suoi Scritti è stato una profeta della vita missionaria. Che incidenza ha avuto questo fatto nella sua vita personale?
Ho pensato spesso al Comboni nei momenti delle scelte più difficili della mia vita. E l’ho preso come modello di amore per la gente. Comboni amava l’istituto di cui faceva parte, quello di don Nicola Mazza, ma quando si è trattato di scegliere fra l’Istituto e le genti d’Africa dalle quali si sentiva chiamato, ha scelto quest’ultime. Non si è mai scoraggiato, se non per momenti, di fronte alle difficoltà fisiche e morali, ai tradimenti delle persone alla quali aveva dato fiducia e sostegno. Quando si sentiva sicuro di aver fatto una scelta motivata dal desiderio di servizio, andava avanti fino alla fine. Io non ho avuto difficoltà neanche lontanamente paragonabili alle sue, ma certamente quando mi son trovato di fronte alla mie relativamente piccole difficoltà anche la sua testimonianza e la sue presenza, mi hanno aiutato a seguire a continuare il cammino portando le mie piccole croci.
3) Comboni è sempre stato al fianco dei più deboli, povero tra i poveri. Come pensa di aver vissuto questa caratteristica nel suo essere missionario?
Non dobbiamo esagerare con la retorica del povero tra i poveri. Comboni prendeva tutte le precauzioni necessarie per evitare le malattie. e voleva che lo stile di vita dei missionari – cibo a cure mediche – non ne minasse il lavoro. Soprattutto a qui tempi, l’Africa obbligava fin troppo spesso a vivere in situazioni difficili, che non era necessario andare a cercarsele! Basti pensare che i primi suoi missionari, subito dopo la sua morte, sono passati attraverso l’esperienza della schiavitù. Ma non se la sono certo cercata, l’hanno accettata come inevitabile conseguenza di essere rimasti con la gente.
Non riusciremo mai a condividere radicalmente la povertà della gente, alle fin dei conti restiamo sempre dei ricchi. Se ci ammaliamo seriamente magari alcuni di noi vorrebbero anche andare a farci curare nel dispensario o nell’ospedale locale, ma i superiori, giustamente, lo obbligherebbero a rientra in Europa. E questo ci pone nell’impossibilità di essere radicalmente poveri come lo è la maggioranza della nostra gente. La nostra povertà è quella del cuore, di restare in comunione di destino con la gente anche nei momenti più difficile. In questo abbiamo avuto anche dopo il Comboni una serie di missionari, per lo più dimenticati, che ci hanno dato esempi chiarissimi. Quando penso alla povertà io penso alla tomba di un fratello comboniano, Remigio Zappella, che ho visto a Tonga, sul Nilo, un posto che ancora oggi è invivibile per le mosche di giorno, le zanzare di notte, il caldo, l’umidità. Questo comboniano ci h vissuto all’inizio del secolo scorso per quasi trent’anni, interrotti solo da un viaggio in Italia di un anno. E ci è morto, e di lui non sappiamo quasi niente, non ha fatto scelte clamorose. E’ semplicemente restato a servire un popolo, gli Shilluk che non ha cominciato ad accettare il cristianesimo se non dopo due decenni dalla sua morte.
4) Cosa significa oggi “Salvare l’Africa con l’Africa”?
Significa sempre credere nelle potenzialità dell’Africa. Significa essere presenti in spirito di attenzione e servizio per lasciare che gli altri crescano, significa annunciare il Vangelo e lasciare che gli africani lo vivano integralmente ma anche in modo genuinamente africano, senza voler sempre inscatolare tutto e tutti nei nostri schemi.
Easter – Pasqua
Ieri sera invece i residenti di ogni casa, di ogni famiglia, sono andati a celebrare la Resurrezione nella parrocchia più vicina, a parte i ragazzi di Kivuli, che hanno celebrato in casa, con me.
E’ stata una celebrazione “intima” rispetto ad altri anni: solo i nostri ragazzi – anche quelli non cattolici e i musulmani sono stati liberi di partecipare, come al solito, e nessuno è mancato – e alcuni pochi amici che vivono vicini a Kivuli.
