Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

Life

South Sudan

Il nove luglio é stato il primo anniversario della nascita del Sud Sudan. Agli amici che leggono l’italiano consiglio di visitare il sito
http://www.campagnasudan.it/public/Sud_Sudan.pdf
dove troveranno un sintetico e documentato dossier preparato dalla Campagna Italiana Sudan.
Per chi parla inglese consiglio anche
http://www.nubareports.org/
dove si legge che i bombardamenti sui Monti Nuba continuano e che il campo di profughi Nuba in Sud Sudan, Yida, ha raggiunto le 65 mila persone.

Chi Vuole la Violenza? – Who Wants Violence?

L’altro ieri a Jos, in Nigeria, si è scatenata ancora una volta contro i cristiani la violenza omicida di alcuni fanatici musulmani. Ho notato anche con disappunto che ormai per trovare questa notizia – almeno 37 morti, si dice – nel sito della BBC bisogna andare sulle notizie locali africane. Trentasette uccisi perché sono cristiani non fa più notizia internazionale.

Ormai è raro che passi una domenica senza la notizia che in Kenya o un Nigeria ci siano attentati contro cristiani di ogni denominazione.
In risposta a queste carneficine i vescovi di Nigeria e Kenya, oltre a manifestare il loro sdegno per i fatti e il cordoglio per le vittime e le loro famiglie, ripetono più o meno questo messaggio: “Non è una guerra di religione. E’ la religione, in questo caso l’Islam, usata impropriamente per fini politici o terroristici”.
Fanno bene a dirlo, perché è vero e perché i vescovi e noi tutti abbiamo la responsabilità di impedire che il disegno di chi vuole aizzare le due comunità una contro l’altra abbia il benché minimo appoggio.

L’esperienza quotidiana in Kenya è di pacifica coesistenza, magari con qualche occasionale tensione ma su cose minori, e spesso di cooperazione per risolvere problemi comuni. A Kibera, lo dico spesso, la casa di Mdugu Mdogo è un un’area a grande maggioranza musulmana, e noi siamo sicuri di poter sempre contare sulla loro collaborazione e protezione. Per i musulmani di quelle famiglie il buttare bombe in una chiesa è un atto impensabile.

Ma i nostri vescovi devono pur esigere che i responsabili musulmani sconfessino la violenza in modo alto e chiaro, inequivocabile. Non basta che facciano delle dichiarazioni distanziandosi da questi fatti orrendi. Devono fare dei gesti pubblici e visibilissimi, che coinvolgano un grande numero di fedeli (una giornata di preghiere? Un rally? Sta a loro decidere) che indichino una mobilitazione di tutta la comunità musulmana contro il terrorismo e contro l’uso di ogni forma di violenza. Non è possibile che il giorno dopo aver detto che il governo dovrebbe schiacciare i responsabili di questi atti criminali, il presidente del Supreme Council of Kenya Muslim (Supkem) protesti perché la nuova legge proposta contro il terrorismo “è discriminatorio e focalizza sulla comunità musulmana””, cosa assolutamente non vera. Il messaggio che arriva ai fedeli musulmani di base, specialmente alla piccola frangia di quelli che hanno tentazioni ideologiche islamiste, e che magari sono giovani senza lavoro e senza soldi, è troppo confuso.

Amka Kenya

Due video in youtube: ex.bambini di strada di Kibera chiedono ai concittadini una campagna elettorale e elezioni nel rispetto della pace e della giustizia. “Amka Kenya” è swahili per “Alzati Kenya” o “Risorgi Kenya”

http://www.youtube.com/watch?v=Fa50VowkGQ8&feature=youtu.be

Ci Voleva una Donna! – A Woman Was Needed!

