Avevo intitolato “Fallimento” uno di questi post, qualche tempo fa, ricordando un desolante incontro che avevo avuto pochi giorni prima con un ragazzo che anni fa avevamo tentato di riscattare dalla strada. Commentandolo, l’amico Alessandro mi aveva giustamente fatto notare che noi non possiamo illuderci di salvare, c’è solo Cristo che salva. Anche se, scriveva Alessandro, comunque “l’uomo deve collaborare al disegno di Dio: mica possiamo stare con le mani in mano ad aspettarla passivamente questa benedetta salvezza”… Si, proprio perché noi non salviamo nessuno, perché siamo cosi incapaci e deboli, e nello steso tempo siamo sempre tentati di crederci al centro del mondo, abbiamo bisogno che i fatti ci ricordino i nostri fallimenti, ma anche che di tanto in tanto qualcuno ci faccia credere che il nostro impegno serva a qualcosa, che Dio lo usi per salvare e per far crescere gli altri.
L’altro giorno ho vissuto uno di questi momenti. A Kivuli, in cucina, stavo lavando un abbondante raccolto di verdure provenienti dall’orto della Casa di Anita. Ero con tre ragazzi, ed uno di loro, che era sempre stato in silenzio, dopo un po mi ha chiesto di parlarmi. Allora sono andato con lui a sedermi sui gradini fuori dalla porta di casa, ed ha incominciato a raccontarmi la sua vita. Non conosce il padre, ha un vago ricordo della mamma che e’ morta quando lui aveva sei anni. E’ cresciuto in casa di uno zio che ha nove figli. Anni di povertà, di fame profonda, permanente, fin quando ha deciso di scappare in strada. Dopo altri tre anni di vita allo sbando, è stato avvicinato in strada dal nostro Bonny che l’ha convinto a venire a Kivuli. Tutte cose che sapevo già, e, sapendole, ho sempre apprezzato come questo ragazzo abbia saputo gestire un passato tanto pesante. “Adesso – mi dice – son qui da otto anni, ne ho ventitré, e se penso alla mia famiglia, ho momenti di sconforto, anzi di disperazione, mi sembra di non valere niente, di essere nato e vissuto per caso. Anche Dio, in quei momenti, aiuta poco. In quesi ultimi tempi sono più tranquillo perché Bernard mi ha chiesto di essere il riferimento per un gruppo di bambini appena arrivati dalla strada, la sera, quando rientro dalla scuola di ragioneria. Mi accorgo che la mia presenza per loro è importante, che mi guardano come ad un esempio, e mi sembra finalmente di avere uno scopo nella vita. Vorrei continuare a fare questo lavoro di assistente sociale per sempre, mi da la certezza che potrò avere dei figli miei e aver cura di loro, farli crescere amati e felici”. Il suo sfogo, che ho riassumo in poche righe, è durato a lungo, inframmezzato da lunghi silenzi e da faticose riprese. Gli confermo che il suo impegno è apprezzato, che in tanti gli vogliono bene. Poi mi dice “Sai padre, hai notato una cosa? Io non ti chiamo mai padre Kizito, ti chiamo sempre e solo padre, fin da quando sono arrivato qui. Vedi, un bambino che chiama suo padre non lo chiama col nome, lo chiama semplicemente padre, perché per lui il padre è quello, e non altri. Io ho sempre segretamente pensato che tu sei veramente mio padre, solo mio. Questo pensiero mi da forza. Voglio che tu sappia che quando io ti chiamo padre lo faccio perché mi sento tuo figlio, non perché tu sei un prete. Posso continuare a chiamarti solo padre? Me ne dai il permesso?”
Life
Paternità
Spizzichi di cronaca e links.
Le riflessioni, le emozioni, a volte gli smarrimenti e la stanchezza, che avrei voluto condividere con gli amici che ogni tanto mi leggono sono troppi. Difficile trovare il tempo per fermarsi e scrivere.
Ultimo dell’anno a Mthunzi. Diluvia. Manca la corrente fino alle 21 e quando torna tutti si radunano nel salone, correndo e ridendo sotto la pioggia torrenziale. Nshima (polenta) e spezzatino e poi si improvvisa uno spettacolo, per stare insieme. Ma dopo un’ora siamo di nuovo al buio. Ritorna la luce alle 23.30, ci si raduna ancora, tutti bagnati, e si comincia a cantare. Alle 0.15 Baisikolo (cosi chiamato da quando quasi 10 anni fa si mise nei pasticci per una bicicletta, o “baisikol” in inglese) guarda il telefonino e grida, “Il 2013 e’ già incominciato”. Improvvisa una preghiera sconclusionata come la sua vita, ma fatta con un trasporto che Dio non può non ascoltarla. Danze a canti fino al mattino, per chi resiste.