Al momento delle preghiere dei fedeli, molti si sono ricordati di essere stati battezzati in parrocchia negli anni precedenti durante la Veglia Pasquale, ed hanno pregato per i nuovi cristiani che in tutto il mondo in questa notte hanno finito il cammino catecumenale e sono entrati a far parte della Chiesa. In Kenya questa notte qualche decina di migliaia di cristiani adulti si sono aggiunti alla chiesa. Con parole semplici un ragazzo di Kivuli ha pregato “per la grande famiglia dei discepoli di Gesù, dove anche chi non ha una casa é amato dagli altri”. Un altro ha detto semplicemente “Signore, fa che tutti i cristiani diano il benvenuto a tutti coloro che entrano nella chiesa questa notte”.
Il dare il benvenuto, l’accogliere, é uno degli atteggiamenti fondamentali di un cristiano. Incomincia come sempre dalle piccole cose. Dall’ andare a stringere la mano allo straniero che vediamo arrivare con sguardo sperduto alla Massa domenicale nella nostra parrocchia, a ascoltare chi ha bisogno di sfogarsi, a organizzare interventi umanitari per il sostegno ai migranti e rifugiati.
Ho imparato in Zambia. Tutti i partecipanti alla preghiera domenicale – a volte è solo una preghiera perché il prete per la celebrazione eucaristica non c’è – si conoscono, si salutano all’entrata scambiandosi parole di benvenuto e qualche notizia sulla famiglia, e se ci sono di volti nuovi li si avvicina, li si saluta, ci si informa sulla provenienza, e poi al momento degli annunci, dopo la comunione, li si presenta a tutti. Ognuno si deve sentirsi benvenuto, senza forzature. Uscendo dalla chiesa i nuovi arrivati saranno avvicinati da tutti che li saluteranno con loro nome.
Nel Vangelo abbiamo una lunga lista di atteggiamenti diversi di fronte a Gesù. Maria e Giuseppe lo hanno accolto con amore incondizionato, ma poi fin dalla nascita altri lo hanno rifiutato. Lui invece ha sempre accolto chiunque lo abbia cercato. Le prime comunità cristiane descritte negli Atti degli Apostoli ci raccontano di fratelli e sorelle che si ritrovano in un clima di accettazione e di affetto, qualunque fosse la loro origine. L’idea di dare il benvenuto non solo ai fratelli nella fede, ma a tutti, pervade il Nuovo Testamento. I due discepoli che vanno ad Emmaus scoprono che lo straniero non è altri che il Risorto, ma non se ne sarebbero accorti se non lo avessero ricevuto nella loro casa. San Paolo ci ricorda che il dare il benvenuto allo straniero é un dovere da non dimenticare mai.
Noi diamo il benvenuto e abbracciamo gli altri perché sappiamo che Cristo ci ha dato il benvenuto senza nessun nostro merito. Chi é accolto deve capire che che amiamo lui o lei, con i suoi doni, i suoi problemi e le sue necessità, non stiamo mettendo in pratica un comandamento, non stiamo neanche facendo un calcolo economico. E’ vero per esempio che le proiezioni statistiche e il più elementare buon senso ci dicono che senza gli immigrati l’Europa morirebbe di vecchiaia entro una generazione. Ma i cristiani li accolgono in primo luogo perché sono persone umane, non perché sono una risorsa economica..
Benvenuti quindi a braccia e cuore aperto ai nostri fratelli e sorelle che la notte scorsa sono venuti a rendere più forte la nostra fede. In stragrande maggioranza sono Africani e Asiatici, in stragrande maggioranza sono poveri. La Chiesa per fortuna non é legata dalle pastoie dei confini, dei passaporti, dei permessi di soggiorno. Qui nessuno è straniero. Chi non ci è fratello nella comune fede, lo é nella comune figliolanza da Dio.
Buona Pasqua.
La Croce – The Cross
Quando la croce non è presente nella nostra vita, magari ci illudiamo che quando la porteremo, perché la dimensione croce entra prima o poi nella vita di tutti, saremo sicuri di ciò che faremo, che la porteremo, magari piangendo, ma con la nostra dignità intatta, le convinzioni interiori granitiche. Saliremo la montagna guardano verso l’alto, verso l’infinito
Poi il momento viene. La croce magari è più piccola di quanto ti aspettassi, ma sei sul fondovalle, non vedi dove stai andando, hai perso la strada. Quanto manca alla meta? Non ne hai idea, e la stanchezza fisica ti impedisce di ragionare. Ti vien voglia, e ti sembra possibile, di abbandonare tutto e di andartene via. Ma sei intrappolato in un’impresa insensata. Poi, chissà come, chissà da dove ti viene la forza, riesci a rialzarti e rimetterti in cammino. E i dubbi riprendono: sarà la direzione giusta? Ma devo proprio portare tutto questo peso? Ma perché non mi crocifiggono subito risparmiandomi tutta questa strada?
