Di primo mattino a Kauda mi avvio verso il mercato. Poche persone in strada, solo due motociclette di marca cinese che fanno spola trasportando i più frettolosi.
Il mercato è piccolo, forse una cinquantina di box costruiti in mattoni cotti, tetto in lamiera, infissi di recupero, e banco di esposizione in legno e metallo riciclato dai contenitori di olio donati dal “popolo americano”. In alcuni piccoli “bar” che servono caffè tostato al momento e speziato con zenzero ci si può sedere sulle sedie rimovibili che si usano sugli aerei cargo. Provengono dai due aerei che si sono schiantati sulla pista poco lontana anni fa, prima del 2005 quando qui si arrivava solo con voli clandestini. Pochi altri espongono le mercanzie su stuoie in terra, al riparo dei grandi alberi o di tettoie improvvisate in legno e paglia. I prodotti alimentari locali esposti sono pochi. Siamo in quel periodo che nel gergo delle ONG viene chiamato “hunger gap”, il tempo della fame, perché il raccolto dello scorso anno sta per finire e l’abbondanza di verdura, frutta, durra, mais, noccioline eccetera tornerà solo alla fine di questa stagione delle piogge, a metà ottobre. Nonostante questo dall’inizio del viaggio non ho viso nessuno che appaia soffrire la fame.
Mi accorgo che uno dei motociclista sta confabulando con un gruppetto, lanciandomi occhiate. Poi mi si avvicina molto circospetto, mi chiede “Come ti chiami?” Quando dico il mio nome, mi tende la mano, ancora esitante, quasi temesse di toccare uno spettro, e chiama gli altri. Finalmente tutto il gruppetto mi saluta con ampi sorrisi e strette di mano. Sono ragazzi e ragazze che frequentavano la scuola di Kujur Shabia, a 20 chilometri da qui, e mi dicono con franchezza giovanile “Abuna (padre), pensavamo tu fossi morto!” Rievocano quella volta in cui erano venuti alla pista a prendere un cargo di libri, quaderni e penne che avevo portato con un vetusto C130, e si erano fatti oltre quindici chilometri per tornare alla scuola, ciascuno portando sulla testa una decina o ventina di chili di materiale, a seconda delle forze. Mi chiedono speranzosi “Hai portato libri anche oggi?”. Devo dire che purtroppo no, non è facile trovare donazioni di questi tempi. E che in Italia c’è un governo che non fa ben sperare… ma come faccio a spiegar loro chi sono Di Maio e Salvini? Mentre parlo rifletto su quanto sia normale che questi ragazzi abbiano pensato che io fossi morto. Mi vedevano arrivare 15 anni fa già coi capelli banchi e loro avevano forse dieci anni. Per loro è passata una vita. Hanno visto bombardamenti, morte, distruzioni, poi pace, poi di nuovo guerra. Tutti hanno perso i familiari più anziani, qui l’aspettativa di vita non va oltre i 50 o 55 anni.
Proseguo la visita al mercato con questo codazzo. Vedo su una stuoia tre mucchi di biscotti, apparentemente la stessa confezione ma a prezzi diversi. Ne compero qualche pacchetto a caso e ci mettiamo sotto un albero a chiacchierare. Il mio pacco di biscotti ha un gusto strano. Ridono quando vedono la mia espressione, e Heri, che fa la maestra, mi spiega: “la vecchia Fatuma vende da mesi una scorta di biscotti contrabbandati a spalla dalla zona governativa. Alcuni li vende a prezzo più basso perché erano nei sacchi insieme a noccioline rancide, ed hanno preso quel sapore. Altri ancora erano insieme a pesce secco…” A me evidentemente è capitato un pacchettino che ha viaggiato insieme al pesce secco.
Intanto qualcun altro ha saputo che sono arrivato. e mi si avvicina un ragazzo che si presenta: “Abuna, sono Abdul di Kau Nyaru”. Kau e Nyaru sono due piccole colline all’estremo sud-est dei monti Nuba, poi c’è grande fascia disabitata e si arriva sulle sponde del Nilo, dove vivono gli Shilluk. La famosa fotografa tedesca Leni Riefensthal vi aveva realizzato delle fotografie famosissime sia nel mondo dei fotografi che in quello degli antropologi. Avevo provato a raggiungerli a piedi nel 1996, da sud, ma avevo fallito. Nel 2003, durante il cessate il fuoco, era venuto a Kauda un gruppo mandato dal mek (il re) chiedendomi di inviare maestri per iniziare una scuola primaria. Quando sono riuscito ad organizzami per avere un’auto, mi avevano detto che ci sarei arrivato in sei ore di viaggio. Ce ne vollero 15, e arrivai a notte fonda con i due accompagnatori Nuba, e un po preoccupati perché il diesel stava per finire. Non sapevano del nostro arrivo. Il mek ci ricevette in signorile povertà, e il mattino dopo visitammo la struttura che avevano costruito con pietre e cemento faticosamente ottenuto da Khartoum che doveva essere la scuola. Le condizioni erano radicalmente cambiate dai tempi della Riefenstahl, il piccolo popolo dei Kau Nyaru era stato forzatamente e completamente arabizzato. C’era però voglia di aprirsi al mondo, di capire cosa stava succedendo al di la dell’isolamento a cui li aveva costretti la natura e la storia. Avevo promesso al mek che Koinonia avrebbe mandato quattro maestri nuba ogni anno, dato che ormai le nostre scuole formavano in loco maestri che potevano gestire una scuola almeno fino alla classe quinta. Poi la caduta delle donazioni dall’Italia ci aveva costretti a sospendere il programma ed avevo perso i contatti.
Adesso Abdul mi racconta che era fra i bambini che la notte del nostro arrivo erano stati svegliati per preparare l’acqua calda da offrire agli ospiti per lavarsi. Si ricorda, anche se allora non capiva perché, che poi eravamo andati alla ricerca del vecchio mulino a motore che non era più operativo da molti anni. Noi cercavamo, e trovammo con grande sollievo, del diesel sufficiente per riportarci a Kauda. Ma ci tiene ad aggiungere: “Qui a Kauda frequento il centro di formazione maestri con altri tre studenti di Kau Nyaru. Altri sette studenti della nostra comunità sono in un campo profughi in Sud Sudan per studiare da maestri. Abbiamo avuto dal mek la responsabilità di tornare a casa per riaprire la scuola”. Indomabili Nuba.
Una giornata intera al mercato, mille incontri. Una ragazza che vende oggetti vari di plastica made in China, quando mi avvicino al suo banco mi dice che siamo amici in fb, anche se riesce a connettersi molto raramente. E’ dispiaciuta quando non mi ricordo il suo nome, e le devo spiegare che in fb ho quasi cinquemila amici.
Fino al 2005 qui ci si muoveva solo a piedi e oltre alle poche cose essenziali che le ONG riuscivano a portare con gli aerei cargo – medicine, sementi, zappe, libri e quaderni di scuola – non si trovava nulla che non fosse stato ricavato dalla natura circostante. Allora la quasi totalità delle magliette indossate dai giovani portavano l’insegna di Koinonia. Oggi invece impongono “Fly Emirates”. Chissà come arrivano qui, dove credo le compagnie aeree abbiano ben pochi clienti.
(continua)