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November, 2022:

NEL CARCERE DI KAMITI, per perdonare anche se stessi

È un grande stanzone arredato solo con banchi. I ragazzi entrano in ordine sparso, lo sguardo abbassato, solo qualcuno lancia un’occhiata, forse per capire a cosa si deve preparare. Sono a Kamiti, nello Youth Correctional Training Centre (YCTC), e di fronte a me ci sono 182 ragazzi fra i 17 e 21 anni che sono stati condannati per crimini che vanno dallo stupro alla rapina a mano armata all’omicidio.


Ci sono arrivato due ore fa perché sollecitato da altri ragazzi che hanno amici qui imprigionati. Ho avuto incontri al massimo livello al ministero degli Interni per avere il permesso. Finalmente eccoci qui, il 5 ottobre. Con tre assistenti sociali di Koinonia abbiamo già ascoltato una presentazione dell’ufficiale incaricato e di altri funzionari, in prevalenza donne, che parlandoci hanno rivelato competenza educativa e conoscenza delle buone pratiche per la riabilitazione dei giovani delinquenti. Non manca la volontà di fare il possibile per aiutare questi ragazzi a reinserirsi nella vita normale. «Ma», è la conclusione, «abbiamo la responsabilità di 182 ragazzi e questo è quanto abbiamo a disposizione per il nostro lavoro. Venite a vedere». Appena al di fuori delle doppie mura del YCTC, ma sempre all’interno della Kamiti Maximum Security Prison, visitiamo un orto ben tenuto, tre o quattro serre, un frutteto, una conigliera, un pollaio, una porcilaia. Una piccola fattoria, che al massimo potrebbe mantenere una famiglia contadina. Torniamo all’interno, c’è dormitorio, un’aula con pochi libri da scuola elementare, un computer lab con otto postazioni ma un solo un computer funzionante, un minuscolo laboratorio per insegnare riparazione di auto, una stanza con una macchinetta taglia-capelli e lo stanzone in cui ci stiamo radunando. Tutto pulito (e i ragazzi mi confermeranno che è sempre così), ma strutture fatiscenti. Dimenticavo: un campetto da calcio e uno da pallavolo.
Molti dei ragazzi sono accasciati sulle panche con un evidente atteggiamento di disinteresse. Pochi lanciano occhiate incuriosite. Sono ovviamente ragazzi con un vissuto drammatico e sarebbe stupido presentarsi con un atteggiamento paternalistico, compassionevole, con vuote parole consolatorie. Dobbiamo dar loro attenzione e rispetto.
Chiedo: «Chi è di Kibera, Kawangware, Riruta Satellite, Dagoretti?». Si alzano senza esitazione una sessantina di mani. Un terzo di questi detenuti proviene dai quartieri di Nairobi dove lavoriamo con Amani. I nostri educatori raccontano il nostro impegno nell’accompagnare i ragazzi di strada, e quanto facciamo concretamente quando incontriamo chi ha bisogno di cura, di una mano amica, di un pasto, di un posto per non passare la notte al freddo. L’assemblea si fa attenta, non solo nascono domande, anche proposte di cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione in strada. I nostri amici percepiscono che la condivisione è autentica, i loro volti cambiano, riusciamo a leggerli e noi ci lasciamo leggere da loro, e loro si identificano nei ragazzi che descriviamo. Sono bastate poche parole di vicinanza per riaccendere nei loro occhi tutta la voglia di vita che era stata nascosta da una studiata o annoiata indifferenza.
