Non è uno scontro di civiltà, è una scelta di civiltà.
La strage di Garissa sta cambiando l’autocoscienza del Kenya come la strage di Westgate non era riuscita a fare. A Garissa sono morti studenti, giovani, figli di famiglie che avevano riposto in quei giovani le speranze di tutti. Giovani, letteralmente, di tutti i popoli, e lingue e religioni del Kenya. Giovani che studiavano inseguendo il sogno di una promozione sociale, ma anche di un Kenya più giusto dove tutti i cittadini possono avere gli stessi diritti. Esattamente l’opposto dei loro assassini, rappresentanti di una società fanaticamente chiusa su sé stessa e incapace di dialogo.
Ne sono state vittime anche musulmani, non solo fra gli studenti uccisi. Ne è stata vittima la mamma musulmana che abbiamo visto piangere disperatamente abbracciata alla salma del figlio ucciso a Garissa. Tutti gli altri musulmani adorano il vero Dio, Misericordioso e Benevolo. La ferocia degli assassini non può più essere travestita da zelo religioso. I massacratori di Garissa erano gli esecutori di piani pensati da persone che in Dio non credono. Perché credono solo nel potere e nella ricchezza.
In questi giorni il governo del Kenya sta reagendo in modo scomposto, ansioso di mostrare che sta prendendo tutte le misure necessarie per accrescere la sicurezza, dopo la fallimentare gestione della crisi. Eccolo quindi a sospendere i conti bancari di molte organizzazioni e ong islamiche, senza peraltro provare che queste organizzazioni abbiano un qualsiasi legame col terrorismo. Si è riproposto di chiudere entro tre mesi il campo dei rifugiati somali di Dadaab, rimpatriandoli tutti, un’impresa titanica oltre che sbagliata, quasi impossibile da realizzare anche da un governo dotato di polizia e amministrazione efficienti e incorruttibili. Ha annunciato solennemente che metterà in sicurezza la frontiera costruendovi un muro – non è stato specificato quanto alto – ignorando forse che dovrebbe essere lungo oltre settecento chilometri, ponendo problemi enormi di costruzione, gestione e sorveglianza. Un ministro ha addirittura proposto che prima di accedere all’università tutti gli studenti facciano un corso obbligatorio di antiterrorismo.
Non possiamo dimenticare che il terrorismo somalo contro il Kenya è stato scatenato dalla decisione nel 2011 dell’allora presidente Mwai Kibaki, di inviare truppe kenyane in Somalia, ufficialmente parte dell’AMISOM (Missione dell’Unione africana in Somalia) per ristabilire il potere del governo che si era installato a Mogadiscio con l’appoggio delle potenze occidentali. Gli Stati Uniti in particolare avevano fatto enormi pressioni su Kibaki, garantendogli il supporto logistico per intervenire là dove l’esercito americano aveva miseramente fallito vent’anni prima. I kenyani vennero a sapere di questo intervento a cose fatte, quando già i loro soldati erano entrati in Somalia. Oggi nessuno può dire con certezza quanti soldati kenyani siano morti in Somalia. Probabilmente molti ma molti di più degli studenti morti a Garissa, ma i veri numeri li conoscono solo al Pentagono. Il Kenya è stato lasciato solo a pagare il conto della violenza.
La società civile kenyana, le ong, le comunità religiose delle diverse fedi hanno assunto atteggiamenti più sfumati e ragionevoli che non il governo. Sia nei mass media che negli ambienti che frequento, e sono i più vari, non ho sentito una voce in favore di risposte violente o meramente punitive. Tutti capiscono che il cancro è interno, il mostro da abbattere è prima di tutto dentro di noi e poi all’interno della società. Il grande mostro in Kenya, da cui nascono tutti gli altri mali, è la corruzione.
Personalmente ritengo che in questa crisi epocale dobbiamo abbandonare la logica della violenza e dimostrare di credere per davvero ai grandi principi che in Europa e America del Nord, più che altrove, sono cresciuti e sono stati codificati: giustizia sociale e diritti umani, democrazia, rispetto della vita di tutti. Questi valori rappresentano una conquista di tutta l’umanità. Non possiamo permetterci di sospenderli neanche mentre resistiamo alla furia di un fanatismo ottuso e retrogrado.
Sappiamo però che nelle stanze dei bottoni delle grandi potenze predominano ancora altre logiche. Succede così che paesi grandi per il loro potere economico-militare si rivelino poveri di anima e di visione. Potenze grandi nelle loro affermazioni e discorsi si rivelano meschinamente dedite alla difesa dei propri venali interessi. Grandi per il livello medio di vita, ma piccole, piccolissime perché succubi dell’economia e della finanza.