Joyce Banda è diventata presidente del Malawi – uno dei paesi meno sviluppati del mondo – lo scorso aprile, dopo la morte per attacco cardiaco del presidente precedente, Bingu wa Mutharika. Mutharika era diventato un simbolo della cleptocrazia africana: aveva acquistato una villa di 58 stanze nel suo villaggio di origine e aveva dato uno stipendio alla moglie. Aveva anche cambiato la bandiera malawiana, mettendoci un sole sfolgorante invece del sole nascente, ovviamente perché con lui il paese aveva già raggiunto il pieno sviluppo.
Banda non ha perso tempo per cambiare alcune delle controverse politiche del suo predecessore. Lo scorso 28 maggio ha fatto passare in Parlamento il ripristino della bandiera dell’indipendenza. Questo cambiamento simbolico è stato forse solo l’inizio.
La scorsa settimana Banda ha deciso di vendere il jet presidenziale – un Dassault Falcon 900EX del valore di oltre dieci milioni di euro – e la flotta do 60 Mercedes a disposizione sue a del governo. Mutharika aveva comprato il jet presidenziale nel 2009, sostenendo che era meno costoso che non affittare un aereo ogni volta che doveva viaggiare. Il mese scorso Joyce Banda aveva già detto che intendeva “disfarsene tanto posso anche utilizzare aerei di linea; sono una persona anche abituata a fare l’autostop”.
Ieri ha ha chiarito che il presidente Omar el-Bashir del Sudan sarà arrestato se si presenterà in Malawi per il vertice 19 dell’Unione Africana, il mese prossimo. Bashir è ricercato dalla Corte penale internazionale (ICC) per rispondere a casi di violazioni dei diritti umani contro il suo popolo, ma nel mese di ottobre dello scorso anno è stato accolto in Malawi dal predecessore di Banda, cosi come era stato precedentemente accolto in altri paesi africani, Kenya e Ciad inclusi. Solo Botswana e Zambia hanno detto che lo arresterebbero se osasse metter piede sul loro suolo, mentre il Sud Africa ha detto che “non può garantire la sua sicurezza”.
Forse le azioni del presidente Banda sono dovute a pressioni dei paesi donatori e ala sua ricerca di sostegno popolare in vista delle elezioni presidenziali previste nel 2014. Sono comunque una piacevole novità, e una grande passo avanti per far crescere l’autostima e la dignità del paese.

Dubai. Il Grande Esodo

Sono a Dubai per pochi giorni. Ho preso l’occasione di fare una pausa senza costi aggiuntivi nel volo verso l’Italia e mi sono fermato qui per stare con Hector, membro di Koinonia di Nairobi, primo tecnico di studio di Radio Waumini, sposato con Esther, con due figlie. Sono quasi tre anni che Hector lavora in uno studio radiofonico a Dubai, con uno stipendio quasi quindici volte più alto di quello che prendeva a Nairobi.

Dubai è una città strana, fra il mare e il deserto,. Tutto è nuovo, e tutto è finto. L’energia costa quasi niente perché se Dubai ha esaurito i suoi giacimenti petroliferi gli emirati vicini gliela forniscono a prezzi stracciati, l’acqua è carissima provenendo da impianti di desalinizzazione, i centri commerciali sono enormi, c’è aria condizionata dappertutto – anche alle fermate dell’autobus – per rendere sopportabile la vita in una città dove in questi giorni dalle 11 alle 16 ci sono 42 gradi e in agosto si arriva a 48. Si può sciare su una pista di neve ricostruita, pattinare su ghiaccio, abbronzarsi in spiagge artificialmente costruite con palme che hanno l’irrigazione goccia a goccia, l’acqua limpida e un cielo permanentemente grigio – mi dicono che è quasi sempre cosi – per la sabbia sollevata dal vento che viene dal deserto. Si può anche salire sul Burj Khalifa – la “torre del Califfo” inaugurata nel 2010 – che con i suoi 828 metri è l’edificio più altro del mondo. Facendo tutto questo probabilmente gli unici locali che si incontrano sono i funzionari dell’immigrazione all’aeroporto e i proprietari delle diverse attività, visto che i locali sono circa quattrocentomila, inclusi bambini e anziani, su un totale di due milioni. Gli altri sono indiani, pachistani, filippini, africani che vengono qui a lavorare, e quindi tutti giovani adulti, donne e uomini.

Domenica mattina ho partecipato alla Messa delle nove nell’unica chiesa cattolica, costruita su in terreno offerto da un emiro che credo abbia fatto donazioni per la costruzione. La propaganda religiosa è proibita, ma tutti possono praticare la propria religione senza difficoltà. La Saint Mary Church è grande, 1,700 fedeli ci possono stare comodamente seduti. L’aria condizionata mantiene una temperatura di 22 – 25 gradi, ai lati dell’altare principale due schermi proiettano primi piani del celebrante e anche le parole dei canti e delle varie parti della Messa. E’stata costruito su un terreno donato dall’Emiro Sheikh Rashid bin Saeed Al Maktoum, allora Vice Presidente e Primo Ministro degli Emirati Arabi Uniti, e lo stesso l’ha anche ufficialmente inaugurata nnel 1967. Un segno di collaborazione non comune in questa parte del mondo.

Mi sono messo tra nei banchi, come mi piace fare quando visito qualche città. La partecipazione dei fedeli era molto alta, anche aiutata dal fatto che le preghiere in inglese – per quasi tutti seconda o terza lingua – erano proiettate sullo schermo. L’omelia è stata un po’ fredda e teorica, compensata dal fatto che gli annunci riguardavano incontri sui diritti degli immigrati, sul come ottenere la carta di identità, inviti a partecipare a gruppi di aiuto-aiuto. Nel complesso un’impressione di chiesa come organizzazione sociale efficiente.