Se, nel più profondo non credessi nella comunione con Lui che ha sofferto sulla croce, tutto ti sembrerebbe inutile e sprecato. Invece sai che tutto in Lui diventerà Luce, Pienezza, Felicità.
KOINONIA: SELF-PORTRAITS BY NAIROBI STREET CHILDREN
Trovate tutto nel sito
http://portraitsofnairobi.wordpress.com/
Commentare è Difficile
La cronaca politica – o criminale? – italiana che mi capita di leggere sembra quella di un paese che non conosco, o non conosco più. Si resta indignati, ma poi? Poi, quando si va a votare, certi personaggi, come Speroni e Castelli – lecchese, ahimè – vengono rieletti. Allora davvero è un paese ch non riconosco più. Non ho parole. Ho letto molti commenti alle parole di Speroni e di Castelli, Quello dei cristiani di Busto Arsizio che allego é forse un po retorico. Ma bisogna riconoscere che è difficile commentare idiozie criminali come quelle che dicono quei due.
Lettera ai cristiani di Busto della Comunità Cristiana di base – 14.04.2011-1
Il Perdono
Nella scuola superiore dove ogni tanto mi chiamano per parlare agli studenti e celebrare una Messa ho notato che i ragazzi non hanno idea di che cosa sia la confessione. Allora organizzo una catechesi di un paio d’ore. Incomincio chiedendo quali sono secondo loro i valori che Gesù ci ha insegnato. Ne fanno un elenco completo e molto partecipato, si sente che molti di loro hanno capito il messaggio del Vangelo: amore per il prossimo, pace, giustizia, perdono, misericordia, verità, servizio, …. Devo interromperli perché non diventi troppo lungo. Ma l’intervento più inaspettato è quello di Joseph, un sedicenne che frequenta la prima superiore. Joseph, probabilmente per una poliomielite, ha una gamba molto debole, che a volte cede, e quindi si aiuta con una stampella. E’ sempre allegro, e prende sportivamente il fatto che ogni tanto ha bisogno dell’aiuto dei suoi compagni di classe per muoversi e per non cadere. Si fida anche molto di loro, e c’è sempre qualcuno pronto a sostenerlo.
Mentre facevamo l’elenco, subito dopo che uno studente ha detto che il valore più importante è l’amore per Dio e per il prossimo, Joseph alza la mano e, prima ancora di aver ricevuto il permesso di parlare (inusuale, perché un Africa anche i giovani danno molta importanza alla parola e rispettano il diritto degli altri a parlare, osservando semplici regole di dialogo, insomma non si comportano come nei dibattiti televisivi in Italia) dice “la gioa!”. Gli chiedo perché. Mi risponde senza esitazione che un cristiano é sempre contento perché il Signore è risorto, è vivo, ci è vicino. Mi colpisce una risposta cosi profonda e esposta in un modo molto sentito, e la sottolineo perché tutti la capiscano. Poi continuiamo con l’elenco e con la catechesi. Le loro sollecitazioni fanno emergere come la confessione, oltre a donarci il perdono di Dio, sia importante per mantenerci in pace con gli altri, e per continuare a camminare nella direzione giusta. I Masai, dice uno di loro, sanno dove andare a cercare pascoli sufficienti per le loro mandrie anche durate la stagione secca. Se sbagliano direzione mettono a repentaglio la vita degli animali e la loro stessa a vita. Anche noi dobbiamo verificare continuamente dove stiamo andando. Ci stiamo muovendo nel solco della parola di Gesù o nel perseguimento dei valori del mondo?
Dopo una settimana sono in confessionale, cioè in sala professori. Esce un penitente e ne entrano due, uno dei quali è Joseph. Penso mi vogliono avvertire dire che mi stanno aspettando per la Messa. No. Si siedono entrambi sulla panca di fronte a me, e Joseph dice “ci vogliamo confessare insieme perché ci eravamo antipatici, ci facevamo dispetti, a volte dispetti veramente cattivi, ma abbiamo capito che era una cosa sbagliata e per di più anche stupida”, poi prima che mi riesca di dire qualcosa ognuno dei due fa una confessione sincera e completa, di fronte all’altro. Una confessione da ragazzi di quell’età, ma molto onesta , personalizzata, sentita. Do penitenza e assoluzione individuale mentre fra di me cerco di analizzare la stranezza di questa confessione “pubblica” e se ci sia qualcosa che ne infici la validità. Ma sono entrambi evidentemente liberi e contenti di aver fatto pace. Successivamente mi viene un dubbio, parlo loro dopo la Messa, e capisco che nessuno dei due è cattolico, appartengono a due diverse chiese cristiane, dove la pratica della confessione non esiste. Il perdono però lo sanno praticare.
