Papa Francesco ha fatto ripartire il Concilio, anche se per molti sarà difficile dimenticare le delusioni dei decenni appena trascorsi.
Evangelii Gaudium, l’esortazione apostolica di papa Francesco pubblicata pochi giorni fa, è la conferma che il Concilio Vaticano II, con le sue grandi aperture e visioni, è tornato al centro della vita della Chiesa. Questo è per me, missionario di periferia, il significato complessivo del documento. Il Vaticano II deve essere vissuto, non studiato, analizzato, e poi rimesso in archivio, come si e spesso fatto nei quasi cinquant’anni che sono trascorsi dalla sua chiusura. Papa Francesco, il primo Papa che non è stato presente al Concilio, come invece lo sono stati in vesti diverse i suoi immediati predecessori, ne è un autentico figlio.
Papa Francesco ha rimesso in movimento il Concilio. Non lo nomina in continuazione, ma non ce n’è bisogno, perché ogni sua frase ne è ricca di rimandi. Cosi come non fa continuamente citazioni evangeliche e bibliche, ma le sue azioni più che le sue parole evocano continuamente il Vangelo.
Probabilmente molti fedeli e molti preti della mia età, quelli che da giovani adulti e giovani preti hanno vissuto gli anni straordinari del dopo-Concilio, ancora stentano a crederlo. Molti non si sentono preparati a ripartire. Bisogna dirlo, troppe sono state le delusioni.
Mentre gli apologeti di professione, i missionari da scrivania, i teologi da salotto, i testimoni di se stessi, si affannano a spiegarci le parole e i gesti del Papa (il quale non ha proprio bisogno di interpreti), quelli che si sono tenuti in disparte, i laici e i preti che negli ultimi decenni si sono impegnati a portare avanti le linee conciliari quasi nascostamente, stanno col fiato sospeso ad ascoltare Papa Francesco che parla di uscire, di rischiare, di non temere i richiami del Sant’Uffizio, ed hanno nel cuore un misto di entusiasmo e di cinismo. Finalmente sentiamo un Papa parlare cosi! È il Papa che sognavamo da anni. Ma durerà? E, sopratutto, avremo ancora le forze per rimetterci in strada?
Per me le ultime speranze di poter vedere nel tempo delle mia vita un vero profondo cambiamento nella vita della Chiesa si erano quasi spente dopo il primo Sinodo Africano nel 1994. I migliori teologi africani esclusi e poi gradualmente rimossi dell’insegnamento nei seminari e nelle facoltà teologiche. Ogni tentativo serio di inculturazione definitivamente archiviato, sia pur dopo aver accettato al Sinodo che l’inculturazione è una priorità. Un susseguirsi di nomine vescovili per personaggi scelti per un’ortodossia assoluta e la prudenza, anzi l’immobilismo, paralizzante.
Chiesi un’opinione sul Sinodo Africano al cardinal Martini, mi disse laconico: “Ormai i Sinodi sono diventati un modo per livellare tutti i vescovi sul minimo comun denominatore”. Alcuni missionari che erano stati attivi in Africa nella promozione del laicato, nel far crescere nella chiesa uno spirito di co-responsabilità e collegialità, scomparvero dalla scena, e uno di loro mi confidò con amarezza: “Non c’è spazio. Si può fare qualcosa di innovativo senza incorrere in sanzioni ormai solo nell’ambito dell’impegno sociale, ma a condizione che sia mascherato da attività caritativa tradizionale”. Per anni abbiamo visto preti impegnati in nuovi ambiti pastorali bollati come teste calde ed emarginati. La creatività pastorale metodicamente punita e il supino adeguamento alle norme metodicamente premiato.
Nei miei ricordi un sorriso pieno di speranza, quello di Bernhard Haring, il grandissimo teologo moralista che aveva riformato la teologia morale nella seconda metà dello scorso secolo, il cui insegnamento spesso oggi riecheggia nelle parole di papa Francesco, e che fu emarginato e alla cui morte il quotidiano vaticano non aveva giudicato valesse la pena di dedicare una riga. A un amico che nel 1994 gli chiedeva come vedesse il futuro della Chiesa, rispondeva con la sorridente fermezza che gli era consueta “Non preoccupatevi. Tutto il ciarpame che maschera il volto luminoso della chiesa di Cristo crollerà presto come un castello di carte”.