Ciò che faceva la differenza, che dava calore umano di chiesa, di popolo di Dio, di gente in cammino per la costruzione del Regno, erano i volti dei fedeli. Su di essi si potevano leggere i problemi, le angosce, le gioie di persone vere, e le presenza di questi volti dava un’immagine non in contrasto con quella che veniva data da tutto il resto, ma che a quei gesti rituali e quelle parole un po’ fredde dava tutto il calore e la pienezza della verità. Età media non più di 35 anni, in maggioranza uomini. Nei volti si poteva vedere l’origine: filippini in maggioranza, poi indiani, iraniani, malesi, indonesiani, e una presenza molto minore di africani e di europei. Attenti, devoti, la stragrande maggioranza ha ricevuto l’Eucarestia. Su ogni volto si poteva leggere il dolore per la separazione dalla famiglia, l’impegno per un lavoro duro, la determinazione a superare i problemi, il sogno di una vita migliore.

Nel monolocale di Hector (quando la famiglia è qui ci vivono in quattro) tutto piastrellato e con aria condizionata (600 euro al mese) ci sediamo su un tappeto, lo spazio per un tavolo non c’è, a condividere un piatto di spaghetti. Per Hector, che prima che lo mandassi a fare un corso a Milano alla Radio Circuito Marconi e diventasse un bravissimo tecnico, era venuto a vivere a Kivuli come responsabile delle attività sportive e ricreative, gli spaghetti sono un ricordo della vita a Kivuli. “Fra la gente che hai visto – mi dice – quelli fortunati come me che hanno una buona specializzazione sono pochi. La maggioranza fa il cameriere, l’aiuto cuoco, il portiere, l’addetto alle pulizie. Vengono messi in un ostello, hanno un letto per dormire e ricevono i pasti. Un autobus li prende e li riporta dal posto di lavoro. La paga va dai 100 ai 150 euro al mese. Hanno un contratto di due anni, rinnovabile, e alcuni riescono a mandare a casa quasi tutta la paga che ricevono. Fanno una vita di grandi sacrfifici”. Il papa di Hector ha un posto di responsabilità nelle chiesa pentecostale del suo villaggio, non lontano dal lago Vittoria, ed è cresciuto imbevuto di immagini e valori biblici. Aggiunge riflessivo “Siamo tutti in cammino, l’umanità intera, tutti insieme, in un grande Esodo. Arriveremo.” E sorride, come fossimo già tutti arrivati.

In cima al Burj Khalifa: Hector (a destra) e Martin, un altro ragazzo di Kabiria Road e Kivuli ritrovato a Dubai,

AFRICA, SOGNARE OLTRE L’EMERGENZA

AFRICA, SOGNARE OLTRE L’EMERGENZA
Gino Filippini, quarant’anni a fianco degli ultimi
Edizioni Paoline, Milano, 2012, € 16.50

L’amico sociologo Fabrizio Floris mi segnala e mi manda questo sua recensione di un libro che è indirizzato particolarmente agli operatori sociali, ma che può aiutare tutti coloro che amano l’Africa a capirne meglio il contesto umano e sociale. Nigrizia dovrebbe averne pubblicato una recensione più ampia.
Non ho ancora avuto l’opportunità di leggerlo, lo farò appena riuscirò ad averne una copia, ma ho conosciuto Gino, e so quale straordinaria capacità avesse di relazionarsi con i poveri pur mantenendo la lucidità di capire e analizzare le problematiche di povertà e sviluppo.

“Se non sai dove andare ricordati da dove vieni” recita un proverbio africano. Questo apprendimento dall’esperienza del passato funziona a livello individuale, per le scienze hard, ma raramente per il sociale, che in questo senso non riesce a diventare scienza perché ognuno parte dalla sua esperienza e tende a ripetere gli errori di coloro che lo hanno preceduto e così in un crogiolo mai spento che trita destini di operatori, cooperative, associazioni e volontari. Va via una persona e si perdono anni di sapere, “quando muore un vecchio è un biblioteca che brucia”; così il sociale diventa l’esperienza individuale di singoli che arrancano nella montagna delle relazioni, dei progetti, delle ONG e delle organizzazioni umanitarie. Se volete invertire questo processo leggete e trasmettete i contenuti di questo libro “Africa sognare oltre l’emergenza” che racconta in presa diretta cosa ha visto e vissuto in quarant’anni d’Africa (25 nella zona dei Grandi Laghi e 15 a Korogocho) un volontario di nome Gino Filippini. Una persona che si è messa al servizio della Storia della gente di questa terra. Un sognatore ma non esaltato; discreto, ma efficace; laico, ma non sposato; di grande fede senza essere clericale; volontario, ma non appartenente ad alcuna organizzazione, capace di dare spazio e protagonismo effettivo alla gente.