&
Una statistica ufficiale ci ha fatto sapere, se ne avessimo avuto bisogno, che il costo del cibo nei mercatini di Nairobi dove si vendono le cose di uso quotidiano è cresciuto del 50 per cento in un anno. Uova, carne, ma anche patate, cavoli, carote, cipolle, sukuma wiki, tutto è vertiginosamente aumentato. Invece i salari sono rimasti gli stessi. Eppure lo stesso ufficio di statistica poche settimane fa annunciava solennemente che l’economia del Kenya negli ultimi due anni ha registrato una crescita di quasi il 7 per cento annuo. Ma chi ne beneficia?
Chirurgia Povera e Vita Piena
In viaggio verso i Monti Nuba (Nord Sudan secondo la geografia politica, Sud Sudan secondo la geografia etnico-culturale) mi son portato due libri sul Sudan di recente pubblicazione in Italia. Non so chi sia proprietario della casa editrice, ma son felice che ci siano ancora editori che pubblicano lavori su temi cosi “secondari”. Se si leggesse di più, cominciando dalla scuola, sui popoli “altri”, si allargherebbero anche i nostri orizzonti mentali, culturali e politici.
“Sudan: Un Conflitto Dimenticato. La lotta del popolo Nuba per non scomparire” di Andrea Bartolini, L’Harmattan Italia, 2010
Per i pochi che si interessano da qualche tempo delle attività di Koinonia e di Amani, questo è un tema ben conosciuto. Bartolini ne presenta una sintesi storico-politico stringata ma precisa e che aiuta a cogliere gli elementi più importanti di un quadro estremamente complicato, inserendo la questione Nuba nella storia del Sudan, partendo dal tardo ottocento fino ad oggi.
La conclusione di Bartolini resta attuale anche oggi, dopo che il Sud Sudan ha manifestato con un referendum pacifico la sua volontà di indipendenza dal Nord, che diventerà ufficiale il 9 luglio prossimo con la nascita della Repubblica del Sud Sudan. Decisione che sancisce definitivamente l’appartenenza dei Monti Nuba (ufficialmente South Kordofan) al Nord Sudan, perché cosi previsto dall’accordo di pace che il Sud ha siglato con il Nord il 9 gennaio 2005.
“Proprio la possibile secessione del Sud, rappresenta un fattore di tensione per la leadership Nuba, perché ciò vorrebbe dire trovarsi isolati all’interno di un’amministrazione che fino a qualche anno fa si è macchiata di atroci delitti e politiche da diversi autori definite genocidarie, senza poter sperare nell’appoggio degli alleati meridionali.
Ancora una volta, i Monti Nuba sembrano essere stati trattati come merce di scambio nel confronto fra Khartoum e Juba, e la situazione non potrà che peggiorare senza una forte volontà di democratizzazione e un impegno serio e puntuale per risolvere le cause che sono state alla base della sollevazione in queste zone, prime fra tutte la depredazione delle risorse naturali e umane e la politica di arabizzazione”.
In altre parole, o il Nord Sudan diventa uno stato democratico moderno e riesce ad amministrare le diversità etniche e culturali come una ricchezza piuttosto che come una minaccia, o continuerà a frammentarsi fino a scomparire. Una speranza che Bartolini non ha prevista – nessuno l’aveva prevista – potrebbe venire dalla “rivoluzione araba” che sembra essere fallita in Libia ma potrebbe avere possibilità di successo a Khartoum, pur in una contesto ben diverso da quello della Tunisia e dell’Egitto.