A Lusaka, due novità: la Kasupe Road, che porta fino a 100 metri da Koinonia, è stata asfaltata. Quando Koinonia si trasferì qui da Bauleni, nel 1982, ci avevano assicurato che entro pochi mesi la strada sarebbe stata migliorata. Ci sono voluti 30 anni, ma ce l’abbiamo fatta. Adesso, come vedete dalla foto qui sotto, si arriva fino alla Rivonia Farm su una strada che a chi ha visitato Koinonia e Mthunzi in questi anni, sopratutto a chi l’ha fatta sul cassone del mio camioncino, sembra un sogno. Invece è solo una normale strada asfaltata.
L’altra novità è la rivalutazione della kwacha, la moneta locale. Quando sono arrivato in Zambia nel 77 con un dollaro si avevano 80 centesimi di kwacha. Poi una svalutazione lenta, finché a metà anni novanta c’è stato il crollo: un dollaro è arrivato a valere 4,000 kwacha. Infine kwacha si era stabilizzata da molti anni intorno a 5,800 per un dollaro. Dallo scorso 1 gennaio si usa la “kwacha rebased” e sono in circolazione le nuove banconote, e si sono tagliati tre zeri. Un dollaro adesso vale 5.8 kwacha e un euro vale 6.9 kwacha. Speriamo che la svalutazione che è inevitabile in queste operazioni non ci faccia rimpiangere i tempi in cui andavamo a comperare salsicce e brioche per cento persone e spendevamo solo seicentomila kwacha.
A Mthunzi è successo anche un quasi-miracolo. Nei primi giorni ne avevo ricevuto delle versioni molto esagerate, ma il miracolo resta. Malaika Bweupe aveva circa 10 anni quando è arrivato a Mthunzi nel 2002, dalla strada dov’era insieme a Joe. Bweupe è sordomuto dalla nascita e con Joe aveva inventato un suo linguaggio a gesti. Da qualche anno le mandiamo ad una scuola specializzata e sta facendo molto bene nella scuola secondaria. Le visite specialistiche che gli avevamo fatto fare nel corso degli anni avevano dato tutte lo stesso responso: “Non c’è niente da fare”. Lo scorso agosto lo abbiamo messo nel gruppo che è andato in Scozia per uno scambio culturale. Anche in Scozia Marian, organizzatrice degli amici scozzesi, lo aveva fatto visitare, con lo stesso responso, solo con una vaga speranza e un invito a continuare e provare le nuove tecnologie man mano che si affinano. Marian non si è data per vinta, e mentre visitava Lusaka lo scorso ottobre, ha portato Bweupe in un centro specializzato appena aperto. Dopo una mattinata passata a provare apparecchi diversi, improvvisamente Bweupe ha fatto segno che sentiva, e che bisognava abbassare il volume perché gli dava fastidio! Adesso la difficoltà per Bweupe è imparare a parlare. Anche se legge e scrive perfettamente in inglese, imparare a fare il legame far i segni e i suoni, alla sue età, non e’ cosi semplice… Al momento frequenta delle costosissime sessioni di logo-terapia, ma avrebbe bisogno di qualcosa di molto più serio. Mike, il nostro video amatore di Mthunzi, sta preparando un piccolo video sulla storia di Bweupe da metter su Youtube. Appena sarà pronto ve lo segnalerò.
Fra meno di una settimana ci sarà a Nairobi un grande evento per la pace: Amka Kenya, Children for Peace. Una nostra amica finlandese, Marita Rainbird, con il piccolo gruppo di Koinoniani appassionati di musica e video, ci lavorano ormai da quattro mesi. Un grande concerto nel piazzale all’ingresso di Kibera. Saranno solo i bambini di Ndugu Mdogo e di altre piccole realtà a cantare e parlare, anche se si prevede l’intervento di altri artisti che pero hanno accettato la condizione che abbiamo imposto, di ascoltare prima i bambini. I bambini di Ndugu Mdogo non sono per niente emozionati dall’andare negli studi di registrazione per preparare il DVD, dalle interviste, dalla tensione che c’è fra gli organizzatori. Per loro tutto è semplice e normale.
Marita ha un blog in cui presenta l’iniziativa e i bambini, che vi consiglio di visitare. http://amkakenya.wordpress.com/
Naturalmente troverete aggiornamenti anche sul sito di Amani, che vi ripeto nel caso qualcuno non lo conoscesse
hhttp://www.amaniforafrica.it
In questi giorni viene consegnato il premio Altropallone ad un’atleta che si è fatta conoscere per le sua serietà e impegno sociale. Dieci anni fa lo stesso premio venne dato a me! E’ vero, non scherzo. Comunque potete controllare sul sito di Altropallone, a http://www.altropallone.it/
Un’altra associazione con una forte base in Lombardia ha lanciato un premio per ricordare un comune amico, Federico Ceratti. Il premio è per giovani talenti. Trovate il bando a http://www.consumietici.it/
Il coro di Amka Kenya è arrivato a Shalom House per una delle ultime grandi prove, ed esigono la mia presenza prima di incominciare. Devo andare a salutarli!
