I bambini che Jack raccoglie dalle strade di Kibera hanno sensibilità, immaginazione e creatività come tutti i bambini del mondo. Forse di più. La vita dura, senza pietà, che hanno vissuto dà loro ali per volare più in alto. Sentirli raccontare le loro storie, proporre le loro riflessioni, hanno donato momenti indimenticabili ai tanti amici che in questi anni hanno visitato Ndugu Mdogo.
Marita e Aija, finlandesi esperte produttrici di video che avevano già lavorato con bambini in contesti diversi, hanno proposto ad alcuni bambini di Kibera di raccontarsi davanti ad una videocamera, illustrandosi anche con immagini fatte da loro. Hanno fatto un montaggio semplicissimo e, in un documentario di trenta minuti, sedici ragazzini aprono uno spiraglio sulle loro vite. C’è chi si racconta in poesia, chi parla in terza persona, e chi si limita ad un elenco dei suoi viaggi in Kenya. Magari non lo dice, ma li ha fatti aggrappandosi per decine di chilometri sotto gli autobus di linea, le braccia indolenzite per tenere la testa lontana dall’asfalto.
Lo scorso 10 dicembre il video è stato presentato alla Shalom House alla presenza dell’Ambasciatore della Finlandia, dei nuovi Trustees di Koinonia e di un centinaio di ospiti. I protagonisti del video sono stati anche i protagonisti dell’evento. Con grande naturalezza e semplicità – non come i bambini con atteggiamenti da adulti che mi è capitato di vedere in qualche trasmissione mentre ero in Italia – hanno ricevuto e intrattenuto gli ospiti anche con i loro canti. Il video si chiama Story Yangu ya Kibera (La mia storia da Kibera), avrei voluto allegarvi un trailer ma è troppo pesante. Potete comunque visitare il blog che Marita ha tenuto durante i quasi due mesi di permanenza, dove ci sono anche tante foto. http://storiyanguyakibera.wordpress.com/
Perché siamo cosi interessati a conoscere le storie degli altri? Giornalismo, letteratura, tutta l’arte sono il racconto di storie. Le storie ci aprono al mondo degli altri. L’ incanto con cui un bambino ascolta una favola, o i miti raccontati dagli anziani, sono un’educazione alla sensibilità che poi permette di capire gli altri al di là di ciò che gli occhi vedono e che le orecchie sentono. Ci aprono alla vita, nostra e degli altri, e al suo significato profondo. Non capiremo mai tutto fino in fondo, cosi come non riusciremo mai a capire e spiegare tutte le dimensioni che una parabola del Vangelo ci fa intuire. Le storie degli altri ci avvicinano, più delle filosofia o della teologia, al mistero della nostra umanità e a mistero di Dio, e con esse capiamo meglio anche il senso della nostra storia personale. Capiamo lentamente, crescendo, che non siamo il centro del mondo, ma che la nostra vita appartiene al contesto degli altri.
Oggi, Natale, tutti i bambini di Kibera, Riruta e Kawangware che quest’anno sono entrati in contatto con gli operatori di Koinonia, sono qui con noi, a Kivuli. Un centinaio di vite che si incontrano, si raccontano e si ritrovano intorno alla storia del Bambino nato a Betlemme duemila anni fa. Anche Lui, discretamente, con pazienza e amore, come Lui sa fare, è entrato a far parte della nostra storia, la story yangu ya Kibera.
Life
Story Yangu ya Kibera
Stephen Maningwe
Un’altro lutto, questa volta a Lusaka. Stephen Maningwe, 16 anni, un ragazzo buono e semplice è stato vittima di un incidente stradale. Nel 2007 un maestro della scuola di Tubalange, vicino a Mthunzi, dove vanno tutti i nostri studenti fino alla classe nona, ci aveva parlato del suo caso. Di famiglia poverissima, viveva molto lontano dalla scuola, e ogni giorno doveva fare due ore e mezza di cammino per arrivare a scuola, e la sera altrettante per tornare a casa. Lo abbiamo preso a Mthunzi e non ce ne siamo mai pentiti. Un po timido, non emergeva in nessuna attività, ma partecipava a tutte con entusiasmo e allegria. Sempre la spalla su cui contare. Letteralmente, perché con la sua solida corporatura era la base ideale nelle piramidi acrobatiche. .
Lunedì scorso era a Mthunzi, perché aveva appena completato la classe ottava – in Zambia l’anno scolastico è alla fine – e alcuni degli altri ragazzi invece erano a scuola per gli esami finali. Ha aggiustato un piccolo guasto meccanico della bicicletta del suo amico Richard, studente alla scuola alberghiera, e ha dato una mano ad Edina, la “mamma”, a cucinare il pranzo per tutti. Poi ha detto che approfittando della bicicletta di Richard avrebbe portato a casa i suoi vestiti e scarpe, in anticipazione del Natale a casa, cosi che poi agli inizi delle vacanza, andando a casa a piedi, non avrebbe avuto niente da portare.
Invece sul breve tratto di strada asfaltata è stato urtato da un camion, che è fuggito lasciandolo ai margini della strada. E’ una strada poco frequentata, e chi ha visto l’incidente era lontano e non ha visto la targa del camion. Lo hanno portato all’ospedale ma quando sono arrivati Malama, il responsabile di Mthunzi, e gli altri, Stephen era già morto.
Stamattina lo hanno seppellito a Chingwere, il grande cimitero alle porte di Lusaka. Ci sono troppi ragazzi di Koinonia in Cielo.
NUBA MOUNTIANS – STOP ANOTHER WAR —————————— FERMIAMO UN’ALTRA GUERRA
APPELLO
Mobilitiamoci per i popoli dei Monti Nuba (Sudan)
Fermare il massacro
Il Kordofan Meridionale è stato teatro di ripetute tragedie. I nuba hanno subito aggressioni ambientali, economiche, culturali. Oggi Khartoum sta di nuovo bombardando quelle terre. Nel silenzio del mondo. Serve la reazione di tutti per evitare un genocidio.