Sono ragazzi smarriti. Hanno perso la strada, forse nessuno gliela ha mai indicata. È il tempo più difficile della loro vita. Cresciuti in una miseria devastante, che devasta anche l’anima, da bambini hanno accettato la loro situazione perché conoscevano solo quella, ma arrivati all’adolescenza hanno solo capito che questa non è una società fatta per loro. Loro qui sono solo scarti. Nella società tradizionale c’era una potente istituzione educativa – l’iniziazione – che garantiva un passaggio “dolce” tra l’infanzia e la maturità. Oggi la transizione è affidata ai social network, alle bande, ai bugigattoli coi pornofilm, alla martellante pubblicità dell’istantaneo e dell’effimero, ad adulti più sbandati di loro, fra i quali spesso i più “rispettabili” sono i più sbandati.
Però nonostante tutto adesso ci ascoltano con attenzione. Ci ascoltano anche perché con il sostegno economico di Amani e la presenza dei suoi volontari ci siamo costruiti ormai 30 anni di continuità e credibilità che non possono essere scalfiti. Loro sanno l’importanza delle piccole cose concrete. Alcuni di loro certamente hanno ricevuto cure gratuite nel dispensario di Kivuli, un pasto o una notte al sicuro a Ndugu Mdogo, la comprensione di Evelyne, di Robert, di Bonny a Mother House. Hanno avuto un amico morto di morte violenta che ha ricevuto una sepoltura decorosa. Costi minimi coperti con l’”emergncy kit” di Amani che li hanno fatti sentire umani e degni di essere amati.
Educare – l’ho imparato non sui libri ma nella strada, nell’incontro con i giovani – significa lasciare spazio alle potenzialità che ci sono nel cuore di ciascuno, essere aperti alla sorpresa, all’inaspettato, e lasciarla crescere nell’altro, e anche in te. Nutrirla con rispetto, riscoprendo ogni volta nella meraviglia, nella gratitudine e nella compassione che cosa vuol dire essere umani.
Dentro di noi nascono delle domande. Cosa potremo mai fare per loro? Coi problemi che ci sono fuori, letteralmente di sopravvivenza quotidiana, chi vuoi che si interessi a questo pugno di disgraziati che, dopotutto, sono accusati di crimini? Sappiamo bene che in tutto il mondo la giustizia è sbrigativa e fa molti errori soprattutto quando ha a che fare con i poveri. Quanti di questi ragazzi sono qui per sbaglio o hanno avuto una pena esagerata? Ma perché siamo qui? Perché, per usare un’espressione di Teilhard de Chardin, “c’è un’opera umana da compiere”, e se sei umano ti devi lasciar interpellare dall’umano.
Dopo oltre un’ora di assemblea chiedo se qualcuno vuole parlarci personalmente. Molte mani si alzano. Il direttore acconsente, e così ciascuno di noi raccoglie confidenze, rabbie, delusioni, strazianti richieste di ragazzi che ammettono di aver sbagliato ma vorrebbero una chance per ripartire. Alcuni – i cattolici – apprezzano il lavoro del cappellano delle carceri, il quale però, con pochi volontari che lo accompagnano, non ce la fa ad arrivare a tutti. Possiamo solo promettere di tornare.
Condividere, guardarsi negli occhi, lasciarsi toccare il cuore, aprirsi al possibile, anche all’improbabile, perché quando incontri veramente l’altro, capisci che tutto è Altro, tutto è Possibile, tutto è Improbabile. E capisci che il cammino della ricerca di Dio è lo stesso: avvicinarsi a Dio e avvicinarsi agli altri richiede gli stessi faticosi passi. Lo stesso perdersi nell’Altro.
Sul viaggio del ritorno in auto stiamo in silenzio per un po’. Poi Mugo dice: «Adesso ho capito perché al catechismo ci dicevano che bisogna visitare i carcerati. Mi sono sempre domandato chi abbia inventato questa cosa: dopotutto nel Vangelo Gesù non ha mai visitato i carcerati. A Kamiti ho capito meglio i miei limiti, le mie debolezze e fragilità. È stata una grande lezione. Provando compassione e perdono per gli altri sono riuscito anche a capire e perdonare me stesso. È strano che succeda proprio lì, ma è un posto dove senti che Dio ti prende per mano e ti mette sulle labbra le parole da dire».