Il libro non è, tuttavia, la storia di una persona, ma ripercorre i temi della cooperazione, ci aiuta a conoscere le cause e non gli effetti dei problemi. Un’esperienza da rimettere in circolo perché la gente merita azioni concrete, profezia e poesia.

Monti Nuba – Nuba Mountains

L’ultima visita clandestina che feci sui Monti Nuba fu nel gennaio del 2002. Poi il cessate il fuoco e la pace mi permisero di tornarci senza correre rischi. La guerra che è ripresa nel giugno del 2011 mi ha costretto a tornarci ancora da clandestino, lo scorso 14 aprile. Ecco un breve resoconto.

Viaggiando in direzione sud verso il confine con il Sud Sudan in uno dei pochi veicoli che si muovono nei Monti Nuba, in Sudan, di tanto in tanto incontriamo un gruppo di due o tre dozzine di bambini e qualche donna. Camminano sotto un sole implacabile, con temperature diurne costantemente oltre i 40 gradi, e nelle ore più calde si fermano e si raccolgono all’ombra di qualche raro albero. Sono tutti mal vestiti, coperti di polvere, le donne portano un cesto con poco cibo e pochi utensili da cucina, una tanca di plastica con dell’acqua. Ti impietosisci e vorresti fermarti. L’autista dice che non c’è più posto neanche per un bambino, non è consentito, in ogni caso non risolverebbe il problema: ci sono decine di altri profughi per strada.

E’ aprile e ogni giorno arrivano ad Yida, il campo per i rifugiati Nuba a circa 20 km all’interno del Sud Sudan, una media di 400 donne e bambini. La maggior parte di loro soffrono di grave malnutrizione e sono disidratati. Il processo di registrazione viene effettuato in una casupola di paglia all’inizio del campo che già ha altri venti mila persone. Qualche settimana fa il campo è stato bombardato, come se fosse una minaccia militare al regime di Khartoum.

Da cosa stanno scappando? Dalla guerra e dalla fame. C’è una guerra incombente tra Sudan e Sud Sudan, alimentata ogni giorno da dichiarazioni belligeranti da entrambe le parti. I Nuba però sono intrappolati in un’altra guerra, più locale. Dal giugno dello scorso anno il presidente del Sudan, Omar el-Bashir, ha scatenato una guerra non dichiarata contro i Nuba e il Sudan People’s Liberation Movement – Northern Sector (SPLM-N) che si era costituito come partito politico, colpevoli di non accettare la sua politica accentratrice e islamizzatrice che hanno fatto dei Nuba degli emarginati nel loro paese. Si stima che i Nuba residenti nello stato del Sud Kordofan (il Sudan è una stato federale, almeno teoricamente), usualmente chiamato Monti Nuba, sia fra 800 mila e un milione di persone. In questi dieci mesi di guerra fiorenti centri e piccoli villaggi sono stati bombardati indiscriminatamente. Buram lo scorso anno era un fiorente centro a sud di Kadugli, la capitale del Sud Kordofan, oggi è una città fantasma, la metà rasa al suolo da ripetuti bombardamenti, e la nuova scuola è stata abbandonata dopo che le bombe l’hanno mancata per un soffio. Abbiamo incontrato uno studente, Daniel, 15 anni, che è ancora in ospedale Gidel. Ci ha raccontato dello spavento quando ha sentito le bombe cadere, e come in un disperato tentativo di cercare protezione si sia abbracciato a un albero. Una scheggia di bomba ha colpito l’albero, tagliandogli entrambe le braccia appena sotto il gomito. La scuola è chiusa, come la maggior parte delle scuole della zona. Solo alcuni coraggiosi insegnati tengono aperte le scuolette di villaggio, operando in strutture improvvisate e senza libri, cancelleria e lavagne. Le sette scuole secondarie che esistevano sui Monti Nuba sono tutte chiuse, la maggior parte di loro sono state bersaglio di bombardamenti. Anche i due istituti di formazione degli insegnanti, uno dei quali fondato da Koinonia, sono chiusi.

La guerra genera fame. L’attuale conflitto è iniziato proprio quando l’anno scorso stava per arrivare la stagione delle piogge. Le persone si sono rifugiate sulle montagne, riparandosi nelle grotte, e le terre fertili della pianura che erano già state dissodate in preparazione alla semina sono state abbandonate. Cosi il raccolto dello scorso dicembre è stato meno della metà del solito. In questi giorni arrivano notizie che in alcune zone già si muore di fame. Yida è l’ultima speranza per la sopravvivenza.