Il 10 novembre, un aereo militare Antonov del governo di Khartoum è entrato nello spazio aereo del Sud Sudan per circa 15 km e ha bombardato il campo profughi di Yida, dove oltre 20mila persone nuba – per lo più bambini, donne e anziani – avevano trovato scampo, dopo essere fuggiti dai loro villaggi nello stato sudanese del Kordofan Meridionale, perché vittime di una feroce repressione. Almeno 12 i morti; 20 i gravemente feriti. Le agenzie umanitarie dell’Onu stavano proprio in quei giorni organizzando l’assistenza dei rifugiati per aiutarli a sopravvivere nel nuovo e ostile ambiente.
Questa azione, compiuta nella più totale mancanza di rispetto delle leggi internazionali e contravvenendo a numerose convenzioni internazionali – oggi Sudan e Sud Sudan sono due nazioni indipendenti e sovrane – è soltanto l’ultimo dei numerosi crimini commessi dal regime di Khartoum contro il popolo nuba. Il bombardamento ha avuto luogo poche ore dopo che il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir Mayardit, aveva condannato un precedente attacco, avvenuto il giorno 8, contro un villaggio della contea di Maban (7 morti), e accusato il governo di Khartoum di cercare la guerra.
Quel bombardamento di un territorio straniero è stata l’ennesima prova che nulla fermerà il regime di Khartoum dall’usare ogni mezzo per piegare la volontà dei nuba di affermare il loro diritto all’autodeterminazione. Pare ormai certo che il governo di Omar El-Bashir è deciso a riprendere il genocidio culturale e fisico del popolo nuba, interrotto momentaneamente dal cessate-il-fuoco del 2002 e dall’Accordo globale di pace del gennaio 2005 tra il regime islamista di Khartoum e l’Esercito/Movimento popolare di liberazione del Sudan (Spla/m), e forse anche pronto a provocare una nuova guerra tra il Sudan e il Sud Sudan.
Noi, nuba della diaspora e amici del popolo nuba sparsi nel mondo, seguiamo con profonda preoccupazione il conflitto armato che è deflagrato nel giugno di quest’anno, e condanniamo con decisione questi nuovi atti di repressione barbarica da parte del governo di Khartoum.
In passato, lo stato del Kordofan Meridionale è stato teatro di ripetute tragedie: tratta schiavista, colonizzazione, prolungato isolamento del popolo nuba, totale privazione dei servizi scolastici e sanitari, negazione del diritto di proprietà e di uso delle risorse naturali locali… In particolare, i nuba hanno sofferto innumerevoli invasioni di razziatori di schiavi e una forzata arabizzazione-islamizzazione. Sono stato costretti con la forza a combattere in guerre che non erano per la loro difesa, ma per il beneficio di regimi lontani, se non proprio stranieri.
Nonostante queste ingiustizie, i nuba sono riusciti a far fronte a spaventose condizioni di vita e a sviluppare una straordinaria capacità di ripresa e un forte senso di identità. Il regime di Khartoum li ha tenuti sotto controllo attraverso una diabolica combinazione di meccanismi economici, sociali, ambientali e politici, ma non è stato in grado di spezzare la loro volontà.
In campo economico, Khartoum sta avvantaggiando persone o gruppi disposti a sposare i suoi orientamenti politici e a servire nelle sue strutture amministrative.
In campo sociale, ricorre alla denigrazione di tutto ciò che non è arabo e alla diffusione di norme sociali, tradizioni e costumi importati nella regione attraverso o un’esplicita imposizione dall’alto o matrimoni misti e pratiche religiose.
A livello ecologico, il regime sta gestendo l’ambiente in maniera scriteriata al solo scopo di avere il totale controllo dei mezzi di sussistenza in materia di cibo e sicurezza alimentare.
Dal punto di vista politico, con una linea programmatica sfacciatamente discriminatoria, ha impedito ai nuba di svolgere un loro ruolo a livello locale, nazionale e internazionale.
Infine, la popolazione dei Monti Nuba è stata testimone di vere e proprie aggressioni culturali, perpetrate per promuovere lingue, religioni, tradizioni, danzi, usi e costumi “altri”. Quasi tutte le culture imposte hanno mirato a instillare nei nuba un senso di inferiorità, quasi dovessero vergognarsi di essere ciò che sono. Tutti i mezzi di comunicazione, radio e televisione in particolare, sono stati – e sono tuttora – monopolizzati da chi detiene il potere e controlla le ricchezze nazionali.
L’Accordo globale di pace del 2005 non ha voluto affrontare il destino del popolo nuba e di altri gruppi marginalizzati del Sudan, né osato esaminare le molte cause di conflitto presenti in quelle aree. Questa la ragione principale che sta dietro l’attuale ritorno alla violenza, il pericolo di una nuova guerra civile e la possibilità di un conflitto interregionale se non addirittura internazionale. Oggi Khartoum uccide persone indifese che sono fuggite da zone di guerra, raggiungendole perfino nei campi profughi.
