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September, 2015:

Il Dottore dei Nuba – The Nuba’s Healing Hand

Tom Catena

Il dottor Tom Catena, statunitense di origine italiana, è stato incluso dalla rivista Time tra le 100 persone più influenti di oggi, vedi http://time.com/3823233/tom-catena-2015-time-100/

Andrew Berends sul Time dello scorso 16 aprile lo presenta cosi.

Incontrare Tom Catena è stato per me come incontrare un santo. Gestisce un ospedale sulle Montagne Nuba del Sudan con un livello senza pari di devozione alla sua fede cattolica e alla gente Nuba che ha bisogno di lui. Gran parte della regione è controllata dai ribelli. I civili lottano per sopravvivere, in mezzo a combattimenti, bombardamenti aerei e alla fame cronica causata dalla guerra. Le organizzazioni umanitarie non sono autorizzate a portare aiuti. Il dottor Catena sfida il divieto ed è l’unico chirurgo che serve una popolazione di 750.000 persone. Lavora instancabilmente, giorno e notte, curando di tutto, dalle ferite di guerra alla fame. Mi dice che la sua più grande ricompensa è il senso di pace che viene dal servire le persone bisognose, ribelli e civili senza distinzione. Nonostante le difficoltà, è esattamente dove vuole essere.

Solo dopo qualche settimana l’amico padre José Rebelo, comboniano direttore delle rivista Worldwide in Sudafrica, mi ha segnalato la cosa e, sapendo che conosco il Dr. Catena da tempo, mi ha chiesto di aiutarlo ad intervistarlo. Non è stato facile, il personaggio è schivo e di poche parole, e non ha mai lasciato i Monti Nuba da quando si è preso la responsabilità dell’ospedale, ormai quasi otto anni fa. Ma con internet José è riuscito a superare l’isolamento dei Monti Nuba e a convincere il dottor Catena a parlare. Ecco una sintesi dell’intervista.

Da quanto tempo lavora sui Monti Nuba? Come è arrivato qui?

Sono qui da quasi sette anni e mezzo. Ho sentito parlare dei Monti Nuba da Suor Dede Byrne. Nel 2002 mi disse che il vescovo comboniano Max Macram stava progettando di costruire un ospedale in Sudan. Contattai l’ufficio del vescovo, a Nairobi, e cominciai a discutere con loro i dettagli relativi all’apertura dell’ospedale. All’inizio del 2008, eravamo pronti ad aprire. Una suora comboniana, Suor Angelina, è stata la direttrice dell’ ospedale sin dall’apertura e ci sono altre due Suore Comboniane (Sr Rocio e Sr Vincienne) che lavorano qui con noi.

Lei ha lavorato in altri paesi africani, ma ha detto che i Nuba sono speciali. Che cosa li rende speciali? Che tipo di legame la lega a loro?

Una cosa che mi ha colpito fin da subito è che sono un popolo fiero e indipendente, e mi hanno sempre trattato da pari a pari, non come qualcuno sopra di loro o sotto di loro. Mi piace il fatto che una donna anziana qui mi chiami per nome, e non ‘dottore’ e non mi tenga a distanza, anche se io sono uno straniero.Sen to una forte connessione con la gente, e credo nasca dal condividere paure e sofferenze comuni. Dopo aver trascorso qualche tempo qui, uno si sente tagliato fuori dal resto del mondo, e tende a sentirsi sempre più vicino a coloro che sono rimasti in questa parte dimenticata del mondo. Qui sono a mio agio, questa è casa. La gente è molto riconoscente di quanto si fa per loro. L’anno scorso, abbiamo ricevuto una donazione di scarpe provenienti dagli Stati Uniti e le abbiamo mandate con una delle Suore Comboniane in un villaggio molto lontano. Due settimane più tardi, 40 persone provenienti da quel villaggio hanno camminato per tre ore sotto la pioggia battente per portarci alcuni semplici regali e cantare e ballare per noi in segno di ringraziamento. C’è voluto un po di tempo perché crescesse le fiducia reciproca. Non si fidano facilmente degli stranieri, a causa dei secoli di oppressione che hanno sofferto per mano di estranei. Ci si deve guadagnare prima la loro fiducia, ma una volta fatto ciò, si costruisce un rapporto che supera ogni difficoltà.