Una forte dichiarazione presidenziale dell’ONU del 14 febbraio 2012 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha sottolineato che “I membri del Consiglio di sicurezza hanno espresso la loro profonda e crescente preoccupazione per l’aumento dei livelli di malnutrizione e insicurezza alimentare in alcune zone del Sud Kordofan e Blue Nile in Sudan , che potrebbe raggiungere livelli di emergenza se non immediatamente affrontate, e con la mancanza di accesso per il personale delle organizzazioni umanitarie internazionali per effettuare una valutazione della situazione e fornire assistenza urgente” e hanno” invitato il governo del Sudan a consentire l’accesso immediato al personale delle Nazioni Unite” e ha chiesto” al governo del Sudan e al Sudan Poeple’s Liberation Movement – Northern Sector (SPLM-N) di collaborare pienamente con le Nazioni Unite e altre agenzie umanitarie “per consentire la fornitura di assistenza in linea con le norme internazionali per l’intervento umanitario. Nonostante questa dichiarazione e una proposta tripartita (Onu, Unione Africana e la Lega degli Stati arabi) per la fornitura di assistenza umanitaria a tutta la popolazione civile provata dal conflitto, il governo di Khartoum ha sempre negato l’accesso alla zona controllata dal SPLM-N, circa il 90 per cento del Kordofan meridionale.

Un funzionario di alto livello dell’Unione europea a Juba che chiede l’anonimato, spiega: “Le nostre mani sono legate. Il diritto internazionale non ci permette di intervenire, anche solo distribuendo cibo, se il governo non è d’accordo”. ” Anche se il governo in questione fa di tutto per sterminare con i bombardamenti e la fame il proprio popolo?” ” Sì, anche in questo caso non possiamo interferire”. Tuttavia, un’ operazione di soccorso su larga scala e a livello internazionale approvata da entrambe le parti è l’unica possibilità per rispondere ai bisogni più urgenti dei circa 420.000 Nuba che sono sfollati e rifugiati altre confine. Ora, a poche settimane l’inizio della stagione delle piogge, che renderà l’accesso estremamente difficile, un negoziato che faccia scattare l’accesso ai Monti Nuba in tempo utile è altamente improbabile.

E’ possibile un miglioramento della situazione militare e politica sudanese? Le posizioni rigide che Omar el-Bashir ha mantenuto da quando ha preso il potere nel 1989 fanno pensare che un cambiamento pacifico sia impossibile. Convinte di questo, le forze politiche che rappresentano le popolazioni che più fortemente contestano la politica di Bashir – Darfur, Kordofan meridionale e del Southern Blue Nile – hanno formato un’alleanza, il Sudan Revolutionary Front (SRF) e hanno giurato di rovesciare il suo governo. “Bashir ha una superiorità militare aerea. Ma a terra noi siamo molto più forti e siamo pronti a marciare su Khartoum per provocare un cambiamento di regime”, dichiara Adbel Aziz al Hilu, il capo militare dei Nuba e anche il capo del capo militare della SRF. Detto cosi sembra improbabile, ma se si considera che a Khartoum ci sono centinaia di migliaia di persone originarie delle zone in questione e del Sud Sudan il prevedere un crollo del regime provocato da un’azione congiunta non è impossibile.

A breve termine comunque più guerra, più sofferenza sono in serbo per i Nuba. Questa volta però sono pronti a raccontare la propria storia in prima persona, con il supporto di Ryan Boyette, un 31enne americano che è venuto qui come un operatore umanitario nove anni fa. Ha sposato una ragazza Nuba, e con lei anche la causa Nuba. Con pochi aiuti dall’esterno ha contribuito a creare un team di giornalisti Nuba addestrati localmente. Armati di macchine fotografiche e telecamere, collegati via radio, si muovono su tutto il territorio per segnalare episodi di violazione dei diritti umani e docuemntare le tragiche conseguenze dei bombardamenti e cannoneggiamenti. Dice uno di loro, che ogni volta che si muove mette le sua vita in pericolo: “Il governo di Khartoum ha l’abitudine di negare persino i fatti più evidenti. Negano i bombardamenti, le violazioni dei diritti umani, la devastazione causata dalle loro politiche. Ora, questo non sarà più possibile. Vogliamo documentare con evidenza inoppugnabile quanto sta accadendo. Il mondo, almeno quelli che sono interessati, potrà ascoltare e vedere ciò che succede qui. Il nostro sito web sarà pronto fra poche settimane. Forse nella sua logica il governo di Khartoum ha ragione nel cercare di distruggerci, ma più ci prova più ci rendono determinati a resistere e a documentare la nostra situazione “.

La stessa cosa è espressa da un leader religioso in Yida, dopo la Messa Domenica Guardandosi intorno, circondato da centinaia di bambini, dice: “La violenza genera violenza. Qualunque cosa cercheremo di insegnare a questi bambini, essi cresceranno sempre più determinati a lottare contro la dominazione straniera. Il bombardamento di Yida di qualche settimana fa li ha solo convinti ancora di più.”