IL MELOGRANO CHE VUOL RINASCERE, quarant’anni di Koinonia

Lusaka (Zambia) Da una settimana in Egitto è in corso la COP27. Inaugurandola Antonio Guterres, ha detto “Il clima è a un punto di svolta. Presto potrebbe essere troppo tardi per evitare una catastrofe. Un numero enorme di rifugiati, famiglie sfollate a causa del riscaldamento globale, potrebbero presto chiedere un rifugio ovunque lo trovino. Se non riusciamo a colmare l’enorme divario globale tra agiati e indigenti, saremo in rotta verso un mondo di otto miliardi di abitanti pieno di tensioni, diffidenza, crisi e conflitti”.

Qui, sul terreno di Koinonia, nella piccola fattoria di Laudato Si’ approfittando dell’inizio della stagione delle piogge, abbiamo continuato a fare ciò che possiamo fare per contrastare il riscaldamento globale e produrre cibo e che facciamo almeno da cinque anni: mettere a dimora piante da frutto. In questa settimana sono stati piantati sette manghi, quindici avocado, sei tamarindi, cinque mangostani, trenta papaie. Per rendere l’ambiente non solo più produttivo ma pure più bello abbiamo aggiunto tre jacarande e due flamboyant. Creato anche un vivaio con talee di fico, di pitaya (frutto del drago), senza contare bouganville, rose, rosmarino e erba salvia. Piccole cose per contrastare un grande cambiamento. Illusione? Solo convinzione che ciascuno deve fare la sua parte.

E’ stato anche un atto di riparazione per l’abbattimento di un grande albero indigeno quasi sessantenne la cui rigogliosa chioma era stata infestata in modo incontrollabile da un parassita che la usava come base da cui attaccare le 250 piante di papaia che abbiamo piantato tutt’intorno quasi due anni fa, rallentandone la crescita e la produzione di frutti. Per quanto il nostro esperto agronomo le abbia tentate tutte alla fine abbiamo a malincuore deciso di abbatterlo. Forse gli esperti climatologi ed ecologisti radunati a Sharm El Sheikh per la COP27 avrebbero potuto suggerici una soluzione meno drastica, ma la loro conoscenza non è accessibile a noi come ai centinaia di milioni di agricoltori africani che su questa terra vivono, lavorano e sudano ogni giorno. La partita del clima, come tante altre, si gioca non da quelli che ne subiscono le conseguenze, ma da quelli che hanno causato i danni. Dovremmo esserne tutti parte, ciascuno secondo i propri bisogni, mezzi e responsabilità.

Adesso il cielo è azzurro e luminoso, le nuvole basse, tanto basse che ogni tanto ti viene di chinare la testa per non cozzarci contro. La terra rossa che fino a pochi giorni fa aveva una gialla coperta di erbe secche e steli di mais rimasti dalla raccolta dello scorso aprile, è già coperta di tenero verde. I manghi sono carichi di frutti e di nuove foglie. Presto le tombe che il 2 novembre avevamo visitato insieme per ricordare i nostri fratelli e sorelle – mama Edina avvolta dall’invitante profumo di polenta che aveva appena finito di cucinare, i ragazzi fragranti dei fantasiosi profumi delle saponette a buon mercato usate per la doccia e i membri della comunità con ancor la zappa in mano – torneranno ad essere invisibili nell’erba che crescerà ad altezza d’uomo.

Ho speso buona parte degli ultimi quarant’anni calpestando questa terra e camminando con questi amici. Si, esattamente quarant’anni. Me ne sono accorto lo scorso gennaio quando, in un intreccio di cespugli vicino a Mthunzi ho intravisto un fiore rosso e avvicinandomi l’ho riconosciuto come un fiore di melograno. Cosa ci faceva li, quasi soffocato da altre due piante spontanee? Ho preso una zappa per ripulire e mentre lavoravo mi è venuto in mente che era il melograno che avevamo piantato nel giugno del 1982, quando con i primi ragazzi di Koinonia avevamo preso possesso definitivo della casa donataci dalla signora Joy Goodfellow. Il melograno simbolo dell’abbondanza della Terra Promessa, ma anche simbolo della Passione. Dopo la ripulitura abbiamo piantato un nuovo melograno ma la vecchia radice non completamente estirpata con queste piogge ha generato dei nuovi fittoni. Li abbiamo prelevati e messi nel vivaio. Un segno di continuità, di testardaggine, di fiducia nel futuro, altri quarant’anni di vita, che le difficoltà non riusciranno a sopraffare? Noi crediamo che la vita vince sempre, che i semi germoglieranno, che se anche noi non riusciremo con le nostre piccole azioni a sconfiggere la catastrofe climatica, alla fine ci saranno orizzonti più ampi, prati eternamente verdi, sorelle e fratelli eternamente vivi.

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