L’Ibrahim Index of African Governance (IIAG) è un’organizzazione creata nel 2007 dal miliardario sudanese Mo Ibrahim per promuovere il buon governo in Africa. Ogni anno assegna il più importante premio mondiale individuale ? cinque milioni di dollari, più di duecentomila dollari l’anno per tutta la vita – a un leader africano che sia stato democraticamente eletto, abbia governato bene, alzando gli standard di vita del suo popolo, lasciando l’incarico, al termine normale del suo mandato.
Ieri è stato annunciato che il comitato incaricato di selezionare il vincitore di quest’anno non ha trovato alcun candidato degno del premio. Visti i requisiti, non sono molti i leader, anche a livello europeo e mondiale, a potersi candidare. E infatti, nei sette anni dalla sua istituzione il premio è stato assegnato solo tre volte : a Pedro Verona Pires di Capo Verde , a Festus Mogae del Botswana e a Joaquim Chissano del Mozambico. Con l’annuncio è stato pubblicato anche il rapporto annuale sulla sicurezza nazionale in Africa, con uno sconsolante risultato per il Kenya, classificato verso il fondo della graduatoria delle 52 nazioni africane prese in considerazione, in buona compagnia con le “nazioni fallite” come la Somalia e le altre che si trovano ad affrontare situazioni di sicurezza ingestibili.
Il giudizio dell’IIAG sul Kenya è troppo severo. Eppure rappresenta abbastanza bene l’opinione pubblica internazionale, dopo che sono stati resi noti i pasticci combinati dalle forze di sicurezza keniane durante il recente attacco terroristico al Westgate Mall.
Un altro fatto che ha minato la fiducia nella capacità del governo del keniano di affrontare le crisi di sicurezza e i connessi abusi dei diritti umani, è l’azione diplomatica che vorrebbe rinviare la causa della Corte penale internazionale (Cpi ) contro il presidente del paese, Uhuru Kenyatta. Lui e il suo vice, William Ruto, sono infatti accusati di aver organizzato le violenze seguite alle elezioni del 2007 che hanno causato circa mille e cinquecento morti. Il parlamento del Kenya ha già avviato il processo di ritiro del paese dalla Cpi.
I rappresentanti dell’Unione africana (Ua) si sono ritrovati ad Addis Abeba ( Etiopia) sabato scorso, 12 ottobre, in sessione straordinaria richiesta da Kenya e dedicata al rapporto dell’Africa con la Cpi.
Nella dichiarazione finale hanno sottolineato che, al fine di salvaguardare l’ordine costituzionale, la stabilità e l’integrità degli stati membri, «a nessun capo di stato o di governo dell’Ua, o a qualcuno che agisce o è autorizzato ad agire in tale qualità, può essere richiesto di comparire in qualsiasi corte internazionale o in un tribunale durante il suo mandato». E «riconoscendo il ruolo fondamentale che il Kenya sta giocando nella lotta contro il terrorismo, l’assemblea ha osservato che il procedimento contro il presidente e il suo vice potrebbe distrarre e impedire loro di assumersi le proprie responsabilità costituzionali, incluse le questioni di sicurezza nazionale e regionale».
Hailemarian Desalegn, primo ministro etiopico, ha sottolineato: «Il nostro obiettivo non è e non dev’essere una crociata contro la Corte penale internazionale, ma un invito solenne all’organizzazione di prendere sul serio le preoccupazioni dell’Africa».
Eppure l’iniziativa dell’Ua è stata interpretata da molti come un vero e proprio attacco all’esistenza stessa della Cpi. Alcuni giornali africani titolavano: “La Cpi sotto processo ad Addis Abeba”. Sullo sfondo, infatti, incombe la minaccia del ritiro di tutti gli stati africani dalla Cpi, col pretesto che molti africani la percepiscono come pesantemente prevenuta nei confronti del continente. Lo statuto della Corte è stato ratificato da 122 paesi, 34 dei quali africani. Oltre che in Kenya, ci sono al momento 7 indagini in corso: in Uganda, Repubblica democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Sudan, Libia, Mali e Costa d’Avorio.
Una delle ragioni addotte dagli oppositori della Corte è: «Come può la Cpi mettere sotto processo un presidente democraticamente eletto da più della metà degli elettori?». Un argomento molto simile a quello che utilizzano in Italia i sostenitori di Berlusconi: «Com’è possibile bandire dai pubblici uffici un politico sostenuto da un terzo dell’elettorato nazionale?».