Il libro di Bartolini è il risultato di una seria ricerca storica e politica, ed è ciò che ci si aspetta da un giovane che si interessa d’Africa da pochi anni. Invece il libro di Giuseppe Meo – “Africa Malata. Memorie di chirurgia povera in Sudan”, della stessa casa editrice, é il frutto di una vita appassionatamente spesa a fianco dei malati negli ospedali più dimenticati dell’Africa. L’ho letto con attenzione perché Meo l’ho conosciuto vent’anni fa e siamo diventati amici, pur incrociandoci troppo raramente. Vi ho trovato pagine che di grande interesse sui principi della chirurgia povera e sulla connessione fra povertà e malattia, che mi hanno confermato la visione che ha sostenuto questo esperto di “chirurgia povera”. Ma sopratutto vi ho trovato, espressa con parole quotidiane e molto misurate, una profonda spiritualità.
Si, il titolo non deve ingannare, questo è un libro di spiritualità. Fra le righe emerge una visone del mondo che è profondamente cristiana, e un senso della propria professione – che sia la chirurgia od altro non importa – come autentico servizio agli altri. In ogni pagina il lettore trova spunti che costringono a riflettere. Mi rendo conto di quanto deve essere stato difficile per lui, sempre riservato, scrivere un testo cosi, mettendo insieme le note che ha raccolto nel corso dei sui viaggi, e nello stesso tempo facendo capire le motivazioni del suo agire.
E’ un libro da raccomandare ai giovani che cercano la proprio strada e vogliono realizzare la pienezza di vita.
Mentre leggevo questi due testi ho viaggiato per i Monti Nuba e sono sulla via del ritorno. Ho visto tante scuole, tanti giovani, (allego qui sotto una foto fatta nella scuola he era di Kerker, adesso trasportata a Sarbule) ho sentito mille opinioni e mille promesse di impegno al servizio della propria gente. Ma cosa succederà durante e dopo le elezioni previste per la prima settimana di maggio?? Chi si impegnerà per un cambiamento positivo e chi si adatterà a qualunque cambiamento avvenga per amore di vita comoda? In incontrato uno dei figli di Philip Ghaboush, prete anglicano a padre del risveglio dell’identità Nuba, fondatore nel 1965 del General Union of the Nuba (GUN). Mi dice: Nei prossimi mesi ci saranno dei passaggi decisivi per valutare il progresso del Sudan verso la modernità. La proclamazione dell’indipendenza del Sud Sudan sarà un atto importante. Ciò che avverrà qui sui Monti Nuba dipende solo da noi. O diventiamo padroni del nostro destino nei prossimi dieci anni, o scompariremo come Nuba. I nostri figli allora non sono non saranno più Nuba, ma si vergogneranno di essere nati da noi.
Un Angelo in Incognito
Ho un amico, A., che vede gli angeli. A volte anche li fotografa, e lì incominciano i problemi fra di noi, perché se non ho ragioni per metter in dubbio le visioni che mi racconta, le sue foto mi lasciano più scettico. La mia formazione da perito meccanico e da fallito aspirante fotografo mi fa vedere una lampadina sovraesposta dove lui vede una presenza angelica. Dove lui, in una foto fatta nella nostra casa di Ndugu Mdogo a Kibera vede il dito di in angelo che indica il cielo e sullo sfondo il volto di un altro angelo, io vedo una combinazione di errori di messa a fuoco e di esposizione per cui il ditino che Wallace stava per mettersi nel naso è risultato chiarissimo mentre la sciabolata di sole sul viso di Eliud circondato da volti neri nella stanza buia gli dà effettivamente un aspetto evanescente, eventualmente però più simile ad un fantasma che ad un angelo.
Settimana scorsa A. mi ha scritto, mettendo altri due amici in copia, di aver visto in una trasmissione televisiva in Italia due persone che dicono di aver fotografato degli angeli durante un incidente aereo, poi finito bene. Adesso A. li vuole contattare per comparare le foto. Uno degli amici in copia, B., che è un vero mistico e che scrive bellissime poesie, gli ha risposto: “io lascerei perdere le “immagini” del sacro. Nei suoi bellissimi scritti San Giovanni della Croce (insieme ad altri grandi mistici) ci suggerisce come ci si debba liberare delle manifestazioni “sensibili” di Dio, false o autentiche che siano. Penso che l’unica cosa interessante sia la ricerca di Dio nel cuore, dove non vi è nulla di eclatante ma solo un rapporto profondo di amore silenzioso, oscurato da tenebre che lo custodiscono.”