Natale – Christmas
Ci si aspettava che almeno 18 milioni di cittadini keniani si registrassero per le elezioni del prossimo 4 marzo. Alcuni speravano che si potesse arrivare a 22 milioni. Se ne sono registrati solo 14,3 milioni, e la giustificazione per un cosi basso numero é la paura di violenze durante le elezioni. Non si capisce come il non votare possa diminuire il rischio delle violenza, ma certo le notizie quotidiane impensieriscono. Esplosioni di bombe, scontri che avvengono apparentemente tra razziatori di bestiame e che lasciano dozzine di morti. Il timore che questo sia solo l’inizio di una stagione di violenze molto più grandi é fondato.
Ieri mattina andando a Kibera sono passato vicino ad un palazzo di cinque piani che era crollato durante la notte. Per fortuna era ancora in costruzione e non era abitato, e solo due persone sono rimaste ferite in modo non grave. Il crollo di un palazzo costruito illegalmente, senza che il progetto sia stato approvato oppure che é stato approvato pagando una tangente, si merita sul giornale di oggi solo poche righe.
I ragazzi hanno terminato al prima fase del corso del Tome la Maji Circus Project, con uno spettacolo nel teatro di un centro dei Salesiani. Per la prima volta ad un nostro corso di circo hanno partecipato con successo otto bambine della Casa di Anita. Oltre quaranta studenti delle case di Koinonia a Nairobi hanno terminato la classe ottava sono andati per la prima volta al mare, a Mombasa, per una settimana. Venticinque maschi sono stati circoncisi ed sono stati istruiti sulle loro responsabilità di adulti. Tutte le nostre case si stanno mobilitando per una grande concerto per la pace che sarà tenuto dai bambini di Ndugu Ndogo il 26 gennaio, per implorare elezioni senza violenza. Oltre centoventi ragazzi e ragazze ieri sera hanno animato la Messa di Natale a Kivuli. La loro fede, la loro speranza in un possibile mondo migliore, il loro affetto sincero ci rinnovano, ci rincuorano ad affrontare il cammino che ci resta e ci garantiscono che davvero un mondo migliore possibile, l’umanità ne ha il potenziale, dobbiamo lavoraci tutti insieme.
Ho ricevuto degli auguri di Natale con una poesia di Efrem il Siro dedicata al Bambino Gesù. Ve la ripropongo, con la foto dell’ultimo bambino accolto a Kivuli Ndogo.
Come sei sfacciato, o Bambino,
che ti getti nelle braccia di tutti!
A chiunque ti trova, tu sorridi;
a chiunque ti vede, tu vuoi bene.
È come se il tuo amore
avesse fame degli uomini.
Forse non sai distinguere
tra i tuoi genitori e gli estranei?
Tra la tua mamma e le serve?
Tra colei che ti nutre col suo latte e le donne impure?
Questo è la tua sfacciataggine oppure il tuo amore?
Tu, che tutti ami!
Come sei irrequieto,
che ti getti nelle braccia di chiunque ti vede!
È lo stesso se sono ricchi o se sono poveri;
tu cerchi rifugio in loro, senza bisogno che ti chiamino.
Donde ti viene questo essere così affamato degli uomini?
Kongamano la Vijana kwa Base
Chiamato Kongamano la Vijana kwa Base (swahili per Forum della Gioventù della Base, base é come i gruppi di bambini di strada designano il loro abituale punto di incontro) il forum si é tenuto alla Shalom House e ha riunito i beneficiari di oltre dieci istituzioni.
Kongamano la Vijana kwa Base è stata un’iniziativa di KOBWA (Koinonia Old Beneficiaries Welfare Association) ed ha visto la partecipazione di altre organizzazioni molto importanti come KESCA, Consolation Africa, Thomas Bernardo’s Home, Rescue Dada e altre. E ‘stato il culmine di un processo iniziato nel mese di agosto 2012.
I beneficiari hanno avuto l’opportunità di condividere le loro esperienze di vita e la possibilità di proporre la via da seguire su come migliorare il processo di riabilitazione e reinserimento sociale .
Il documento finale é pubblicato nel blog in inglese.
Nuovo Consiglio Esecutivo di Koinonia – New Executive Council of Koinonia
Il Bambino che porta il Perdono
Ogni celebrazione dell’anno liturgico viene abitualmente associata a un valore cristiano. Il Venerdì Santo è il sacrificio e il perdono, la Pasqua la resurrezione e la vita nuova, la Pentecoste la testimonianza e l’impegno nel mondo, il Natale è la famiglia, i bambini, l’amore, la pace.
Chissà perché quest’anno per me il Natale si colorisce soprattutto di perdono, che di solito non è considerato il messaggio più immediato che viene da Betlemme.
