La testimonianza dei quaranta Seminaristi del Burundi, uccisi proprio perché rifiutavano di odiarsi l’un l’altro, dovrebbe essere meglio conosciuta e diventare modello ed esempio alle aspirazioni della gioventù Africana.
Guardando le loro bianche tombe non dobbiamo essere sopraffatti dalla disperazione. Dovremmo piuttosto dire, come disse Papa Francesco di Don Pino (il prete che fu ucciso per opporsi alla Mafia) “Essi hanno vinto come il Cristo Risorto”
Quaranta fotografie, i visi di quaranta giovani ragazzi che guardano dritto, ma timidamente, nella macchina fotografica. Fotografie prese dalle loro schede scolastiche, ragazzi come milioni di altri in Africa.
Ma questi quaranta giovani sono molto diversi, per le ragioni e le modalità della loro morte.
Le fotografie furono scattate nel 1997 all’inizio dell’anno scolastico in Burundi, quando il paese stava soffrendo una delle più crudele violenze etniche in Africa, una conseguenza del genocidio avvenuto nel vicino Ruanda. Poche settimane dopo, alle 5,30 del mattino del 30 Aprile 1997, alcuni membri del gruppo ribelle Hutu, il Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia (CNDD), attaccarono il Seminario di Buta ed uccisero quaranta giovani seminaristi di età compresa tra quindici e venti anni.
Fin dall’Ottobre del 1997, inizio della guerra civile nel paese, il Seminario di Buta era stato un tranquillo rifugio per appartenenti ai due gurppi etnici in guerra, gli Hutu, dediti alla pastorizia stanziale ed i nomadi Tutsi. Hutu e Tutsi erano stati coinvolti e bloccati in una mortale guerra civile, un vero e proprio genocidio fin dal 1972. Anche il Seminario era stato inquinato da divisioni etniche, ma negli ultimi anni, sotto la guida del loro rettore, i ragazzi si erano impegnati, in modo speciale, a vivere come fratelli, dando testimonianza della chiamata di Gesù rivolta a tutti, contro ogni divisione ed odio etnici.
Essi avevano appena concluso il loro ritiro Pasquale, quando gli attaccanti li sorpresero in piena notte nel dormitorio de ordinarono loro di separarsi in due gruppi, gli Hutu da una parte e I Tutsi dall’altra. Gli attaccanti volevano uccidere una parte di loro, ma i Seminaristi si rifiutarono di dividersi, preferendo morire insieme.
Visto fallito il loro diabolico piano, gli assassini si avventarono sui ragazzi e li massacrarono con colpi di armi da fuoco e granate.
Le prime vittime caddero abbracciati come fratelli.
Alcuni Seminaristi furono sentiti cantare salmi di lode ed altri pregare ad alta voce “Perdona loro, Signore perché essi non sanno quello che fanno”.
Altri, invece di difendersi o cercare di scappare, preferirono aiutare i loro fratelli sofferenti, sapendo chiaramente cosa stava per succedere a loro stessi. Alcuni dei Seminaristi e degli insegnanti, che non erano in quell’edificio, sopravvissero e poterono riferire i fatti.
Ora quelle quaranta fotografie sono sulle quaranta bianche tombe nel cortile davanti ai loro dormitori.
I quaranta ragazzi furono chiamati “Martiri della Fratellanza” e la loro causa di beatificazione – per proclamarli un esempio di vita Cristiana – cominciò poco dopo la loro morte. La causa è avanzata lentamente, molto lentamente come normale in questi casi. Ma la recente beatificazione di Don Pino potrebbe dare un’accelerazione al suo iter.