La mattina del 23 aprile con il mio team sono tornato in a Bentiu, la cittadina Sud Sudanese da dove eravamo partiti. Improvvisamente un aereo MIG appare nel cielo e lancia bombe destinate al ponte sul Bahr el Ghazal, un collegamento fondamentale tra la città e dei campi petroliferi più importanti. Ci siamo resi conto che siamo di nuovo in un’altra guerra. Non siamo più nella guerra del Sudan contro i propri cittadini, i Nuba. Siamo ora nella guerra per i giacimenti petroliferi tra il Sudan e il Sud Sudan. Un’altra storia.

Buram. Vita nelle grotte. Life in the caves.

Yida. Il "punto di accoglienza" per i rifugiati Nuba. The "reception" for the Nuba refugees.

Diventare Umani – Becoming Human

Nel numero 390 de Il Foglio, “mensile di alcuni cristiani torinesi”, una pubblicazione tanto di modesto aspetto quanto ricca di intelligenti sollecitazioni ed idee, trovo questa citazione di una citazione che, se l’avessi vista prima, avrei inserito nel blog di ieri.

Anniek Cojean racconta che un preside di un liceo americano aveva l’abitudine di scrivere, a ogni inizio di anno scolastico, una lettera ai suoi insegnanti: “Caro professore, sono un sopravvissuto di un campo di concentramento. I miei occhi hanno visto ciò che nessun essere umano dovrebbe mai vedere: camere a gas costruite da ingegneri istruiti; bambini uccisi con veleno da medici ben formati; lattanti uccisi da infermiere provette; donne e bambini uccisi e bruciati da diplomati di scuole superiori e università. Diffido quindi dell’educazione. La mia richiesta è: aiutate i vostri allievi a diventare esseri umani. I vostri sforzi non devono mai produrre dei mostri educati, degli psicopatici qualificati, degli Eichmann istruiti. La lettura, la scrittura, l’aritmetica non sono importanti se non servono a rendere i nostri figli più umani”. Les mémoires de la Shoah, in Le Monde del 29 aprile 1995.

Educare alla Vita – Education for Life

Ian Stanley ha poco più di 17 anni, al primo contatto è timido, taciturno, riservato, al punto da poter apparire scontroso. Eppure quando è fra i suoi compagni a Kivuli emerge subito come un leader. Non si fa notare, non si mette in mostra, ma in un gruppo di coetanei Ian diventa presto un punto di riferimento. Da quando è arrivato a Kivuli ed ha ripreso la scuola, non solo ha bruciato le tappe recuperando quasi tutti gli anni perduti e riuscendo così a finire la classe ottava lo scorso novembre, ma nella scuola pubblica che ha frequentato è sempre stato capoclasse, e negli ultimi due anni rappresentante di istituto. Agli esami ha avuto risultati molto alti e ha ottenuto una borsa di studio stanziata da Equity Bank in una delle scuole pubbliche più prestigiose del paese. Il primo giorno di scuola, in gennaio, è stato nominato capoclasse.

Catherine Odongo, 21 anni, anche lei proveniente dalla strada, letteralmente da una vita randagia, in una miseria umiliante che ne avrebbe potuto fare un’eterna vittima, è invece una ragazza della Casa di Anita determinata a diventare sempre più indipendente. Sta già frequentando il primo anno di università, e basta parlare con lei pochi minuti per capire di essere alla presenza di una forza capace di superare ogni ostacolo.

Moses Chimwanga, 23 anni, ha un carattere completamente diverso dagli altri due. È una persona solare, è difficile sorprenderlo senza che sorrida. La sua storia è stata pubblicata lo scorso novembre sul quotidiano inglese The Guardian con il titolo “From street child to college boy” con una foto, ovviamente con un sorriso smagliante, nel cortile di Mthunzi. Per il suo carattere vivace la sua carriere scolastica non è stata così lineare come quella di Catherine e di Ian, ma ce l’ha fatta. I tempi in cui viveva in strada, facendo di tutto pur di riuscire a procurarsi un po’ di alcol da bere o di jenkem (solvente per vernici) da sniffare, sono un ricordo vivido ma superato.

Tre belle storie, tre persone straordinarie che ci convincono che il sostegno che abbiamo dato loro e che continuiamo a offrire con passione e amore a tanti altri bambini di strada a Kivuli, alla Casa di Anita, a Mthunzi è ampiamente ripagato.