È stato il presepio preparato da Frederic Sibomana che mi fa pensare al Natale nella prospettiva del perdono. Frederic e’ uno dei migliori scultori in legno che hanno il laboratorio all’interno di Kivuli, il centro al servizio dei bambini di strada e dele persone in difficolta’ che ho iniziato nel 1997 con i miei amici della comunicta’ Koinona di Nairobi (Kenya). Quest’anno ha fatto un presepio davvero speciale, intagliato a mano, su una tavola di legno di jacaranda. Rappresenta tutta la vita di Gesù: al centro c’è la Natività, intorno scene di vita africana che evocano la missione di Gesù secondo Isaia «Lo Spirito del Signore è sopra di me, per questo mi ha consacrato e mi ha inviato a portare ai poveri il lieto annunzio, ad annunziare ai prigionieri la liberazione e il dono della vista ai ciechi; per liberare coloro che sono oppressi». Vi si vedono i bambini di strada che sniffano la colla, gli schiavi incatenati, i malati trasportati in barella tradizionale, i mendicanti, gli anziani, i ciechi, i bambini, la vita di villaggio. In secondo piano si vede la Crocifissione e all’orizzonte il sole che sorge rappresenta la Resurrezione. Tutta la vita di Gesù e’ simbolicamente descritta in questo grande quadro di un metro per un metro e mezzo. Probabilmente anche tutta la vita di Frederic, che è di origine ruandese, rifugiato in Kenya dal 1994, cercatore di fortuna in Mozambico e Sudafrica, infine rientrato in Kenya perché qui si trova meglio che negli altri paesi dove ha provato a lavorare, essendoci una grossa comunità ruandese che lo fa sentire più a casa. Ieri, primo giorno di Avvento, ha portato la sua opera a Ndugu Mdogo, la casa di prima accoglienza per i bambini di strada che abbiamo avviato a Kibera, la piu’ grande baraccopoli di Nairobi nel 2008, e l’ha` messa nel portico, appoggiata contro il muro. Subito alcuni dei bambini vi si sono seduti intorno mentre lui spiegava cosa rappresenta.
Sul volto del Gesù bambino del presepio di Frederic c’è pace e serenità, anche se e’ gia’ consapevole di cosa gli riserva il futuro. Nonostante i vari gruppi di persone rappresentino situazioni di disagio e dolore che saranno destinatarie dell’annuncio di Gesù, l’umanità sofferente a cui Dio Padre ha inviato il Figlio, anche queste figure sono composte, dignitose. Sono persone abituate alla durezza della vita, non si lamentano, portano il loro fardello con determinatezza. Il Bambino guarda e sembra già accettare tutto, perfino la croce che si intravede in lontananza. Ha già perdonato tutti in anticipo. Anche se sa bene in che mani si è messo. La sua non è rassegnazione ma piuttosto fede e speranza che la tranquilla forza del bene vincerà.
O io vedo troppe cose? Forse quello che vedo sul volto dei Bambino è invece sui volti dei bambini di Ndugu Mdogo.
I bambini sono accovacciati sul pavimento, a contemplare la scultura. Questa è ormai la loro casa da diversi mesi. Indossano vestiti puliti, hanno appena finito colazione e quando è arrivato Frederic stavano parlando con Jack, l’educatore di strada, sulla possibilita’ di un loro reinserimento in famiglia.
Juma, il più piccolo del gruppo, avrà forse sette anni, tocca col dito, esitante, la statua del bambino che sniffa la colla, quella più vicina al Bambino. « È come me» dice rivolgendosi agli altri. Poi si corregge con un sorriso appena accennato «Com’ero». Juma ci ha raccontato che era scappato di casa due anni fa per raggiungere in strada il fratello maggiore, Idriss. La mamma stava via da casa, o meglio dalla baracca, anche per due o tre giorni di seguito, e loro non avevano da mangiare, e non vedevano altra soluzione che andare in strada a rubacchiare o mendicare. Dopo che hanno deciso di andarsene hanno vissuto in strada, insieme, per due anni, prima di venire da noi poche settimane fa. Ma quando abbiamo chiesto ai due fratelli dove vorrebbero stare in futuro ci hanno detto che, se li aiutiamo un poco per poter andare a scuola, e Jack va a visitarli con regolarità, loro sarebbero contenti di stare con la mamma «perché lei ha bisogno di noi». Seduto accanto a Juma c’è Mothami, dodici anni, che era fuggito di casa tre anni fa perché il patrigno tornava sempre a casa ubriaco, picchiava prima la moglie e poi il figli. «Però – dice Mothami – l’ultima volta che ho visitato la mamma in casa non c’era violenza, le cose vanno meglio. Potrei andare a scuola e poi la sera preparare la polenta prima che gli altri rientrino».