Quali sono le sue attività quotidiane? Che tipo di interventi esegue abitualmente?

La giornata inizia tutti i giorni con la messa alle 06:30 Siamo fortunati ad avere due sacerdoti che ci garantiscono la Messa quotidiana. Ogni lunedì, martedì, giovedì e sabato, faccio un giro completo dell’ospedale visitando tutti i ricoverati dalle 07:30 alle 13:00, per poi andare alla clinica ambulatoriale. Vi resto solitamente fino alle 17:00 o 18:30, a seconda del periodo dell’anno. La notte è per le email, il lavoro amministrativo e le emergenze. Facciamo fra i 150 e i 200 interventi al mese, coprendo l’intera gamma della chirurgia: drenaggi di ascessi, estrazione di denti, shunt ventricolo-peritoneale su neonati con idrocefalo. Il nostro anestesista è stato addestrato sul posto e fa un lavoro eccellente.Far arrivare i farmaci qui da Nairobi è una vera sfida e richiede un enorme sforzo da parte del personale dell’ufficio di Nairobi per gli inevitabili ostacoli logistici e i costi altissimi.

Quali le maggiori esigenze della gente? Personalmente cosa le manca di più?

Qui non c’è stato sviluppo. Le strutture di assistenza sanitaria sono pressoché inesistenti. Ci sono poche scuole, alcune delle quali gestite dalla diocesi, e altre dove operano insegnanti locali non addestrati. Tutte le scuole sono state chiuse durante i primi tre anni di guerra civile, ma molte hanno riaperto quest’anno. Non ci sono strade asfaltate, la maggior parte delle strade sono piste aperte attraverso la boscaglia. Non c’è acqua corrente, elettricità, niente.

Spesso siete stati in pericolo. Quante volte si è trovato sotto i bombardamenti?

L’ospedale è stato preso di mira direttamente due volte. Sono state sganciate undici bombe su l’ospedale e gli immediati dintroni, ma non ci sono state ne vittime ne danni importanti, Il nostro villaggio è stato bombardato in altre due occasioni. I bombardieri del governo sudanese ci sorvolano con frequenza dall’inizio del conflitto più di quattro anni fa. Il suono dei bombardieri ci fa correre a cercare protezione nelle trincee. Ogni volta potrebbe essere le tua volta.

Cosa le dà la forza per continuare questo servizio solitario e difficile?

Credo che le preghiere di molti mi abbiano sostenuto nel corso di questi ultimi anni. Sono sempre stupito di sentire da sconosciuti che stanno pregando per noi, e io credo fermamente nel potere della preghiera.

Quando vede tanta sofferenza non si sente la tentazione di scappare?

Sì, certo ogni tanto avrei bisogno di andarmene lontano da tutte le sofferenze e i problemi. Quasi ogni giorno ci sono situazioni che sono veramente difficili: un neonato o un bambino che muore, un paziente con complicazioni post-operatorie, qualcuno che è molto malato e io proprio non riesco a capire il problema. La mia unica consolazione è sapere che io non sono perfetto e che l’ultima parola è di Dio. Il mio ruolo è quello di fare del mio meglio ed essere fedele alla mia vocazione. Dopo che un paziente muore ne soffro molto e poi cerco di imparare qualcosa dalla situazione. Devo combattere per rimaner concentrato e tornare al lavoro. Se fossi sopraffatto dal dolore non sarei in grado di aiutare il paziente successivo.