Cosa bisogna fare per fermare le violenze e evitare una nuova guerra? Di sicuro, serve la partecipazione di molti. Pertanto, ci appelliamo:
1. ai tutti i nuba della diaspora, perché sostengano il loro popolo, usando ogni mezzo possibile per far conoscere le sue sofferenze e le sue lotte, coinvolgendo i mezzi di comunicazione della nazione in cui vivono, così che il regime di Khartoum non possa più continuare impunemente a fare ciò che sta facendo sui Monti Nuba e nel Kordofan Meridionale;
2. alla comunità internazionale e agli organismi non governativi, perché approntino e inviino subito sui Monti Nuba e nel Kordofan Meridionale commissioni d’inchiesta per raccogliere documentazioni sui crimini che vi sono commessi, e nello stesso tempo mandino aiuti ai civili indifesi;
3. alle potenze mondiali e alle agenzie dell’Onu, perché esercitino pressioni sul governo di Khartoum, affinché consenta il libero accesso alle zone colpite dalle nuove violenze e promuovano un dialogo politico tra tutte le parti interessate.
Invitiamo tutti a fare in fretta, ad agire ora, quando un genocidio vero e proprio è ancora evitabile.
Firme
Mohamed Yassin (Diaspora nuba) – Acli Cremona – Acli Milano – Amani Italia – Arci Darfur Milano – Arci Milano – Campagna italiana per il Sudan – Commissione giustizia e pace comboniani Italia – Fondazione Nigrizia onlus – Ipsia Milano – Iscos Emilia Romagna – Koinonia Kenya – Koinonia Roma – Nexus Bologna – Tavola della Pace.
Altre adesioni possono essere comunicate a info@developmentdays.net e forum@nigrizia.it
AMICI E MARTIRI – FRIENDS AND MARTYRS
C’erano gli ex-giovani che agli inizi degli anni 70 partecipavano al gruppo Mani Tese della parrocchia della Trasfigurazione nel quartiere Monteverde e che erano diventati amici di Nigrizia. In quegli anni avevamo la redazione a San Pancrazio, a due passi dalla loro parrocchia. Erano liceali o poco più, contribuivano con le loro idee, dando una mano a correggere le bozze, a stampare le foto – in un bagno adibito a camera oscura. Poi nel 1987 – queste date fanno un po impressione – si sono organizzati nella Onlus che si chiama pure Koinonia, facendo piccoli progetti in diversi paesi. Oggi alcuni sono vicini alla pensione. Michele, introducendo la Messa, ha parlato di amicizia, perché questa Onlus è in realtà più che altro un gruppo di amici, con “un legame profondo di vita, nella condivisione, attraverso le varie scelte di ognuno e sapendo che ieri come oggi possiamo contare un sull’altro per ogni evenienza bella o dolorosa che la vita ci propone, e sempre tenendo aperta una porta in noi e nelle nostre. case a coloro che erano e che sono meno fortunati”.
Uno di questi amici si sposò alla Trasfigurazione. Lui e la moglie arrivarono al matrimonio in blu jeans, e dopo la cerimonia offrirono a tutti un gelato, in un locale adiacente. Domenica scorsa era presente con moglie, figli e nipoti, e mi fece una riflessione su quanto sia difficile per i suoi figli oggi fare amicizie solide e durature.
Abbiamo ricordato George, che era stato ospite in una delle loro case, e Marco, ma anche Don Andrea Santoro, che quarant’anni fa insieme a don Franco fu una presenza importantissima per i giovani della Trasfigurazione. Successivamente scelse di dedicarsi alla presenza e al dialogo nel mondo musulmano, andando a vivere in Turchia, dove fu ucciso da un fanatico nel febbraio del 2006.
Per tutta la giornata ho pensato al collegamento fra amicizia, amore e martirio. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici”. Le lettere di don Andrea ci dicono che si sentiva circondato da molti amici musulmani, e che la sua scelta di vivere in mezzo a loro era fondata sul desiderio di comunione. Pochi giorni prima del nostro incontro era stata uccisa suor Valsa John, una religiosa indiana che aveva lottato per proteggere i suoi amici sfruttati nelle miniere di carbone. E Graziella Fumagalli, Annalena Tonelli, suor Leonella Sgorbati in Somalia, Monsignor Romero… Tutta gente che amava Dio, ma che amava davvero anche le persone attorno a loro.
Nella chiesa non è facile trovare amore. O meglio lo si trova più facilemente fra i comuni fedeli e meno negli altri livelli di responsabilità. E’ difficile amare ed esercitare il ministro del servizio. Chi è in autorità tende naturalmente a privilegiare legge e strutture piuttosto che l’attenzione alle persone. L’ho amaramente sperimentato in questi giorni, incontrando persone che hanno responsabilità importanti nella chiesa, e a parte un paio di felici e positivissime eccezioni, ho trovato tanto desiderio di salvaguardare gli interessi della chiesa, di mantenere gli equilibri di potere, di evitare scandali, di difendere il proprio piccolo potere, di non apparire troppo ingenuo, eccetera eccetera. Ma amore per i poveri, disponibilità a mettersi in gioco per il loro servizio, ne ho percepito molto poco. Spero che la mia sia una percezione sbagliata e non voglio giudicare chi ho incontrato magari solo per pochi minuti. Perchè la chiesa senza amore non esiste.
Pochi giorni fa, su Avvenire, il cardinal Ravasi citava la romanziera tedesca Luise Rinser: “Questa è la mia idea dell’inferno: uno se ne sta seduto là, completamente abbandonato da Dio, e sente che non può più amare, mai più e che mai più incontrerà un’altra persona per tutta l’eternità”. Forse alcuni si creano il loro inferno personale in terra, illudendosi che cosi facendo si meriteranno il paradiso. All’opposto, il martirio è il dono e sigillo per chi ama.
Perché?
Perché la storia dell’Africa postcoloniale è stata dominata da tiranni megalomani come Idi Amin, Mobutu Sese Seko, Bokassa, Menghistu, Siad Barre, Daniel Arap Moi, Dos Santos, Adjio, Omar Bongo, Mubarak, Al Bashir, Afewerki, tanto per fare un elenco dei primi che vengono in mente, vivi e morti? O anche, perché gli africani sono così vulnerabili dal fascino di leader che poi si tramutano in tiranni?
