Quante guerre ci sono in Africa?” Il 9 ottobre, mi ero inserito negli ultimi chilometri della marcia da Perugia ad Assisi per la pace e la fratellanza quando una bambina di 10 o 12 anni, mi si è affiancata e mi ha posto questa domanda. Non ho risposto subito, mi son fermato un po ansante sul ripido approccio finale alla città di San Francesco ed ho fatto finta di pensare, mentre in realtà stavo semplicemente recuperando il fiato. “Proviamo a contarle insieme”, ho detto, prendendo il mio tempo e contando con le dita, “Sud Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Somalia … e poi, sai, le guerre hanno radici diverse, non si può farne semplicemente un elenco…” ma lei non molla “mio papà dice che tu vieni dall’Africa e sai rispondermi. Quante sono le guerre in Africa? ”
L’Africa è percepita in Europa come un continente in guerra. Nei mass media europei, dell’Africa si parla quando ci sono guerre, atrocità e violenza. Si crea una percezione sbagliata che è difficile da contrastare.
Di fatto l’Africa a sud dell’equatore, Repubblica Democratica del Congo a parte, non ha conosciuto nessuna guerra dall’inizio di questo secolo; gravi ingiustizie economiche e strutturali, sì, repressione e violenza interna sì, ma nulla che potremmo definire una guerra civile o una guerra tra stati. Al Nord le guerre si sono sviluppate tutte in una grande area di stati confinanti che includono Libia, Sudan, Ciad, Sud Sudan, Repubblica Centrafricana, la parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. Più due paesi non geograficamente confinanti con questa area, Mali e Somalia. Tutte queste guerre sfidano spiegazioni semplicistiche. Per capirne e spiegarne i legami, le somiglianze e le differenze non basterebbe un libro. Impossibile spiegarle in pochi minuti ad una bambina che molto probabilmente non sarebbe nemmeno in grado di localizzare questi paesi in un atlante geografico. Continuando il cammiano ho ripendato alle guerra africane che conosco meglio..
Alla base di ogni conflitto c’è un forte interesse nazionale o etnico. Spesso la dimensione nazionale viene rappresentata da una persona, un leader, che ne diventa il portavoce e l’icona, per il bene o per il male. In alcuni casi l’interesse, specialmente in campo economico, è cosi forte che il leader mette in second’ordine i bisogni e i diritti degli altri, incurante delle conseguenze. L’obiettivo, che sia il controllo delle risorse minerarie o le rivendicazione di sacrosanti diritti, diventa un idolo da raggiungere ad ogni costo. E il leader persegue il proprio interesse egoistico nascondersi dietro gli interessi nazionali. Il caso peggiore è il Sud Sudan, dove due leader hanno preso in ostaggio l’intero paese al servizio dei propri personali interessi, trasformando la vita dei cittadini in un incubo.
Quando mi è capitato di essere coinvolto in un paio di occasioni in “colloqui di pace”,che i colloqui falliscono se i leader hanno a cuore solo il proprio interesse e il proprio potere personale. Ai leader non interessano più le conseguenze che le loro decisioni possono avere per il popolo. Sono pronti a sacrificare senza esitazione la vita di migliaia persone. Ora, dopo molti anni, mi ricordo il commento di un anziano operatore umanitario americano in Sudan che mi disse “Padre, ho sentito che sei coinvolto nei colloqui di pace tra i nostri due ineffabili signori della guerra. In bocca al lupo! Secondo me è tanto utile quanto spalar m**** in salita”. Un po ‘volgare, ma saggio. Anche se, come cristiani, siamo disposti a spalare qualsiasi cosa pur di servire la pace, e mantenere aperte le possibilità di dialogo.
Sulla base dell’interesse nazionale si inseriscono alleanze internazionali, gli interessi economici delle grandi potenze e delle multinazionali, in genere petrolifere o minerarie, spesso esasperando e sfruttando le tensioni locali, fornendo armi e creando situazioni difficilmente sanabili. Sono il più grande ostacolo al raggiungimento della pace.
D’altra parte che imporre la pace con la forza delle armi, o la coercizione diplomatica, o il ricatto degli aiuti può dare solo i risultati a breve termine. I nodi irrisolti si riproporranno, a volte con modalità ancor più esasperate. Abbracciare la pace dopo anni di guerra e di violenza implica un vero e proprio cambiamento del cuore, un riconoscimento degli errori, un senso di pentimento. In caso contrario, la violenza e la guerra tornano.
La pace non durerà neanche se tutte le parti coinvolte non prendono parte al processo di pace. Tutte le rimostranze di tutti devono devono essere ascoltate. Tutti i diritti di tutti devono essere rispettati, altrimenti le voci represse torneranno a farsi sentire con più forza. Quando nel 2005 fu firmato il cosiddetto “accordo di pace globale” per porre fine alla guerra civile dell’allora Sudan unito, erano stati coincolti solo alcuni degli attori sulla scena politica e militare. I negoziatori si rifiutarono di ammetterne altri, considerati irrilevanti. Quegli attori “minori” avrebbero potuto essere un fattore stabilizzante, invece ora stanno contribuendo al caos.