Il suo lavoro ci ricorda Madre Teresa che lottava in un oceano di morte e sofferenza e che per molti anni si senti “disconnessa” da Dio.

Sì, capisco bene come possa aver sofferto madre Teresa. Personalmente non posso direi di aver avuto crisi di fede, ma piuttosto mi sento “disconnesso” dalla società occidentale. Mi sembra che gli altri non possono capire quello che sto vivendo. Mi piacerebbe lavorare un po di meno e poter pregare un po di più. Io sono in pace durante i 20 o 30 minuti prima che inizi la Messa del mattino. Posso pregare e riflettere senza distrazioni.

Qual’e la difficolta piu grande?

I momenti più difficili sono stati quelli in cui ho avuto conflitti interpersonali con gli altri. Questi sono molto peggio di qualsiasi pericolo o paura per i bombardamenti. Questi conflitti sono inevitabili in un ambiente di stress elevato come il nostro, ma la nostra fede ci insegna che dobbiamo intraprendere il percorso lento e difficile della riconciliazione.

Lei è in contatto quotidiano con la sofferenza di persone vittime di una guerra che è dimenticata dalla comunità internazionale. Come si sente, cose vorrebbe chiedere ai leader del mondo?

Sì, spesso ci sentiamo dimenticati dal resto del mondo, questo è un relativamente piccolo conflitto in un angolo remoto. La tragedia è che la gente soffre ormai da 30 anni, e non si vede come il conflitto possa terminare.
Credo che molte delle sofferenze potrebbero essere alleviate se ci fosse pressione sul governo del Sudan perché consenta di far arrivare aiuti umanitari alle montagne Nuba. Le organizzazioni internazionali che normalmente forniscono aiuti alimentari, vaccini e farmaci hanno paura di venire fin qui perché sarebbe un’operazione ‘transfrontaliera’ che violerebbe la sovranità del governo sudanese. I leader mondiali potrebbero usare la loro influenza per spingere il governo sudanese ad aprire un corridoio umanitario, ma sembra non ne abbiano la volontà politica. Questo conflitto non attira l’attenzione di nessuno.

Il papa-pastore e la nuova Europa

All’Angelus di ieri papa Francesco ha chiesto tutte le parrocchie, comunità religiose, monasteri, santuari di accogliere una famiglia di profughi. Il grido di Giovanni Paolo II, “aprite le porte a Cristo” diventa concreto in perfetto stile evangelico. Il Cristo da accogliere è una famiglia di profughi.
Con questo intervento e con altri che ha compiuto nel suo pontificato, Francesco ci sta re-insegnando il Vangelo e ci sta indicano la via per la ri-costruzione dell’Europa.

È un passaggio che la politica fa fatica a capire. Lo interpreta come ingerenza, ma tale non è. È semplicemente Vangelo vissuto che fa esplodere la politica dall’interno, e costringe le leggi, i regolamenti, i confini, soprattutto i confini mentali, ad adeguarsi alla vita.

Gli ungheresi, gli austriaci, i tedeschi che a centinaia, a migliaia si sono rifiutati di obbedire alle leggi e hanno soccorso, rifocillato, trasportato, ospitato, sorriso e applaudito i migranti ci hanno dimostrato che un altro grido che stava diventando un trito luogo comune può essere davvero vissuto: “un altro mondo è possibile”. Davvero siamo prima di tutto esseri umani, fratelli e sorelle, e poi siamo anche siriani, sudanesi, eritrei, musulmani e cristiani. Prima di tutto umani.

Ricordiamoci che qualche giorno fa il segretario generale della Cei, Galantino aveva fatto un intervento “politico”, attaccando quei partiti che cercano voti sulla pelle dei migranti. Ci sono state reazioni durissime, ma ovvie: sei i vescovi scendono nell’arena politica, troveranno risposte politiche. Ma questo è perché alcuni che fanno politica, e magari sono cristiani battezzati, non capiscono che il Vangelo è ben più lungimirante ed esplosivo delle ideologie politiche.