Quella mamma e quel papà sono stati perdonati senza che lo abbiano chiesto. Juma, Idriss, Mothami sanno che la vita ha messo i loro genitori in difficoltà, capiscono e perdonano. Sperano che il male che hanno visto e sperimentato non si ripeta più. Che gli adulti possano cambiare in meglio, anche se hanno imparato che non è sempre così facile.
Il Bambino che dirà «Non giudicate e non sarete giudicati. Non condannate e non sarete condannati. Perdonate e vi sarà perdonato» guarda, capisce, approva.
Tone la Maji Circus Project
Il progetto che ha preso il via il 26 novembre a Tone la Mji prevede laboratori di Circo Sociale giornalieri rivolti ai bambini e agli adolescenti delle nostre case: Tone La Maji, Kivuli, Casa di Anita e Ndugu Mdogo che si protrarranno fino al 19 dicembre.
In questa prima fase del progetto sono presenti: Maria Luisa Mirabella, presidente della fondazione UCI; Luca Sartor, educatore professionale e professore di circo; Luca Marzini, operatore di circo sociale; Francesca Santarelli e Anna Monaco, volontarie; Martina Carlini assistente artistica; Raffaele Ballarati, del Consiglio di Indirizzo di UCI. UCI ringrazia La Goccia per mettere a disposizione la struttura, e ancora La Goccia e Amani e Koinonia per il grande lavoro educativo gia fatto con questi ragazzi.
Il TLM Circus Project proseguirà le sue attività fino a dicembre 2014, con altre quattro sessioni distribuite nel 2013 e 2014, nei periodi delle vacanze scolastiche.
Uniti per Crescere Insieme con questo nuovo programma continua la tradizione di Koinonia di usare le arti circensi per la riabilitazione ed educazione dei giovani.
Per la prima volta alcune bambine della Casa di Anita partecipano a questo tipo di attivita. I partecipanti sono divisi in due gruppi, bambini e adolescenti, con la prospettiva che per la fine del 2014 gli adolescenti possano a loro volta diventare istruttori.
Sono giornate di impegno e allegria per tutti.
Fallimento
Sto guidando l’auto, carica di bambini, nel centro di Nairobi ed ho, molto imprudentemente lasciato il finestrino aperto. Mi si avvicina una tipica persona di strada. Vestiti sdruciti e sporchi, alto, magrissimo, occhi arrossati, una smorfia che forse é un sorriso ma quasi privo di denti. Se non conoscessi le strade di Nairobi potrei dargli 50 anni, conoscendole penso che ne possa avere fra i venticinque e i trenta. E’ all’ultimo stadio della parabola discendente di una “vita di strada”. Gli stenti, la fame, lo sniffare la colla e la benzina, le infezioni, le discriminazioni e il disprezzo, le malattie di tutti i generi fanno si che a un certo punto la persona non reagisca più, si lasci morire. Penso che ormai avrà qualche mese di vita, e il recupero é quasi impossibile. Solo le suore di Madre Teresa accettano una persona ridotta cosi, e possono aiutarla a vivere gli ultimi giorni con solidarietà e affetto. L’uomo si appoggia al finestrino dell’auto, ferma a un semaforo. Sorride ancora, si, é proprio un sorriso, mi fissa con quegli occhi malati. La gente ben vestita continua a passare sul marciapiede, frettolosa. Sono impiegati, funzionari governativi, gente che fa ha fatto le ultime spese prima che i negozi chiudano. L’uomo continua a fissarmi. “Non mi riconosci?” No, non lo riconosco. Scavo nella memoria ma non ritrovo un volto che possa assomigliare a questo volto devastato. “Sono Lwanga, non ti ricordi?”
Mi si stringe il cuore. Lwanga era un ragazzo di strada di non ancora 10 anni quando insieme ad Andrew nel 1992 incominciammo ad avvicinare un gruppo che stazionava nel mercato di Riruta Satellite. Mi aveva colpito perché Lwanga é il nome di un altro dei Martiri d’Uganda, come Kizito, e i nostri nomi erano stati un buon aggancio quando lui mi si era avvicinato per chiedere da mangiare. Lwanga era diventato un entusiasta giocatore degli Yassets, la squadra di calcio organizzata da Andrew e si era trasformato in un adolescente allegro e aperto. Da qualche parte devo avere ancora una foto fatta durante gli allenamenti nel campetto della scuola di Riruta, con Andrew esultante perché la sua squadra ha vinto, e Lwanga, come al solito, gli é vicino. Non gli pareva vero di aver trovato un adulto che si interessasse di lui, lo proteggesse. Poi Andrew, poco prima di morire in un incidente d’auto nel novembre del 1997, lo rimise in contatto con la famiglia, e lo aveva sistemato nella casa di una zia, iscrivendolo anche ad una scuola di meccanici per auto. Ricordo la trepidazione con cui Andrew aveva seguito la crescita di Lwanga.