Ma non possiamo evitare qualche riflessione. Innanzitutto misurare il successo di un’educazione alla vita, come quella che noi intendiamo offrire, col solo metro dei risultati scolastici sarebbe sbagliato. Ci sono tanti ragazzi che sono passati dalle nostre case e che non hanno avuto grandi successi accademici o che, a causa della loro storia e dei loro limiti personali, hanno smesso di studiare alla fine della scuola dell’obbligo. Ma sono meccanici, sarte, segretarie, falegnami, camerieri e cuochi che si guadagnano la vita onestamente e dignitosamente.

Non ci piace la mentalità prevalente in Kenya, dove i giornali pubblicano con grande risalto i risultati scolastici della classe ottava e della dodicesima (rispettivamente ultima classe della scuola primaria e ultima classe della secondaria). Per diversi giorni in prima pagina ci sono le foto dei migliori studenti a livello nazionale e nelle diverse province, con la classifica delle scuole che hanno avuto gli studenti migliori. Per le scuole è motivo di vanto – e soprattutto di guadagno, visto che quasi sempre le prime sono scuole private – essere nei primi posti in questa classifica. Nei giorni successivi non mancano mai, sempre riportati con evidenza, i casi di studenti che si suicidano perché non sono passati o non hanno avuto i risultati che si aspettavano. È un’educazione pensata e vissuta come strettamente funzionale ad un tipo di società che esalta la competizione e il successo. Gli esami sono test scritti, uguali per tutti gli studenti a livello nazionale, col risultato di confondere spesso educazione con memorizzazione. Se agli insegnanti, alle scuole e ai genitori interessa solo che gli studenti passino gli esami con voti alti, non c’è una vera educazione alla vita, destinata all’intera persona umana.

La Carta Africana dei Diritti e il Benessere del Minore (1990) è una lunga lista di speranze disattese. Ma è una buon punto di partenza per vedere quali dovrebbero essere gli obiettivi di un sistema educativo statale. Le prime righe dell’articolo 11 affermano che «ogni bambino ha diritto ad un’educazione. L’educazione del minore deve essere volta alla promozione e allo sviluppo della personalità del minore, dei suoi talenti e capacità fisiche e mentali, in tutto il loro potenziale, ad alimentare il rispetto per i diritti umani e le libertà fondamentali».

Troppo facile constare che invece in Kenya, in Zambia, in Sudan, là dove siamo presenti, il sistema educativo è ben lontano dal raggiungere tutti i bambini, e che quando li raggiunge non li educa, non li abitua a ragionare con la propria testa e a sviluppare uno spirito critico, a scegliere i valori che daranno forma alla loro vita: semplicemente li indottrina, o li ammaestra.

Gli esclusi, i marginalizzati, non hanno bisogno di un sistema educativo che li confermi nella certezza del loro senso di inferiorità e li convinca delle loro inadeguatezze. Hanno bisogno di una mano amica che offra loro la possibilità di educarsi, di e-ducere da se stessi le potenzialità della loro persona. Non scopriremo mai abbastanza quanto bene possa fare e quanto Vangelo possa annunciare una mano tesa a un bambino in difficoltà.

Catherine Odongo.

Moses Chimwanga.

Ritorni

Ritorna la guerra sui Monti Nuba
Inevitabilmente i problemi non risolti si ripresentano. Spesso, dopo un soluzione affrettata e imposta con la forza, diventano più complicati e intrattabili. Cosi è per la questione dei Nuba in relazione al Sudan e al Sud Sudan – che si interseca con la questione della mancata definizione del confine e del controllo dei campi petroliferi – non risolta dal CPA (Comprehensive Peace Agreement) del 2005 e neanche negli anni successivi. Mi è capitato di scriverlo più volte, anche in questo blog, attirandomi rimproveri di essere pessimista. Adesso, in una Guest House di Juba, capitale del nuovo Sud Sudan, dove sono arrivato ieri sera e starò per pochi giorni, rappresentanti delle organizzazioni che mi dicevano pessimista, sono i primi ad affermare che il pomposo aggettivo “Comprehensive” era un inganno, che nascondeva i problemi, rimandandone la soluzione all’esercizio di uno spirito di collaborazione che tutti sapevano non ci sarebbe mai stato. Una vecchia conoscenza, un olandese che aveva cominciato a frequentare i Monti Nuba alla fine degli anni novanta, e che sarebbe già in pensione se non fosse stato ingaggiato da un’agenzia umanitaria come consulente, mi fa notare “Tutto il personale ONU, UNICEF, UNDP, UNHCR e simili cambia totalmente nel giro di pochissimo tempo. Ormai non c’è più nessuno che era qui alla firma del CPA, ed io, in Sudan dal ’97, sono un sopravvissuto. Non c’è memoria istituzionale. Non solo nessuno sembra interessato e leggere i rapporti che i loro predecessori facevano pochi anni fa, ma nessuno riesce a capire la profondità del risentimento dei Sud Sudanesi contro il governo di Khartoum. Tutti credono o fingono di credere che la storia del Sud Sudan sia cominciata con l’indipendenza proclamata il 9 luglio dello scorso anno”.