Gli istituti religiosi, comboniani in primis, sono chiamati a calare nel quotidiano la proposta del papa, e a dare una risposta pubblica, veloce e concreta. Chi nelle parrocchie e nelle case religiose cerca giustificazioni al non fare – evocando tutte le difficoltà possibili ed immaginabili, anche a livello di leggi e di regolamenti locali, di incompetenza nel gestire i rapporti con questure e prefetture, di difficoltà nel reperire il personale che si occupi adeguatamente di questo fatto – non ha capito la profezia di questo gesto.

Piccolo mondo egoista

Il nostro mondo europeo è ormai piccolo non solo geograficamente, e ha dato segni di diventare progressivamente sempre più meschino, gretto, chiuso nel proprio egoismo. Di fronte ai drammi del disastro ecologico e delle guerre – per i quali abbiamo responsabilità gravissime – siamo presi dal panico e rispondiamo alla crescente richiesta di solidarietà con l’indifferenza dei padroni e dei ricchi. E finiamo per diventare un piccolo mondo che si pensa al centro dell’universo e non capisce che al di là dei nostri confini c’è un nuovo grande mondo ribollente di vita, di progetti, di voglia di dignità.

Cosi crediamo a chi vuol farci percepire lo straniero come una minaccia, come colui che vuole derubarci della “nostra roba” e della “nostra identità”, invece che come “colui senza il quale vivere non è più vivere”.
Sbaglia chi crede di poter fermare con le leggi questa ondata di vita che viene ad abbracciarci. Fortunatamente per tutti noi, sono degli illusi. La legge non cambia la storia; anzi, quasi sempre la legge è costretta a seguirla, soprattutto quando si tratta di eventi epocali come le migrazioni oggi in atto. Chi invece cerca di capire la storia incomincia a vedere che la solidarietà o diventa globale o non ha più senso.

Gli egoismi di classe e di nazione sono il linguaggio del passato. Fra pochi anni i politici che hanno inventato i muri che dividono le nazioni come fra Messico e Stati Uniti, fra Israele e Palestina, fra Ungheria e Serbia, chi ha attuato i respingimenti, e chi ha fomentato intolleranza e razzismo, saranno consegnati alla storia come sopravvissuti di un’era in cui nessuno più si riconoscerà.

Nostri fratelli

Che bello questo papa-pastore che ci invita ad accogliere i rifugiati non per fare un’opera sociale, non per calcoli diplomatici o per cambiare equilibri geopolitici, ma “solo” perché queste persone «sono la carne di Cristo». E come meravigliarsi che chi ragiona solo in termini di economia e diplomazia non lo capisca e lo critichi?

Il corpicino di Alan, i corpi dei mille e mille morti affogati nel Mediterraneo vengono da questo gesto trasfigurati in un grande segno di speranza per i vivi. Stiamo imparando a riconoscerli come persone che venivano a noi con la speranza di essere considerati dei fratelli. Essi, che sono già con Colui che è davvero e definitivamente l’Altro, avevano capito ciò che noi fatichiamo a intravedere. Forse essi stessi pensavano di essere dei disperati che venivano a chiedere il nostro aiuto, in verità erano profeti capaci di vedere il futuro che è già qui nel presente. Già aspiravano ad una nuova Europa. Come qualcuno ha già fatto notare, sono loro a creare la nuova identità europea.

From Streets to Social Worker: Yama Kambole’s Story of Commitment

Yama Kambole was picked up by a Mthunzi social worker from the streets of Lusaka in 2001, aged five. Three years ago, after completing his high school, Yama decided to pursue a Diploma in Social Work, and now he is doing his first work experience in the same place where he grew up. His love and passion to work with the children, plus his winning smile, are making him a popular big brother. Catch a glimpse.

http://koinoniacommunity.org/streets-social-worker-yama-kambole%E2%80%99s-story-commitment

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