Partecipo a questo scambio di corrispondenza in email mentre sono a Lusaka., in visita a Mthunzi, e, pur nel mio scetticismo, il pensare agli angeli ha stimolato una riflessione sulla vera natura di Noah. Che é un ex bambino di strada come tanti altri, che non emerge in nessun modo, solo un po più timido e obbediente. E’ arrivato da noi lo scorso giugno, avrà sei anni adesso, ed ha cominciato a frequentare la prima elementare all’inizio di quest’anno. Una caratteristica che lo distingue è di essere l’unico bambino africano che ho conosciuto in quasi quarant’anni – il mio primo viaggio in questo continente ormai risale al luglio 1971 – che non balla, non canta, non suona il tamburo, non batte il tempo in nessun modo. Ma la caratteristica più straordinaria è il sorriso.
Noah ha sorriso trasognato, interrogativo, sorpreso, ma pieno di dolcezza e di comprensione. Che non ti prende in giro, non giudica. E’ impregnato di una sapienza che viene da lontano ed ha una sfumatura di distacco, a volte di scetticismo. Che non ti mette a disagio, anzi, ti fa sentire benvoluto . Sembra che dica, mentre si mette in disparte e guarda gli altri che ballano improvvisando un ritmo su una pentola rovesciata. “ma guarda questi simpatici mattacchioni, chissà perché si divertono a fare sta cosa, comunque sono proprio bravi”. Altre volte si guarda intorno con un sorriso perplesso, come si domandasse “ma io qui, come ci son capitato?”
A. mi ha contagiato, ed ho cominciato a pensare che Noah sia un angelo in incognito. Ma quando ho tentato di fotografare quel suo sorriso più enigmatico di quello della Gioconda non sono mai riuscito a catturarne il mistero. In foto diventa un sorriso qualsiasi. Al contrario delle foto di A., dove si vede ciò che non esiste, le mie non riescono a catturare ciò che è visibile a occhio nudo. Ve ne metto qui sotto una delle tante che gli ho fatto in questi giorni, sempre insoddisfatto per non essere riuscito a cogliere le misteriose e mutevoli qualità del suo sorriso.
La sera, ogni volta che rientro a Lusaka, godo di uno straordinario privilegio; sono l’unico spettatore di uno spettacolo che i bambini di Mthunzi fanno solo per me. Mettono una comoda sedia al centro dello spazio che usano per questo scopo, io mi ci siedo, e tutti vanno in scena. Lo staff non assiste perché ha visto questi spettacoli centinaia di volte. I bambini si scatenano e fanno cose straordinarie. A me sembra sempre che questi spettacoli siano immensamente più belli di quelli che fanno davanti agli altri, perfino di quelli che li ho visti fare in Scozia, durante una delle loro uscite internazionali.
Da quando c’è Noah, il rito cambia, perché anche lui fa lo spettatore. Si siede in terra, davanti a me,e usa i miei stinchi come schienale. Ogni tanto si gira e mi guada in su, con un sorriso che vuol dire “ma ti rendi conto di quanto siano bravi questi miei fratellini?”
In una cosa Noah non assomiglia per niente agli angeli. A tavola mangia fettone di polenta con manciate di pesciolini secchi che a me manderebbero in catalessi. Forse già mentre contemplava il volto di Dio dall’inizio dei tempi, pensava ad una pausa con “pulenta e pesit”, come si usava a Lecco, e adesso che ne ha l’occasione non si tira indietro. Non lo so, non mi faccio domande di spiritualità o di teologia, mi dico solo che – sia un angelo in libera uscita o un bambino con anni di fame arretrata – io ho la responsabilità di nutrirlo. Se è a Mthunzi é perché doveva venire qui.
Ieri notte, dopo lo spettacolo, ho fatto un sogno. Era la fine del mondo, e mentre mi avvicinavo agli angeli incaricati di discernere gli eletti, ho pensato che non fossero molto simpatici, e che poi magari erano fra quelli che si divertivano a giocare a nascondino nelle fotografie di A. Un gioco un pò sciocco, a dir poco. Ho fatto male, perchè evidentemente mi hanno letto nel pensiero, mi hanno afferrato e buttato come un sacco là dove c’è pianto e stridore di denti. Mentre cadevo nel baratro, due manine, odorose di pesce secco, mi hanno afferrato e portato al cospetto di Dio. E Noah, con la sua vocina intercedeva per me “Perdonalo, Padre, è stato davvero per tanti un rompiscatole non da poco, ma con me è stato buono, mi ha dato tante buone cose da mangiare, non dimenticherò mai la sua pulenta e pesit”. E Dio ha sorriso e mi ha preso a riposare nelle Sue Mani.