Dal 26 al 31 marzo alla Shalom House si è riunita la comunità Nuba di Nairobi, sostenuta dalla Diaspora Nuba di tutto il mondo, e con qualche rappresentante dei campi di rifugiati del Kenya, per ricordare che la guerra sui Monti Nuba c’è ancora, se possibile ancora peggiore di quella degli anni 90. I Nuba hanno organizzato un mostra di recenti fotografie per denunciare gli orrore dei recenti attacchi contro la popolazione civile. C’è stata una buona coperture della stampa, radio e televisioni keniane. I ragazzi delle nostre case hanno animato le giornate, e in maggioranza hanno partecipato al digiuno di venerdì 30. Il problema è sempre “come possiamo aiutare per ristabilire umanità, ragione e pace?”. Le nostre sono piccole forze di fronte alle grandi forze di male che sono scatenate su questa terra da decine di anni. Facciamo un appello? Un altro dopo quello che la stessa diaspora Nuba ha lanciato attraverso Nigrizia? E poi lo stesso “genere letterario” dell’appello è abbastanza abusato e squalificato. Mi dice un rifugiato Nuba: “comincio a capire gli attivisti di altre parti del mondo che si immolano dandosi fuoco per attirare l’attenzione su un problema.”

Il ritorno di Franklin Odhiambo
Dal 2000 al 2004 il bambino icona di Kivuli era Franklin (o Francis) Odhiambo, insieme al suo inseparabile amico Mark Pesa. Franklin era una specie di Gian Burrasca, e, come succede spesso in questi casi, la sue avventure venivano anche esagerate e diventavano in poche ore parte della leggenda. Poi uno zio venne a prenderlo e lo portò al villaggio di origine, garantendo, di fronte ad un magistrato, che se ne sarebbe preso cura. Ne perdemmo le tracce. Le cose non andarono bene, lo zio scomparve e Franklin fu preso in una casa per bambini della sua zona. Pochi mesi fa, dopo aver terminato gli esami della scuola superiore con ottimi risultati, entrando nell’ufficio del direttore, vide sul tavolo una foto che il direttore aveva fatto con me lo scorso anno, e si fece dare i contatti di Kivuli. Cosi, quando son rientrato a Nairobi a fine marzo me lo son ritrovato a Kivuli. Mi ha implorato di portarlo ad incontrare Mark, che sta facendo l’ultima classe di scuola superiore a Domus Mariae.

Mark (a sinistra) e Franklin.

John Epucha torna alla vita
Nei pochissimi giorni trascorsi a Nairobi, fra Lusaka e Juba, ho incontrato i “nuovi” bambini riscatti dalla strada del nostro team di Kibera. Ci sono le storie più incredibili, dal Kevin (un altro!) tredicenne pacioccone arrivato pochi giorni fa da Mombasa nascosto sotto il vagone di un treno e subito preso dalla polizia e portato a Ndugu Mdogo, a John Epucha, un ragazzino Turkana – il popolo seminomade che vive vicino al confine con l’Uganda. John racconta in modo vivace che due anni fa ha deciso di sfuggire ad una vita di analfabetismo e povertà assoluta come quella che ha visto fare da suo padre, pastore di una stentata mandria di cammelli e capre, sempre al limite della sopravvivenza e della fame. Si è nascosto in un camion, fra un carico di capre destinate al macello di Nairobi, e per due giorni ha vissuto nascosto fra le loro gambe, riuscendo solo a bere un po dell’acqua che veniva data per mantener gli animali in vita. Quando sono arrivati a Nairobi era probabilmente svenuto dalla stanchezza e dalla fame, e il camionista deve averlo trovato, coperto di escrementi, nel cassone del camion quando hanno scaricato le capre. Lo ha messo al margine della strada, vicino al macello, forse credendolo morto. Il fresco della notte gli ha fatto riprendere le forze, e prima che la giornata finisse si era già fatto degli amici di strada, che lo ammiravano per l’incredibile avventura e per l’insostenibile puzza che emanava. Da allora ha imparato le strategie per sopravvivere in strada. Poi la scorsa settimana un ragazzo che è stato a Mdugu Mdogo lo ha convinto che può iniziare una vita nuova. Eccolo, nella foto qui sotto, nella veranda di Ndugu Mdogo, pronto a ricominciare. Ma, dice “fare i tre chilometri da Kawangware a Ndugu Mdogo è stato più lungo che da Lodwar a Nairobi. Avevo paura di essere rimproverato e punito. Non credevo che mi accettassero cosi come sono”.

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