È difficile rispondere. Occorre non solo una buona conoscenza della storia africana, ma anche tanto tempo, o tanta carta, per sviluppare l’argomento e dare una risposta che non sia superficiale.
In queste ultimi mesi si è aggiunta una domanda ancor più complessa, che nelle ultime settimane ho sentito fare decine di volte in incontri, conferenze e seminari: perché l’onda della “primavera araba” non tocca l’Africa nera?
Guardo alla grande mappa dell’Africa appesa nella mia stanza e, muovendo per grandi semplificazioni, penso a quali possano essere le similitudini e le differenze fra i paesi dell’Africa araba e quelli dell’Africa nera.
Le somiglianze sono molte e importanti. Innanzitutto sono paesi dove una minoranza ricca governa una maggioranza povera, con un divario in continua crescita. Dove per chi nasce nella povertà è quasi impossibile uscirne: non esiste o quasi mobilità sociale. Sono tutti paesi giovani, dove mediamente il 50% della popolazione ha meno di 18 anni, e dove da decenni la disoccupazione giovanile è un problema nazionale che spinge all’emigrazione i giovani più istruiti e desiderosi di cambiamento. Sono tutti paesi dove le recente crisi economica globale e la crescita inarrestabile del costo del cibo sta avendo conseguenze dirette e immediate sulla vita quotidiana delle fasce più povere della popolazione.
Però appena si incomincia a pensare alle differenze, ci si accorge che le somiglianze sono tutte di tipo economico-sociale, mentre sono macroscopiche le diversità storico-culturali. I paesi del Nord Africa sono eredi della cultura araba, e sono unità socio-politiche da diverse generazioni, anche se magari sono indipendenti solo da mezzo secolo. I paesi dell’Africa nera invece sono sì indipendenti da mezzo secolo, ma hanno alle spalle secoli di frammentazione, schiavitù e colonizzazione di una brutalità straordinaria. Le indipendenze hanno coagulato altre frammentazioni – l’Africa è il continente con il più alto numero di stati – rendendo problematico il sorgere di un senso diffuso di unità nazionale.
Bastano queste differenze a spiegare perché in Africa non ci sono ancora state “primavere”?
Molti dittatori, come Museveni e Mugabe, si sono affrettati a dire che da loro non potranno succedere le stesse cose che in Egitto. In un certo senso saranno salvati dal tribalismo, come essi stessi hanno brutalmente chiamato la frammentazione. Diventati esperti nel gioco del divide et impera, non si troveranno mai di fronte a qualcosa di simile alla folla compatta di Tahir Square. Contro i dittatori non si muoverà neppure la classe media, per quanto stia diventano sempre più numerosa, perché i suoi membri o si compiacciono di essere stati cooptati dall’élite dominante o comunque si sentono troppo fragili di fronte allo strapotere economico delle poche famiglie in cui esso si concentra.
Che cosa potrebbe allora far sbocciare queste “primavere nere”? John Githongo, in un articolo pubblicato dal quotidiano americano International Herald Tribune, dà la più seria e sintetica delle risposte che mi sia capitato di leggere. Githongo è stato nel primo governo Kibaki in Kenya “sottosegretario per la governance e l’etica”, un posto che era stato creato per lui e che poi è stato cancellato quando egli non ha esitato a prendere sul serio il suo lavoro e si apprestava a denunciare per corruzione acuni suoi colleghi di governo. Dovette fuggire all’estero per salvarsi.
Secondo Githongo oggi in Kenya, ma in genere in tutta l’Africa nera, c’è un crescente numero di giovani che sono quotidianamente provocati dai simboli della crescente diseguaglianza economica e dalla mancanza di partecipazione alla vita sociale. Il risentimento, per esempio, contro il figlio del presidente che si compra una Ferrari scatena una rivendicazione più forte della rabbia causata dal vedere in televisione i simboli della ricchezza dell’Occidente. La globalizzazione ha cambiato le aspirazioni dei poveri e le loro aspettative, paradossalmente, sono diventate più locali. Githongo sostiene che la rivoluzione araba ci ha fatto capire come ormai il problema non sia più la povertà globale, ma la diseguaglianza e la sua percezione all’interno di un paese. Di conseguenza oggi il compito più urgente è mitigare le diseguaglianze all’interno di uno stesso paese, e non quello di “make poverty history” (mettere fuorilegge la povertà), come diceva la campagna di solo pochi anni fa.
La povertà, afferma Githongo, è diminuita a livello globale, ma sono aumentate le diseguaglianze locali. Lo sviluppo economico – molti paesi africani crescono oggi al ritmo del 5% annuo – insieme alla presa di coscienza dei propri diritti, ha reso i giovani consapevoli del ritardo rispetto al villaggio globale.
Scrive Githongo, facendo un paragone preso dall’informatica, che “la Primavera araba è avvenuta nel momento in cui lo sviluppo economico ha distanziato lo sviluppo politico. Sistemi politici ossificati non riescono più a soddisfare la richiesta di nuova libertà che viene dalla gente. L’esplosione democratica del mondo arabo è quindi il risultato del suo successo economico, non del suo fallimento. Un paese può vivere una crescita economica e dotarsi di tutto il corretto hardware di governo (educazione, salute, infrastrutture) ma nel contempo dotarsi del software sbagliato (diritti fondamentali, leadership, controllo delle ineguaglianze, risposte alla domande dei giovani). Alla fine il sistema brucia”.
Githongo non lo scrive, ma la conclusione ultima che possiamo trarre dalla sua argomentazione è che il crescente divario fra un sistema ossificato e un’élite di predatori da un lato, e dall’altro la richiesta di diritti fondamentali e la consapevolezza delle diseguaglianze economiche, finirà inevitabilmente per far fiorire la primavera anche nell’Africa nera.