Poi, dopo la morte di Andrew, lo avevamo perso di vista. Lo rivedo solo oggi, stritolato dalla vita. Gli chiedo di venirmi a trovare a Kivuli, ma temo che non lo rivedrò. Il ragazzino che stimolato da Andrew aveva re-imparato a guardare alla vita con fiducia non c’è più. Anche lui lo sa. Mi dice che verrà, ma si capisce che non ci crede. Ormai non si aspetta più niente.
Nairobi e’ una macchina che stritola i più deboli. Chi non é forte dentro, viene distrutto. Come sempre, quando una persona come Lwanga fallisce ti fa riflettere sulla ragione del fallimento e sull’efficacia e significato del nostro impegno a fianco delle persone di strada. Andrew ha dato a Lwanga protezione e affetto, lo ha rimesso in contatto con la famiglia dedicandogli innumerevoli visite, gli ha trovato la scuola, ha dovuto convincere gli insegnanti a accettarlo nella loro classe… E tutto questo per cosa?
Per motivarci possiamo pensare alle tante persone che sono passate nelle nostre case e adesso sono giovani adulti normalmente integrati e normalmente felici, per lo meno come si può essere felici in questo mondo, per convincerci che il nostro lavoro non é stato comunque inutile.
Ma una persona ridotta come Lwanga é una sconfitta bruciante. Eppure, pensando a lui e a qualcun altro come lui, non mi pento di aver sprecato tempo, fatiche e risorse perché qualcuno di Koinonia potesse restargli vicino. Il bene resta. E’ eterno. I momenti di felicità che Andrew ha saputo donare a Lwanga, anche fossero gli unici della sua vita, saranno per sempre, oltre la morte, sia in Lwanga che in Andrew. Dobbiamo cercare di fare bene il bene, ma anche se facciamo qualche sbaglio, il bene resta.
Elezioni e Violenza
Dal 19 novembre fino al 16 dicembre in tutto il Kenya sono aperte le postazioni per la registrazione degli elettori. Le elezioni si terranno il 4 marzo 2012, le prime dopo l’approvazione della nuova costituzione avvenuta nell’agosto del 2010. I keniani in una solo giorno ssaranno chiamati a eleggere il presidente, i senatori (47), i parlamentari (290), i governatori delle contee (47), e i rappresentati nei mini-parlamenti delle 47 contee. Una straordinaria opportunità’ di rinnovamento.
La registrazione degli elettori, effettuata dalla Commissione Indipendente per le Elezioni e i Confini (in inglese Independent Electoral and Boundaries Commission, o IEBC, che ha il mandato anche di stabilire i confini dei collegi elettorali e organizzare e gestire le elezioni) ) sarà fatta in 25.000 postazioni disseminate in tutto il paese. La Commissione prevede di registrare almeno 18 milioni di elettori, ma molti dicono che potrebbero diventare anche 21 o 22 milioni.
La registrazione sarà fatta con avveniristici Biometric Voter Registration (BVR) kit, consistenti in un computer portatile con un sistema di alimentazione solare e annessi software e hardware, che permettono di archiviare per ogni potenziale elettore il documento di identità, la foto e le impronte digitali. Il tutto verrà poi verificato e gestito nel momento delle elezioni da un sistema centralizzato, che, dice la ditta fornitrice dei kit, sarà assolutamente sicuro e immune da manipolazioni.
Tutto bene dunque? Non proprio. Siamo in un paese dove le tensioni etniche, alimentate ad arte, sono in crescita, e dove la violenza fisica più brutale e diventata talmente parte della vita quotidiana da non fare più notizia.
Il primo gravissimo segnale e’ che Uhuru Kenyatta e William Ruto, incriminati dalla Corte Criminale Internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità avvenuti subito dopo le precedenti elezioni e oggi in attesa di processo, sono in corsa per la poltrona presidenziale. Il processo contro di loro dovrebbe incominciare il 10 aprile, poco più di un mese dopo le elezioni, e, a scanso di equivoci, il pubblico ministero dell’Aia ha fatto sapere che il procedimento continuerà anche se uno degli incriminati dovesse essere eletto.
Intanto le prime pagine dei giornali riportano continuamente notizie di violenze, ma quasi mai i responsabili vengano assicurati alla giustizia.
Sabato 6 novembre, a Baragoi, circa 40 poliziotti (incredibilmente non si sa ancora il numero preciso) sono caduti in un’imboscata di razziatori di bestiame e sono stati massacrati. E’ il più grave colpo inferto alla polizia in tutta la storia del Kenya. Ad oggi, 21 novembre, nessuno dei colpevoli e’ stato preso, e nessuno dei responsabili di questo disastro ha sentito il bisogno di dare le dimissioni. Ancora peggio, il fatto e’ sparito dalle notizie e dai commenti. Ma quasi ogni giorno ci sono notizie simili, ormai considerate degna solo di qualche pagina interna se le vititme sono poche. Ieri, a pagina tre del maggior quotidiano: “tre soldati uccisi a Garissa da banditi che poi sono fuggiti con le loro armi”. I soldati erano parte di un piccolo contingente che stava andando in Somalia.