Mentre guardo sui giornali di Nairobi le foto degli studenti di Garissa mi pare di sentire da loro un invito a uscire dalle logiche meschine, per guardare il mondo con occhi grandi e aperti. Occhi capaci di sognare, ma anche di leggere la storia. Ecco perché il massacro di Garissa non può essere disgiunto dall’immane tragedia in atto nel Mar Mediterraneo. Ciò che vi sta avvenendo, l’ondata dei richiedenti asilo, dei profughi economici, i drammi delle centinaia di annegati, aggravati, dramma nel dramma, dalla disperazione di poveri cristi musulmani che buttano a mare altri poveri cristi cristiani, i morti per mancato soccorso perché nei corridoi del potere dell’Unione europea c’è ben altro a cui pensare, fa parte della stessa storia degli studenti di Garissa.
Della stessa storia fanno pure parte gli operatori della finanza, dell’economia e della politica che a New York, Washington, Londra, Parigi, Mosca, Milano e Beijing, continuano a dividere il mondo in “noi” e “gli altri”, coloro che manovrano i mercati così che chi in Africa estrae il coltan, coltiva le rose, produce il cacao, il tè e il caffè, continui a vivere nella miseria più disperata. Della stessa storia fanno parte i fabbricanti e mercanti di armi che hanno riempito questa nostra madre Terra di ordigni sempre più sofisticati per uccidere, invece che di energia pulita, agricoltura biologica, informatica per lo studio e di pace. E in questa storia sono anche i politici che seminano divisione e odio, che parlano di ributtare a mare gli immigrati, che hanno deciso di tagliare i fondi italiani ed europei alle operazioni di salvataggio in mare. Le mani, probabilmente ben curate di questi signori grondano del sangue dei loro fratelli come, anzi di più, di quelle dei poveri disperati che scaraventano in mare altri disperati.
I signori della guerra che operano dalla grandi capitali del mondo, e che la guerra la fanno fare agli altri perché loro sono troppo occupati a far soldi, sono per lo meno altrettanto colpevoli delle sofferenze di questo nostro mondo quanto i signori della guerra della Somalia, del Sudan e della Libia.
Continueremo a rispondere alla violenza con una violenza ancora più grande, più pervasiva, meglio camuffata? Questa è ormai una scelta che siamo tutti chiamati a fare, come individui e come società. Saremo capaci di fare tutti insieme un passo in avanti, di superare le divisioni e i confini e, almeno come ideale se pur lontano, muoverci verso una comunità internazionale in cui veramente tutti abbiano gli stessi diritti?
Come reagire alla violenza e al pericolo non è dato sapere finché non ci si trova dentro. Personalmente mi chiedo quale sarebbe la mia reazione se venissi a trovarmi faccia a faccia con un violento che vuole uccidermi. Tenterei una disperata difesa usando violenza? O cercherei di far leva sul residuo di umanità che anche i più incalliti terroristi si spera abbiano nascosto in fondo al cuore? Non lo so. Forse, per salvare altri a cui voglio bene, tenterei anche la difesa violenta…
Ma vorrei sperare di poter reagire come hanno fatto i cristiani su quel barcone che si sono opposti alle violenza di chi voleva gettarli in mare avvinghiandosi l’un l’altro, come hanno fatto quei quaranta giovani, seminaristi burundesi, che nel 1995 in risposta a che voleva separali lungo linee tribali, hanno preferito morire abbracciati, o come i lavoratori egiziani decapitati in Libia pronunciando il nome di Gesù.
Sono comunque contento della compagnia in cui mi ritrovo, o in cui mi ha posto la somma di piccole scelte che ho fatto nella vita. Oggi, domenica, a Kivuli, estrema periferia di Nairobi, ho passato il pomeriggio ad ascoltare giovani che sono stati travolti dalla povertà, dalla droga, si sono invischiati nella piccola criminalità… per riprogettare insieme il loro futuro. Ho trovato persone capaci di sorridere di sé stesse, di piangere, di gridare disperate, di voler bene, di impegnarsi a cambiare. Esseri umani, vivi e veri, che sfidano anche me a essere vivo e vero. Persone, coetanee degli studenti di Garissa, che puzzano di povertà. È insieme a loro che anch’io, con tutte le persone che magari pensano di non essere coinvolte in questa storia, voglio che ci liberiamo dalla “spuzza” di corruzione, di odio e di morte che tutti, tutti, ci portiamo addosso.