Resta una domanda: quando?
Kenya senza Pace
I colletti delle camicie degli studenti cominciano a sfilacciarci per l’usura dei continui lavaggi. E’ segno che l’anno scolastico sta per finire. Sono alla nostra scuola superiore, la Domus Mariae a a fine ottobre venticinque studenti i loro cominceranno gli esami finali, per poter eccedere all’università o comunque a scuole di terzo livello. Ieri, come ogni domenica, ho celebrato la Messa con loro e poi mi sono fermato nella scuola per respirarne un po l’aria..
Su richiesta di un gruppo di studenti abbiamo fatto un po di riflessione e preghiera per il Kenya. Naturalmente, come con tuti gli studenti del mondo, chi ha studiato di meno durante l’anno ha pregato con maggiore intensita, che Dio gli doni forza, salute e intelligenza durante gli easmi… A parte questo, gli argomenti per lo scambio di idee e la preghiera non sono mancati.
Nella scorsa settimana sono successi in pochi giorni alcuni disastri, di natura ormai ricorrente.
Lunedì l’incendio del piccolo slum chiamato Sinai le cui immagini orrende hanno fatto il giro del mondo. Quasi cento persone morte bruciate in un rogo scatenatosi mentre una folla era accorsa e cercava con tutti i contenitori possibili di raccogliere oltre centomila litri di carburante che si erano riversati in un canale di scolo dalla tubatura difettosa di una vicina raffineria. .
Due giorni dopo in due diverse località quasi venti persone morte, e altre diventate cieche, per aver bevuto dell’alcool distillato illegalmente, senza eliminare la testa e la coda che normalmente, e lo sanno tutti, sono tossiche.
Sabato sera quattro morti e cinque feriti per il crollo di un edificio in costruzione.
Disastri causati della disperazione, dal desiderio o dalla necessità di far soldi a tutti i costi, e in fretta.
Queste notizie hanno fatto passare in secondo piano la tremenda carestia che sta devastando tutto il nord del paese e che era stata nelle prima pagine dei giornali nel mese precedente
Sono tragedie che hanno responsabilità precise, e il comun denominatore è la corruzione. Per pochi soldi si chiude un occhio se una casa non è costruita secondo i minimi standard, se l’alcool viene distillato nel cortile dietro casa, se un oleodotto regolarmente ha perdite che inquinano e potrebbero innescare un disastro.
Ho interrotto quanto avevo incominciato a scrivere qui sopra, pensando di riprendere dopo poche ore, ma poi sono venuto in Italia per la Perugia – Assisi ed una serie di incontri che mi ha portato da Bolzano a Modica, da Bari a Torino, da Alghero a Conegliano Veneto…
Nel frattempo in Kenya e in tutto il Corno d’Africa la carestia continua, centinaia di persone muoiono ogni giorno, gli interventi umanitari sono assolutamente insufficienti come denunciato degli stessi responsabili degli aiuti, fiumane di persone disperate hanno cominciato a riversarsi in Kenya dalla Somalia in cerca di cibo per sopravvivere, i militanti islamici somali hanno rapito turisti in Kenya, e il governo keniano non ha trovato altra soluzione di inviare l’esercito in Somalia.
Si può pensare che il Kenya riesca a pacificare la Somalia, quando ha fallito l’America e poi l’Etiopia? Anche se negli anni la situazione è cambiata e l’esercito keniano ha il supporto dietro le quinte degli americani, è fin troppo facile prevedere che il risultato sarà nel migliore di casi una serie infinita di scaramucce e scontri.
La violenza, le armi, non vincono mai contro le legittime aspirazioni dei popoli. Nel migliore dei casi nascondono sotto il tappeto di una falsa pace una situazione che riesploderà ancora dopo pochi anni. In Somalia ci si può seriamente domandare quali siano le legittime aspirazioni o se non si sia creata una situazione di violenza cronica che è diventata uno stile di vita. Ma certamente una mamma che sa con certezza che sta morendo per fame insieme ai figli, non si ferma davanti al rischio di essere uccisa da una pallottola.
Addirittura leggo che qualcuno in Kenya sogna di stabilire uno stato cuscinetto fra Kenya e Somalia, da chiamare Azania. E’ la stessa linea di pensiero espressa tre anni fa da un editorialista del Nation di Nairobi che si domandava se il Kenya non avesse la responsabilità di invadere e colonizzare la Somalia, per lo meno fino a che i somali non diventassero capaci di autogestirsi. Intanto, com’era da aspettarsi, dal 6 novembre sono iniziate le reazioni dei fondamentalisti islamici in Kenya, che hanno tirato una granata nel cortile di una chiesa pentecostale, a Grarissa, facendo due morti e tre feriti.
Non sarà facile fermare questa spirale di violenza. Speriamo sempre nei giovani. Che la generazione degli studenti della Domus Mariae capisca che il rispetto dei diritti degli altri e dialogo sono le chiavi della pace. E’ una strada lunga e faticosa, ma non c’è altra via per diventare più umani.
La Famiglia di Kamau – Kamau’s Family
Poi mi ricordo che nel 93 o 94, padre Arnold Grol, l’olandese che per primo si è preso cura dei bambini di strada a Nairobi, e che aveva accesso libero a tutte le prigioni del paese, mi aveva chiesto di dargli copie vecchie di New People da distribuire ai carcerati. Forse distribuendo le copie mi ha nominato, o forse il papà di Kamau fa un po di confusione. Ma che un gesto cosi piccolo sia ricordato con gratitudine dopo tanto tempo mi stupisce.