Domenica 19 novembre, a Eastleigh, quartiere di Nairobi, abitato in prevalenza da rifugiati Somali, esplode una bomba su un “matatu” – veicolo per il trasporto pubblico. Ad oggi dieci persone sono morte in conseguenza dello scoppio, e tutto il quartiere e ancora sconvolto da disordini.
E non possiamo dimenticare la lunga lista di attacchi alle chiese cristiane nel corso dell’ultimo anno.
La connessione fra questi avvenimenti e l’entrata delle forze armate keniane in territorio somalo in ottobre del 2011 e’ impossibile da negare, nonostante le autorità evitino accuratamente di ammettere questo legame, perché il riconoscerlo potrebbe solo aggravare le violenze. Ma che questi fatti di violenza possano avere, e abbiano sempre di piu, un legame con le imminanti elezioni non e’ da escludere.
La violenza fisica aumenta il fossato fra la nuova classe benestante di Nairobi, beneficiaria della crescita economica in atto, e il resto della popolazione. La borghesia emergente della capitale, che mandai i figli a fare l’università’ in Inghilterra e Stati Uniti, si sente anni luce distante dai razziatori di bestiame di Baragoi, ed e’ inorridita dalla violenza delle bombe. Eppure pratica quotidianamente una violenza fatta di corruzione, concussione, discriminazione. E’ un altro tipo di violenza, quella del potere e del denaro, che e’ all’origine di questa società’ malata.
La patina di modernità della registrazione computerizzata degli elettori non sara sufficiente a garantire che le prossime elezioni saranno senza violenza. Ci aspettano mesi molto difficili.
Cristiani-Musulmani: Convivenza a Rischio
Non sono un esperto di Islam. Anche se vivo in Africa da 35 anni, non ho mai avuto il tempo e l’occasione di approfondirne la conoscenza. Sono semplicemente un missionario che nei suoi giri per l’Africa e nelle sue attività quotidiane si è spesso trovato a fare un pezzo di strada insieme ad alcuni musulmani. Sempre nel reciproco rispetto e qualche volta stringendo profonde amicizie. Per questo mi sento ferito dalla crescente incomprensione e violenza che sta scavando un fossato fra le due fedi, sopratutto in due paesi chiave per l’Africa come la Nigeria a Ovest e il Kenya a Est.
In tempi anche recenti la convivenza pacifica in Africa sub-sahariana fra cristiani e musulmani era scontata. Tipico il caso del Senegal, un paese a stragrande maggioranza musulmana diventato indipendente nel 1960 e governato fino al 1980 dal presidente-poeta Leopold Sedar Senghor, uno che certo non nascondeva la sua fede cattolica, senza che ci fossero mai problemi e conflitti di religione. In Costa d’Avorio c’era un personaggio straordinario come Amadou Hampâté Bâ, nato in Mali ma di fatto portavoce del mondo islamico di tutta l’Africa occidentale. Sempre vestito con gli abiti tradizionali del suo popolo Fulbe, e a suo agio in una capanna di villaggio come nei corridoi dell’UNESCO e dell’ONU, Hampâté Bâ non aveva mai cercato posizioni di potere politico, ma la sua autorità morale era immensa e le sue mani erano sempre aperte all’amicizia e al dialogo con tutti.
La dove l’avanzata musulmana s’era fermata dopo la spinta iniziale, fra il Sahel e l’Africa sub-sahariana, l’aggressività s’era nei secoli stemperata nelle tradizioni africane di tolleranza, accoglienza e ospitalità. E così la convivenza rispettosa, con il successivo avvento dell’evangelizzazione cristiana nel Golfo di Guinea, era diventata parte della tradizione di entrambe le fedi. Lo stesso in altre zone. Tipica in Sudan la regione dei Monti Nuba, dove l’appartenenza religiosa diversa, anche all’interno della stessa famiglia, non costituiva motivo di tensione. O sulla costa orientale dell’Africa, dove dopo gli scontri fra i primi colonizzatori portoghesi e le popolazioni già islamizzate o di origine araba si era ritrovata la strada di una convivenza quotidiana pacifica.
La capacità di integrare le differenze è costitutiva delle culture africane, di una società dove la differenza, non l’uniformità, è la regola. Ma non si può negare che sotto una superficie tranquilla c’erano anche delle tensioni, seppur non gravi, alimentate da fondamentalisti di entrambe le parti, anche se in questo caso, bisogna ammetterlo, le responsabilità più gravi furono probabilmente di una frangia di missionari cristiani.