Ma non mancano i critici. Alcuni leader di fama internazionale hanno criticato l’Ua. L’ex segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, ha detto che il ritiro dalla Cpi sarebbe per l’Africa un “marchio d’infamia”. L’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, uno dei leader africani più amati e rispettati dopo il suo connazionale Nelson Mandela, ha pure lui manifestato il suo forte dissenso. Tutu ha le credenziali giuste per parlare di giustizia, e non solo perché ha sofferto e lottato contro l’ apartheid, guadagnandosi il premio Nobel per la pace nel 1984. È stato un critico feroce del trattamento riservato da Israele ai palestinesi così di come la Cina discrimina i tibetani. Nell’agosto dello scorso anno a Johannesburg aveva abbandonato un incontro di leader mondiali, rifiutandosi a condividere una piattaforma con l’ex primo ministro britannico Tony Blair, affermando che il signor Blair e l’ex presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, dovrebbero essere processati presso la Cpi per aver mentito sull’Iraq e le armi di distruzione di massa per giustificare l’invasione del paese.
La scorsa settimana in un appello on-line Tutu ha scritto: «Mentre alcuni leader africani giocano sia la carta del razzismo che la carta coloniale, i fatti sono chiari: lungi dall’essere una caccia alle streghe organizzata dall’uomo bianco, la Cpi non potrebbe essere più africana di quanto già lo sia. Più di 20 paesi africani hanno contribuito a fondarla. Delle 108 nazioni che inizialmente hanno aderito, 30 sono africane. Cinque dei 18 giudici della Cpi sono africani, cosi come lo è il suo vice presidente, Sanji Mmasenono Monageng del Botswana. Il procuratore capo del tribunale, Fatou Bensouda , che ha un potere enorme sui casi perseguiti, è originaria del Gambia. La Cpi è molto chiaramente un tribunale africano. I leader che cercano di aggirare la Cpi sono effettivamente alla ricerca della licenza di uccidere, mutilare e opprimere il proprio popolo senza doverne subire le conseguenze. Semplicemente tacciano l’istituzione come razzista e ingiusta, così come Hermann Goering e i suoi compagni nazisti imputati hanno vilipeso il processo di Norimberga dopo la seconda guerra mondiale”.
Ieri è stato annunciato che il comitato incaricato di selezionare il vincitore di quest’anno non ha trovato alcun candidato degno del premio. Visti i requisiti, non sono molti i leader, anche a livello europeo e mondiale, a potersi candidare. E infatti, nei sette anni dalla sua istituzione il premio è stato assegnato solo tre volte : a Pedro Verona Pires di Capo Verde , a Festus Mogae del Botswana e a Joaquim Chissano del Mozambico. Con l’annuncio è stato pubblicato anche il rapporto annuale sulla sicurezza nazionale in Africa, con uno sconsolante risultato per il Kenya, classificato verso il fondo della graduatoria delle 52 nazioni africane prese in considerazione, in buona compagnia con le “nazioni fallite” come la Somalia e le altre che si trovano ad affrontare situazioni di sicurezza ingestibili.
Il giudizio dell’IIAG sul Kenya è troppo severo. Eppure rappresenta abbastanza bene l’opinione pubblica internazionale, dopo che sono stati resi noti i pasticci combinati dalle forze di sicurezza keniane durante il recente attacco terroristico al Westgate Mall.
Un altro fatto che ha minato la fiducia nella capacità del governo del keniano di affrontare le crisi di sicurezza e i connessi abusi dei diritti umani, è l’azione diplomatica che vorrebbe rinviare la causa della Corte penale internazionale (Cpi ) contro il presidente del paese, Uhuru Kenyatta. Lui e il suo vice, William Ruto, sono infatti accusati di aver organizzato le violenze seguite alle elezioni del 2007 che hanno causato circa mille e cinquecento morti. Il parlamento del Kenya ha già avviato il processo di ritiro del paese dalla Cpi.
I rappresentanti dell’Unione africana (Ua) si sono ritrovati ad Addis Abeba ( Etiopia) sabato scorso, 12 ottobre, in sessione straordinaria richiesta da Kenya e dedicata al rapporto dell’Africa con la Cpi.