Ci sono altri ragazzi che ascoltano e non chiedo a Kamau come mai suo papà fosse in carcere a Kamiti e come mai adesso sia fuori, ma per non lasciare cadere la cosa e cercare di capire qualcosa di più, gli chiedo quanti anni abbia suo papà. “Trentaquattro”, è la risposta sicura. Quindi a quel tempo suo papà aveva appena compiuto 18 anni, perché non ti mettono a Kamithi se non sei maggiorenne, e so che lo stesso Kamau farà diciotto anni il marzo del prossimo anno, perché ho letto da poco la sua storia preparata da Jack, il nostro “assistente sociale di strada”. Rifletto che andando a questa velocità, io, che ho appena compiuto i sessantotto anni, potrei essere il bisnonno di Kamau, con ottime probabilità di diventare trisnonno in tempi brevi. Continuo a chiedere, sempre cautamente perché so di avventurarmi in terreno minato, e che potrei toccare situazioni dolorose: E la mamma? E quanti sorelle e fratelli hai? “La mamma ha forse 35 anni, ma non è più insieme al papà da tanto tempo ed è stata la sorella della mamma a farmi crescere fino ai dodici anni, quando sono andato in strada perché a casa non c’era abbastanza da mangiare”. Il conto dei fratelli prende parecchio tempo, perché ce ne sono quattro dalla stessa mamma e papà, ma poi entrambi hanno avuto figli da altri partners, e alla fine sembra che il totale sia di undici, ma non è cosi sicuro.
Non c’è da sorprendersi che il Kenya sia passato da circa 22 milioni di abitanti nel 1988, l’anno in cui sono arrivato a Nairobi, ai quasi quaranta odierni, e che continui a crescere al ritmo di un milione di persone all’anno. La sorpresa è che un ragazzo come Kamau, con questa famiglia alle spalle, tre anni di vita in strada, riesca ancora a impegnarsi e dopo essere tornato a stare con la zia e aver ripreso la scuola, venga a Ndugu Mdogo una volta alla settimana per farsi consigliare da Jack, oltre a due semplici ma abbondanti pasti.
Le Due Mense del Congresso Eucaristico Nazionale
L’amico Michele la Rosa ha mandato al direttore di Avvenire questa lettera. Spero che la pubblichino, ma ho qualche dubbio. In ogni caso credo che sia un documento importante per capire cosa pensano i ragazzi di oggi, per lo meno quelli che sono sensibili e attratti dal Vangelo.
Carissimo Direttore di Avvenire,
mi chiamo Michele e sono un volontario ecclesiastico per il Congresso Eucaristico Nazionale di Ancona. Sto aspettando con grande eccitazione l’arrivo del Papa per la S. Messa dell’11 Settembre e mi sono messo al servizio del Congresso cercando di fare del mio meglio. Ho fatto 400 km da Cremona perchè nel cuore da alcuni anni sento una forte necessità di vivere sempre più intensamente il sacramento dell’Eucarestia, e così, prendendo spunto dal Signore che all’ultima cena si mette a pulire i piedi io mi sono messo a pulire i bagni di casa volontari e a disposizione per quello che serve.
Ci sono stati dei momenti veramente di profonda condivisione tra di noi, momenti che nella mia vita mancavano da tempo. E’ una esperienza di profonda vita cristiana credo, con persone che vengono un po’ da tutta Italia, di qualunque età, che lavorano insieme giorno per giorno in modo semplice.
Sto cercando però di capire il senso del sacramento Eucaristico, perchè desidero entrare in Seminario e vorrei diventare prete. Così ho accettato con gioia l’impegno giornaliero del 6 Settembre nel servizio ristorazione per i congressisti della fiera. Purtroppo poi mi sono accorto di qualcosa che non va. O meglio, già tanti altri segnali mi mettevano in guardia…. forse i tanti pass di ogni tipo, almeno una trentina, per gestire l’ingresso o meno in certe aree, come se fossimo ai mondiali di calcio, insomma la tipica gestione da grandi eventi a cui siamo abituati nel mondo occidentale, e che abbiamo portato anche in Sud Africa all’ultima occasione.
Sarà forse anche il mio primo servizio operato alla mostra della Mole ad aggiungere un senso di inquietudine. La mostra è piena degli ori e degli argenti della diocesi e di quadri preziosi che parlano di questo Sacramento, e all’inaugurazione era pieno di persone in giacca e cravatta, con auto di lusso, che si scambiavano sorrisi e strette di mano, come in qualsiasi altro meeting aziendale.
Sarà forse anche la Fiera di Ancona con tutti i mercatini, dove non si cambiano le monete, come nel Vangelo, ma dove si vende di tutto e dove per esempio ho passato alcune intere giornate a preparare le borse per i bambini. Borse provenienti dalla Cina, comprate chissà dove, fatte da chissà chi, in chissà che modo. Scherzando dico: “l’avrà fatta qualche bambino cinese….”.
Mi chiedo come reagirebbe Gesù ad una cosa simile, un Congresso che parla di Eucarestia, e una Fiera dove si vende di tutto, nel suo presunto nome. Ho ricevuto anche una preghiera del gruppo di Riconciliazione, con stampato dietro l’immancabile pubblicità di vari servizi internet e social network, e la loro promessa che sarà tutta una grande Festa.
Sembra che ogni occasione sia buona per pubblicizzare e vendermi qualcosa, come la reclame del gelato Gran Soleil della Ferrero che si spezza e si gusta alla fine di ogni pranzo e spunta ad ogni dove. Sarà forse questo lo stesso tono “trionfante” che si respira pure in ogni celebrazione, dove, anche alla via Crucis si vede da una parte un Cristo nudo sulla croce arrancare sulle salite che conducono alla Cattedrale, e dall’altra le guide della nostra Chiesa in abiti ben diversi.