In difesa della virtù e della verità
Padre Giuseppe Pugliesi, conosciuto dai suoi parrocchiani come Don Pino, fu ucciso a Palermo da sicari della Mafia il 15 settembre 1993 e fu proclamato beato e “martire della Mafia” il 25 maggio 2013. Don Pino fu ucciso perché parlava, agiva e insegnava ai suoi parrocchiani, in particolare i giovani, a reagire contro la Mafia, profondamente radicata nella società locale. Egli sapeva che li capi della Mafia avevano ordinato la sua uccisione, ma non si fermò. Il suo scopo era di fare dei suoi giovani parrocchiani dei cittadini onesti, guide nel campo della giustizia e pace. Per la prima volta una vittima della Mafia diviene un Martire della Chiesa Cattolica.
Il cammino che portò alla beatificazione di Don Pino fu complicat ed una volta fu fermato perché egli non era stato assassinato “in odium fidei” ( in odio della fede) che era di solito il criterio essenziale della Chiesa per proclamare qualcuno un Martire Cristiano. Il processo di beatificazione di un martire è di solito molto più veloce che altri processi simili. La ragione di questa rapidità è che il martire è chiaramente morto per la sus fede in Gesù, mentre per persone che morirono in altre circostanze, la loro santità di vita e la solidità dei loro insegnamenti e preghiere deve essere provata oltre ogni dubbio e questo richiede un lungo processo di analisi della vita e degli scritti della persona in questione. Ma gli assassini di Don Pino erano Cattolici – spesso i capi della Mafia amano sedere nel primo banco della chiesa durante importanti celebrazioni, per sottolineare il loro stato sociale ed essi si proclamano strenui Cattolici – per questa ragione le loro motivazioni per ordinare l’uccisione di Don Pino non erano “in odium fidei” ma “in odio delle azioni e degli insegnamenti” di Don Pino. Qualcuno pensava che senza “odium fidei” nelle intenzione degli assasini, non poteva esserci martirio.
Il nuovo modo di definire il martirio, che emerse durante il processo di beatificazione di Don Pino, è riflesso nelle parole di Papa Franceso che disse: “Ieri, a Palermo, Padre Giuseppe Pugliesi, un prete ed un martire ucciso dalla mafia nel 1993, fu beatificato. Don Pugliesi era un prete esemplare, impegnato specialmente nell’insegnamento alla gioventù. Egli insegnava il vangelo ai giovani, portandoli in questo modo fuori dal controllo dei gruppi criminali e per questo essi cercarono di sconfiggerlo, uccidendolo. In realtà, invece, è lui quello che ha vinto con il Cristo Risorto! Preghiamo il Signore di convertire i cuori di quella gente. Essi non possono fare questo! Essi non possono cambiare noi, che siamo fratelli, in schiavi!”
Infatti gli assassini di Don Pino non agirono “in odium fidei”, ma “in odium virtutis et veritatis” (per odio della virtù e della verità). Essi non volevano distruggere la Cristianità – anzi, probabilmente essi si consideravano buoni Cattolici! – Don Pino si oppose alle azioni ispirate dal diavolo che essi e la loro organizzazione criminale perseguivano: fu questo che spinse loro ad ucciderlo.
Molti commentatori sottolinearono che al beatificazione di Don Pino potrebbe essere la prima di una serie di beatificazioni fatte perché il martire si oppose al diavolo e fu ucciso in odio alla virtù ed alla verità. Il più evidente e conosciuto esempio di questa possibile serie di beatificazioni è l’Arcivescovo Oscar Arnulfo Romero del Salvador, ucciso il 24 marzo 1980, mentre celebrava Messa, perché si ergeva come un difensore dei poveri nel suo paese diviso.
Mitezza e pace
Recentemente, Papa Francesco, nel rivolgersi ai membri di varie organizzazioni laiche convenuti in Piazza San Pietro, ha parlato dei cristiani che sono ancora vittime di persecuzioni: “Ci sono più martiri oggi che nei secoli passati. Il martirio non è mai una sconfitta, è il più alto grado di testimonianza. Un cristiano deve sempre avere un atteggiamento di unità e di mitezza, confidando in Gesù. Dobbiamo essere vicini a coloro che sono perseguitati; essi passano il confine tra la vita e la morte “.