Ecco, adesso è arrivato un Papa che chiede che si preghi per lui, che non si sente giudice ma pastore e fratello, che vuole una Chiesa meno preoccupata della conformità alla dottrina e più capace di attenzione ai poveri, di coraggio per uscire da se stessa, di capacità di riformarsi per adeguarsi – anche il papato – sempre di più al ruolo di servizio che le è proprio. Che vuole rimettere Cristo al centro.
Ma saremo noi anziani preti ancora capaci di credere “nella rivoluzionaria natura dell’amore e della tenerezza”? Saremo capaci di ripartire? Saremo capaci di seguire questo anziano e giovanissimo Papa?
Pope Francis has restarted the Council, although for many it will be difficult to forget the disappointments of the past decades .
Evangelii Gaudium, the apostolic exhortation of Pope Francis published a few days ago, is the confirmation that the Second Vatican Council, with its openings and visions, has returned to the center of the Church’s life. This is for me, a missionary of the peripheries, the overall meaning of the document. The Vatican II documents should be lived, not studied, analyzed , and then put back in the library shelves, as we often did in the almost fifty years that have passed since its closure. Pope Francis, the first Pope who was not present at the Council, as instead his immediate predecessors have been in various guises, is truly a son of the Vatican II.
Pope Francis has put it again in motion. He does not name it all the time, but there’s no need, because every sentence it is rich in its references. So how does not frequently use evangelical and biblical quotations, but his actions more than his words evoke continuously the Gospel.
Probably many faithful and many priests of my age, who as young adults and young priests have experienced the extraordinary years of the post-conciliar period, find hard to believe this sudden change. Many do not feel prepared to start again. We must admit, too many have been the disappointments.
While the professional apologists, the desk missionaries, the living room theologians, the witnesses of themselves, are scrambling to explain the words and gestures of the Pope (who does not really need interpreters), those who had kept aside, the lay people and priests who in recent decades have carried on along the conciliar lines almost covertly, are with bated breath listening to pope Francis speaking of going out, of taking risks, of not fearing the reprimands of the Holy Office, and have in theri heart a mixture of enthusiasm and cynicism. Finally we hear a Pope talking like that! It is the Pope who dreamed of for years. But will it last? And, above all, do we still have the strength to get back on the road?
For me, the last hopes of being able to see in the time of my life a real profound change in the life of the Church were almost extinguished after the first African Synod in 1994. The best African theologians excluded and then gradually removed from teaching in the seminaries and theological faculties. Any serious attempt at inculturation permanently archived, albeit after accepting in the Synodal Hall that inculturation is a priority. A long succession of episcopal appointments of people chosen for their absolute orthodoxy and their paralyzing prudence, or rather inaction.
I asked for an opinion on the African Synod to the late Cardinal Martini, and he said laconically: “Now the Synods have become a way to level all the bishops on the lowest common denominator“. Some missionaries who had been active in Africa in the promotion of the laity, in fostering a spirit of co-responsibility and collegiality, disappeared from the scene, and one of them told me with bitterness: “There is no room. Now you can do something innovative without incurring penalties only in the field of social welfare, but on condition that it is masked as a traditional charitable activity.” For years we have seen priests engaged in new ministries labeled as hot-headed and consequently marginalized. We have witnessed pastoral creativity methodically punished and supine acceptance of the rules methodically rewarded.
In my memory there is the smile full of hope of Bernhard Haring, the great moral theologian who had reformed moral theology in the second half of the last century, whose teaching is often echoed in the words of Pope Francis, who was marginalized and whose death the Vatican newspaper had not considered worth of a line. To a friend who in 1994 asked him how he saw the future of the Church, he replied with his usual firm smile: “Do not worry. All the junk that today hides the bright face of the church of Christ will collapse soon as a house of cards.“
Behold, now we have a Pope who asks that we pray for him, who act not as a judge but as a shepherd and a brother, who wants a church less concerned about the conformity with the doctrine and better able to care for the poor, with enough courage to step out of herself, capable to reform – even to reform the papacy – and closer to the role of servant that is rightly her own. Who wants to put Christ at the center.
But we will elderly priests still capable of believing “in the revolutionary nature of love and tenderness” ? We will be able to re-start? We will be able to follow this very young and elderly Pope?