Poi lo scandalo. Ci sono due Mense: quella della gente comune, dove si spezza il pane insieme, sotto la tenda; e poi quella dei “Vip”, dove Vescovi e Cardinali, in buona e “selezionata” compagnia di autorità politiche e autorevoli relatori, si godono i vantaggi di un servizio a 5 stelle improvvisato nella Fiera. Questa sala è nascosta bene all’interno, inaccessibile agli altri, con i colori neri che mi ricordano un tristissimo film che denuncia questo mix di spiritualità e di collusione con il potere politico ed economico, dove si celebrava la S. Messa nascosti in un bunker.
Così vengo chiamato di turno nel servizio alla porta della sala, per regolare gli ingressi, e mi decido a dire qualcosa. Appena un responsabile della Segreteria CEN, con il pass blu di alto livello, capisce il mio stato d’animo, decide improvvisamente di bloccare il servizio e di non mostrare la sala a nessun altro volontario. Io vado avanti lo stesso. Entrano 3 Vescovi che si siedono e iniziano ad ordinare il pranzo. Irrompo nella sala, contravvenendo agli ordini e mi presento: “Sono Michele, ho fatto 400 km per capire che cos’è l’Eucarestia! e voi mangiate in una sala a parte con piatti in porcellana, posate d’argento e bicchieri di cristallo, ben nascosti da tutti gli altri, i quali si accontentano giustamente di mangiare in semplicissimi piatti di plastica. Per favore, vi prego, andate a spezzare il pane insieme a tutti gli altri nel Congresso”.
Il responsabile della Segreteria interviene, neanche ascolta le mie parole, mi caccia fuori in malo modo, minacciando di dire tutto a Don Enrico, la guida Spirituale dei Volontari. I Vescovi sono attoniti, dispiaciuti, probabilmente si rendono conto di aver dato ancora una volta il cattivo esempio. Uno di loro tra l’altro aveva riso ad una mia battuta il giorno prima all’info point: “vede Sig. Vescovo, qui sotto la tenda Abramo il mio collega volontario, ha lasciato la sua bicicletta…. volevo dirle che Abramo non usa la macchina, prendiamo esempio da lui!” E si, le auto costose e potenti qui si contano a decine…. che muovono le cariche ecclesiastiche allo stesso modo dei divi del moderno sistema mediatico dello show business.
Esco dalla Mensa dei ricchi e incontro Emanuele, l’altro volontario che dorme con me in tenda dai Salesiani e prepara la colazione a tutti. Gli racconto la situazione… è un genio…. propone a tutti i volontari di salire nella sala e di magiare lì con i “vip” della gerarchia ecclesiastica. Scoppiamo a ridere…. chissà, forse ce ne sarebbe davvero bisogno di vivere la fede in questo modo.
Ripenso a tutte le ore di direzione Spirituale qui alla Casa, penso ai capi della Chiesa che non mangiano con gli altri e nella tristezza mi accorgo di essere ancora una volta su una linea d’onda diametralmente diversa. Che senso ha tutto questo Congresso Eucaristico se i nostri Vescovi e Cardinali, non mangiano insieme a noi?
Le chiedo che genere di Sacramento di Comunione Eucaristica rappresenti mai questo modo di appartarsi e conchiudersi come una sorta di esclusiva Elitè?
Le lascio un ultima domanda prima di iniziare il nuovo servizio alle trombe del Corpus Domini di oggi: “Signore da chi andremo” per risolvere questi sconvolgenti dilemmi?
Con affetto,
Michele La Rosa
Cremona
Montagne Nuba, la pace elusiva – Nuba Mountains, the elusive peace.
Se fossi andato adesso a Kauda, bombardamenti a parte, avrei potuto trovarmi a dover camminare per qualche decina di chilometri al giorno, dato che auto e ancor più carburante scarseggiano. Dieci anni fa la facevo. Adesso non son più in allenamento ed ho dieci anni di più…
Ora i Nuba riappaiono a Nairobi. Ieri è venuto a trovarmi un uomo che avevamo impiegato come logistico alla fine degli anni novanta. Dopo la pace era andato a Khartoum ed aveva un posto abbastanza importante in un ministero. Il mese scorso si è fatto precedere da moglie e figli al Cairo, poi lui ha chiesto il permesso di andarci per ragioni di salute, e tutti poi hanno preso l’aereo per Nairobi. Adesso sta organizzandosi per andare a Juba, dove spera di trovar lavoro. Anche i pochi studenti Nuba che sono a Nairobi stanno aspettando l’evolversi della situazione per decidere se rientrare a casa – clandestinamente, perché non c’è altra scelta – o andare a Juba, dove potrebbero almeno ottenere il passaporto Sud Sudanese, senza rischiare di restare apolidi per il resto della loro vita.
Quali le cause di questa nuova fase? Sono le stesse dalle guerra civile fra Sud e Nord, durata dal 1983 al 2005. Profonde ingiustizie e discriminazioni sociali, politiche, culturali, con anche una dimensione religiosa, che il trattato di pace non ha risolto, ha solo cercato di ignorare.
Tanti speravano, ma era un speranza ingenua, che dopo la divisone avvenuta lo scorso luglio – Sudan con capitale Khartoum e Sud Sudan con capitale Juba – si sarebbe avviata una fase di normalizzazione e ricostruzione. A soli due mesi dall’indipendenza il Sud Sudan è lacerato da lotte intestine gravissime. Sono i colpi di coda di una eredità di sopraffazione, violenza e tribalismo che sta per scompare, o è solo l’inizio di una nuova frammentazione? Nessuno lo può dire, molto certamente dipende dalle capacità dei leaders. In Sudan sono rimasti attivi i grandi focolai di violenza del Darfur e di Abyei, in giugno si sono aggiunti i Monti Nuba (che molti chiamano col nome ufficiale di South Kordofan) e l’altro ieri il governo di Khartoum ne ha avviato un’altro, attaccando la casa del governatore eletto Malik Aggar (altra mia vecchia conoscenza) e scatenando una reazione che poterà inevitabilmente ad altre violenze.