La violenza genera altra violenza, si dice sempre. Dom Hélder Câmara, il vescovo brasiliano difensore della giustizia e della pace durante la seconda metà del secolo scorso, ha parlato di una “spirale di violenza”. Solo la nonviolenza può spezzare la spirale della violenza. “Nonviolenza” è diversa da “non violenza”. Quest’ultimo indica semplice assenza di violenza, mentre la nonviolenza prevede un processo attivo di costruzione della pace, e di educazione alla pace.
Quando gli interessi personali e nazionali prevalgono il perdente è l’interesse comune, o diremmo con Papa Francesco, il bene comune, il bene di tutti. In questi giorni di globalizzazione, il bene comune significa il bene di tutta l’umanità, il bene di tutto il mondo.
La costruzione della pace è un processo permanente. Non è sufficiente un cambiamento del cuore di tutte le parti, o di un’intera nazione. Il cuore umano è tale che se un granello di odio rimane nascosto, prima o poi crescere di nuovo come un albero velenoso. Una pace duratura richiede un impegno costante, l’educazione ai diritti umani, il rispetto per gli altri, la dedizione al bene comune.
Noi cristiani siamo chiamati da Gesù ad essere operatori di pace, abbiamo una speciale responsabilità. Come chiesa abbiamo una straordinaria capacità di raggiungere il cuore delle persone e di educare alla pace.
I marciatori sono ormai quasi tutti arrivati sulla Rocca sopra Assisi dove sarà lanciato un ultimo appello per la pace, prima che si disperdano. La bambina è ancora accanto, e mi scruta con occhi curiosi. Certamente sta per ripropormi la domanda iniziale. Cosa le posso dire? “Lascia perdere i numeri, guarda le persone. Se tu ed io continuiamo a camminare sulla via della pace un giorno non ci saranno più guerre.”
October, 2016:
To make peace on the road to Assisi – Fare pace in cammino verso Assisi
Perché partecipare alla Marcia Perugia – Assisi
Mi hanno chiesto perché il 9 ottobre parteciperò alla Marcia della Pace e della Fraternità da Perugia ad Assisi.
E’ molto semplice.
Perché ho visto la guerra. Sui Monti Nuba in Sudan ho visto la popolazione civile rifugiarsi nelle grotte e viverci per settimane per sfuggire ai bombardamenti del governo di Khartoum. Gli occhi terrorizzati dei bambini. La paura che ti rode le viscere quando senti i fischi e poi le esplosioni delle bombe che ti cadono tutto intorno. Le grida di chi fugge e dei morenti. L’odore di morte quando tutto è finito.
Perché ho visto le conseguenze della guerra. Ho visto il campi dei darfuriani rifugiatisi sui Monti Nuba. Dei nubani rifugiatisi in Sud Sudan. Dei sudanesi, somali, ruandesi, burundesi rifugiati in Kenya e in Zambia. Conosco il degrado e la miseria dei rifugiati che vivono nella periferia di Nairobi. Il dolore del vivere lontano dalla famiglia. La disperazione che spinge a tentare di andare ancora più lontano, a rischiare la vita, attraversare il mare andando incontro ad un mondo ignoto.
Perché ho conosciuto i mutilati, gli ex-bambini soldato, gli occhi spenti di chi ti racconta la morte orribile dei propri cari
Sarò alla Marcia da Perugia ad Assisi perché sono consapevole che nel mondo è in atto in grande conflitto alimentato dai mercanti di armi, dai drogati del potere, dai prigionieri dell’odio e dell’egoismo, ai danni dei poveri e dei senza potere. Partecipando alla marcia vorrei diventasse chiaro che nonostante le mie incoerenze mi voglio schierare dalla parte delle vittime dell’ingiustizia e della sopraffazione, contro la cultura della morte e dello scarto. Vorrei che questa marcia rappresentasse la volontà di tanti di fermare nuove guerre, nuove violenze.
Perché non voglio essere corresponsabile delle sofferenze di tante vittime innocenti: i bambini, gli anziani, i perseguitati, le persone abusate, private di libertà e di dignità, gli esuli, i profughi. Tutti coloro ai quali è stato rubato il gusto della vita. Perché non vorrei partecipare mai più a giornate di ricordo per i disperati che sono morti in mare sfuggendo alla guerra, ma a giornate di gioia per celebrare la fraternità ritrovata.
Perché credo in una chiesa che preferisce accogliere piuttosto che giudicare, stare dalla parte dei poveri, dei perseguitarti, delle vittime delle guerre piuttosto che dei vincenti. Perché credo che potremmo essere vincenti tutti insieme solo costruendo fraternità e pace.