Perché allora di questi tempi, la crescente violenza, gli atti terroristici seguiti da reazioni inconsulte come gli attentati nelle chiese in Kenya a Nigeria? Proprio mentre con il Concilio Vaticano II e il movimento ecumenico in tutta la cristianità sono cresciuti il rispetto per le altre religioni, l’abitudine al dialogo e il rifiuto della violenza?
C’è stato il risveglio del mondo islamico e la presa di coscienza di una propria identità, che coincide con l’uscita del mondo arabo dalla tutela occidentale, risveglio iniziato verso la metà del secolo scorso e che si è progressivamente affermato. Vent’anni fa un vero esperto del musulmanesimo così mi spiegava la tensioni che cominciavano ad emergere anche in Africa, alimentate dalla ripresa del proselitismo islamico: “Nel mondo arabo hanno sempre pensato all’Africa sub-sahariana come al giardino dietro casa, che era trascurato, ma che comunque era il loro giardino. Oggi si sono accorti che quel giardino è diventato cristiano, quasi che il cristianesimo ne abbia preso possesso durante l’assenza del proprietario. E ciò non piace”.
C’è stato anche un crescente uso politico delle religione. Mentre il mondo occidentale diventava sempre più secolarizzato e ormai la religione ha poca importanza nella vita pubblica, tanto meno gioca un ruolo nell’elaborazione della politica estera, nel mondo arabo si pensa che occidente e cristianesimo coincidano. La reazione ed odio contro l’aggressività economica e culturale dell’occidente, alimentata da movimenti numericamente minoritari ma comunque importanti, diventa odio contro il cristianesimo, percepito come la religione degli occidentali.
Su questi due primi fattori si e’ innestato il fondamentalismo e fanatismo, rappresentato da organizzazioni che hanno notevolissima disponibilità economica e alimentano una vera e propria strategia delle tensione nelle aree più fragili.
Adesso il quadro non è più cosi chiaro come lo era una trentina di anni fa. Per esempio le tensioni che sono fondamentalmente di natura sociale, storica e culturale fra Sudan e Sud Sudan e fra Somalia e Kenya stanno prendendo una forte coloritura religiosa. Cosa ancora più evidente in Nigeria., dove il malcontento politico e la discriminazione economica trovano sfogo nella sfera religiosa.
Per evitare che il dialogo difficile diventi uno scontro violento dobbiamo fermamente reagire contro i fanatici che usano la violenza e negano i diritti umani, e d’altro canto dobbiamo offrire tutte le opportunità possibili alle gente che è ancora capace di una convivenza costruttiva.
Alla fine dello scorso luglio, quando era appena iniziato il Ramadan, ho incontrato per caso a Kibera, enorme baraccopoli di Nairobi, alcuni amici musulmani che in passato mi avevano aiutato a superare alcune difficoltà. C’era con me un gruppo di ex-ragazzi di strada, alcuni di loro musulmani, i quali da tempo mi avevano chiesto di poter pregare insieme ai ragazzi cristiani. Seguendo la loro ispirazione, ho chiesto di aiutarmi a preparare un incontro di amicizia fra musulmani e cristiani, organizzando insieme la festa finale per la chiusura del Ramadan. Abbiamo fatto un comitato, che ha deciso di invitare pastori di tutte le chiese cristiane presenti nel grande slum. Alla fine eravamo quasi trecento persone, radunatesi al calar del sole, dopo il tramonto dell’ultimo giorno di digiuno. Guidati degli imam locali abbiamo pregato e condiviso un pasto. Un semplicissimo gesto che purtroppo è parso straordinario, tanto che dopo qualche giorno l’imam più rappresentativo ed io siamo stati invitati da una televisione locale gestita da una chiesa protestante a spiegarne il senso.
La disponibilità a un convivere che non sia solo un indifferente tollerarsi, ma un costruire insieme una società più aperta e più giusta, esiste. Ma non dobbiamo perdere tempo. I segni che il baratro si sta allargando sono troppi. Lo scorso anno un’associazione di studenti musulmani sudanesi del Darfur, Sudan Sun Rise, espresse la volontà, in segno di riconciliazione e di apprezzamento per quanto fatto dal vescovo di Torit mons. Akio Johnson Mutek durante i lunghi anni di guerra civile, di aiutarlo a ricostruire la cattedrale, nel Sud Sudan, gravemente danneggiata, anzi praticamente distrutta durante il conflitto. In questi giorni, in seguito alle proteste di alcuni cristiani che non vogliono accettare il contributo dei musulmani per la ricostruzione della loro chiesa, il buon vescovo ha dovuto pubblicare una dichiarazione in cui rassicura il suo gregge che “non e stato fatto nessun passo, e la cosa è ancora oggetto di ampie consultazioni”. Davvero, non c’è tempo da perdere se non vogliamo che il dialogo diventi impossibile.