Potrà Omer Hassan al-Bashir, al potere a Khartoum dal 1989, mantenere il controllo di un paese che dopo aver perso il Sud adesso si sta dividendo su basi regionali? Fra i possibili scenari ci sono la discesa sia del Sudan che del Sud Sudan in una spirale di violenza e di illegalità che li farà diventare un’altra Somalia, o la speranza che in Sudan le opposizioni comincino a lavorare unite e diano la spallata finale al governo di Bashir, portando al potere un governo democratico, che a sua volta potrebbe favorevolmente influire sulla stabilizzazione anche del Sud Sudan. Insomma un’altra fase della primavera araba, con tutte le incertezze ma anche con tutte le speranze che la caratterizzano.
Intanto la comunità Nuba a Nairobi torna ad espandersi. Mentre scrivevo questa nota mi ha chiamato una delle vedove di Yusuf Kuwa, il leader Nuba morto 10 anni fa. Anche lei si è rifugiata a Nairobi, in cerca di quella pace che per i Nuba sembra un sogno impossibile.
Parole per l’Anima
Alla fine di giugno mi ero riproposto di scrivere qualcosa su questo blog almeno una volta alla settimana. Poi la tragedia avvenuta a Marina di Ravenna il 2 luglio mi ha fatto capire una volta ancora quanto le parole siano insufficienti. D’altra parte non volevo tornare a scrivere senza nominare George e Marco. Adesso ne trovo la forza riproponendovi una colonna che Pietro Veronese ha pubblicato sul Venerdì di Repubblica.
A MARCO, LA CUI MORTE HA RISCATTATO ANCHE NOI
Il 2 luglio è mancato a Marina di Ravenna il giovane Marco Colombaioni, di 28 anni.
Marco è morto in mare nel tentativo di aiutare alcuni ragazzi africani che si erano trovati in pericolo facendo il bagno. Quattro ne ha salvati, è perito insieme al quinto, il quindicenne George Munya.
Era caro agli dèi questo giovane artista brillantemente diplomato a Brera, volontario in Africa per l’associazione Amani, che molti, celebrandolo, hanno chiamato eroe. Un figlio di quella “Milano perfetta fatta di associazionismo, arte, attività culturale, cooperazione internazionale”, per usare le parole con le quali è stato commemorato in Consiglio Comunale a Palazzo Marino.
A me, più per come ha troppo brevemente vissuto, piacerà ricordare Marco Colombaioni per come è morto. Soccorrendo vite africane in quello stesso mare di indifferenza e di egoismo che è diventato il Mediterraneo. Certamente i suoi giovani amici non erano migranti, non stavano cercando di raggiungere le sponde italiane, anzi se ne erano allontanati per gioco. Ma ai miei occhi il suo sacrificio riscatta tutti quegli annegati, tutte quelle anime che abbiamo lasciato andare a fondo mentre venivano verso di noi attraverso le onde, dalle coste dell’Africa. Marco è stato solidale fino all’estremo, anche per noi, che non lo siamo stati abbastanza. Come quella di Cristo, la sua è stata una morte da redentore. (da Il Venerdì di Repubblica, 15 luglio 2011)
Dopo qualche giorno abbiamo celebrato il funerale e messo a riposare le spoglie di George, in un paesino ai piedi del Kilimanjaro, un paesaggio che come pochi dà il senso della bellezza e dell’eternità. Tornato a Kivuli, ho rivisitato con gli altri ragazzi che erano in acqua al momento della tragedia ciò che era successo. Ho scoperto che anche George è perito per aver pensato agli altri prima che a se stesso. Quando si è accorto di quell’onda pericolosa che lo avrebbe portato via ha incitato agli altri ad andare verso riva, trascinandone alcuni per qualche metro e indicando loro di andare verso Marco.
Marco e George sono una presenza viva e gioiosa, non dimenticheremo mai il loro esempio.
Pietro Veronese ha poi scritto un’altra colonna su un ragazzo di Koinonia.
IL GIOVANE JACK, ELETTO PADRE DAI BAMBINI DELLO SLUM
Non so dire se gli angeli esistano in un mondo ultraterreno, ma talvolta se ne incontra uno che si aggira in mezzo agli uomini. Tale mi è apparso Jack Matika, un ragazzo che a Nairobi accoglie e cura i bambini di strada di Kibera, lo slum più grande della capitale del Kenya e uno dei più estesi dell’Africa.
Spesso ad assumersi questo compito sono ex bambini di strada, che una volta diventati adulti si sentono chiamati a farsi carico dei loro più piccoli compagni di sventura. Ma la storia di Jack è particolare. Lui una famiglia ce l’aveva, sia pure poverissima; ed una modesta casa sulla Kabiria Road, in uno dei sobborghi popolari della città. Appena diplomato, giovanissimo insegnante, sono stati gli “street children” ospitati in una casa d’accoglienza ad invitarlo, e da allora Jack non se n’è più andato. E’ stato insomma lui ad essere adottato dai bambini di strada e non il contrario. Gli hanno addirittura pagato un ulteriore biennio di studi perché diventasse assistente sociale titolato.
Adesso Jack è l’anima di un centro di prima accoglienza che si chiama Ndugu Mdogo, “piccolo fratello”. Dicono che abbia un’energia inesauribile e sia benvoluto da tutti. La polizia gli affida i ragazzi che trova in strada; i capi musulmani di Kibera lo proteggono. Quando lo sono andato a trovare insieme ai suoi bambini, Jack, che potrebbe essere mio figlio, ha adottato anche me. (da Il Venerdì di Repubblica, 12 agosto 2011)