Nella dichiarazione finale hanno sottolineato che, al fine di salvaguardare l’ordine costituzionale, la stabilità e l’integrità degli stati membri, «a nessun capo di stato o di governo dell’Ua, o a qualcuno che agisce o è autorizzato ad agire in tale qualità, può essere richiesto di comparire in qualsiasi corte internazionale o in un tribunale durante il suo mandato». E «riconoscendo il ruolo fondamentale che il Kenya sta giocando nella lotta contro il terrorismo, l’assemblea ha osservato che il procedimento contro il presidente e il suo vice potrebbe distrarre e impedire loro di assumersi le proprie responsabilità costituzionali, incluse le questioni di sicurezza nazionale e regionale».
Hailemarian Desalegn, primo ministro etiopico, ha sottolineato: «Il nostro obiettivo non è e non dev’essere una crociata contro la Corte penale internazionale, ma un invito solenne all’organizzazione di prendere sul serio le preoccupazioni dell’Africa».
Eppure l’iniziativa dell’Ua è stata interpretata da molti come un vero e proprio attacco all’esistenza stessa della Cpi. Alcuni giornali africani titolavano: “La Cpi sotto processo ad Addis Abeba”. Sullo sfondo, infatti, incombe la minaccia del ritiro di tutti gli stati africani dalla Cpi, col pretesto che molti africani la percepiscono come pesantemente prevenuta nei confronti del continente. Lo statuto della Corte è stato ratificato da 122 paesi, 34 dei quali africani. Oltre che in Kenya, ci sono al momento 7 indagini in corso: in Uganda, Repubblica democratica del Congo, Repubblica Centrafricana, Sudan, Libia, Mali e Costa d’Avorio.
Una delle ragioni addotte dagli oppositori della Corte è: «Come può la Cpi mettere sotto processo un presidente democraticamente eletto da più della metà degli elettori?». Un argomento molto simile a quello che utilizzano in Italia i sostenitori di Berlusconi: «Com’è possibile bandire dai pubblici uffici un politico sostenuto da un terzo dell’elettorato nazionale?».
Ma non mancano i critici. Alcuni leader di fama internazionale hanno criticato l’Ua. L’ex segretario generale dell’ONU, Kofi Annan, ha detto che il ritiro dalla Cpi sarebbe per l’Africa un “marchio d’infamia”. L’arcivescovo anglicano Desmond Tutu, uno dei leader africani più amati e rispettati dopo il suo connazionale Nelson Mandela, ha pure lui manifestato il suo forte dissenso. Tutu ha le credenziali giuste per parlare di giustizia, e non solo perché ha sofferto e lottato contro l’ apartheid, guadagnandosi il premio Nobel per la pace nel 1984. È stato un critico feroce del trattamento riservato da Israele ai palestinesi così di come la Cina discrimina i tibetani. Nell’agosto dello scorso anno a Johannesburg aveva abbandonato un incontro di leader mondiali, rifiutandosi a condividere una piattaforma con l’ex primo ministro britannico Tony Blair, affermando che il signor Blair e l’ex presidente degli Stati Uniti, George W. Bush, dovrebbero essere processati presso la Cpi per aver mentito sull’Iraq e le armi di distruzione di massa per giustificare l’invasione del paese.
La scorsa settimana in un appello on-line Tutu ha scritto: «Mentre alcuni leader africani giocano sia la carta del razzismo che la carta coloniale, i fatti sono chiari: lungi dall’essere una caccia alle streghe organizzata dall’uomo bianco, la Cpi non potrebbe essere più africana di quanto già lo sia. Più di 20 paesi africani hanno contribuito a fondarla. Delle 108 nazioni che inizialmente hanno aderito, 30 sono africane. Cinque dei 18 giudici della Cpi sono africani, cosi come lo è il suo vice presidente, Sanji Mmasenono Monageng del Botswana. Il procuratore capo del tribunale, Fatou Bensouda , che ha un potere enorme sui casi perseguiti, è originaria del Gambia. La Cpi è molto chiaramente un tribunale africano. I leader che cercano di aggirare la Cpi sono effettivamente alla ricerca della licenza di uccidere, mutilare e opprimere il proprio popolo senza doverne subire le conseguenze. Semplicemente tacciano l’istituzione come razzista e ingiusta, così come Hermann Goering e i suoi compagni nazisti imputati hanno vilipeso il processo di Norimberga dopo la seconda guerra mondiale”.