I seminaristi di Buta sono stati uccisi a causa della loro posizione in difesa della giustizia e della fratellanza cristiana. Anche loro avevano deciso di fare della loro comunità un esempio di vita fraterna e di pace, nonostante la società divisa che li circondava. Anche loro sono stati uccisi probabilmente da altri cattolici – il Burundi è un paese in gran parte cattolico – non tanto per odio alla fede, ma per odio alla pace ed alla giustizia, spinti dal più brutale tribalismo.
I quaranta innocenti ragazzi del Burundi e la loro testimonianza dovrebbero essere meglio conosciuti e diventare un modello e un esempio delle aspirazioni dei giovani africani. Guardando le loro tombe bianche, non dobbiamo essere sopraffatti dalla disperazione. Dovremmo piuttosto dire, come ha detto Papa Francesco di Don Pino: “Hanno vinto, come il Cristo risorto”.
traduzione dall’inglese di Toni Portioli
The testimony of the forty innocent Burundian seminarians killed just because they refused to hate one another should be better known and become a model and example of the aspirations of the African youth. Looking at their white tombs, we must not be overcome by desperation. We should rather say, as Pope Francis said of Don Pino, the Italian priest who was killed for opposing the Mafia: “They have won, with the risen Christ”
Forty pictures, the faces of forty young boys looking straight, but shyly, into the camera. Pictures to be pasted on their school report, boys like a million others in Africa.
But these forty boys are somehow different because of the way they died. The pictures were taken at the beginning of the 1997 school year in Burundi, while the country was suffering because of some of Africa’s bitterest ethnic violence, a spillover from the genocide in neighbouring Rwanda. A few weeks after, at about 5:30 in the morning of the 30 April 1997, some members of the Hutu rebel group, the National Council for the Defence of Democracy (CNDD), attacked the seminary of Buta, killing the forty young seminarians aged between fifteen and twenty years.
Since the beginning of the country’s civil war in October 1993, the Buta Seminary had been a tranquil refuge for members of the two warring ethnic groups, the pastoral Hutu and the more nomadic Tutsi that have been locked in deadly genocidal war since 1972. The seminary too had been marred by ethnic division, but in the most recent years under the guidance of their rector, the boys had taken as their special commitment, to live as brothers, witnessing that Jesus calls everybody and is against ethnic division and hatred.
They had just concluded their Easter retreat when the attackers surprised them at night, in the dormitory, and ordered them to separate into two groups, the Hutus on one side, the Tutsi on the other. They wanted to kill some of them, but the seminarians refused, preferring to die together. Their evil scheme having failed, the killers rushed at the boys and slaughtered them with bullets and grenades. The first victims fell as they embraced as brothers. At that point some of the seminarians were heard singing psalms of praise and others were saying “Forgive them Lord, for they know not what they do”. Others, instead of fighting or trying to run away, preferred to help their distressed brothers, knowing exactly what was going to happen to them. A few of them, and some teachers who were not in that building, survived to tell the story. Now those forty pictures are on the forty white tombs in the yard outside their dormitory.
The forty boys have been called the Martyrs of Brotherhood and their beatification cause—to proclaim them as examples of Christian living—started a short time after their death. It has been moving on slowly, very slowly, as it is usual in these cases. But the most recent beatification of Don Pino could give it a boost.
In defence of virtue and truth
Father Giuseppe Puglisi, known by his parishioners as Don Pino, was killed by hit men on 15 September 1993, in Palermo, Italy, and was proclaimed blessed and “martyr of the Mafia” on 25 May 2013. Don Pino was killed because he spoke, acted and taught his parishioners, in particular the youth, to react against the criminal organisation of the Mafia, which was deeply ingrained in the local society. He knew that the Mafia bosses had ordered his killing, but was not deterred. His aim was to make of his parish youth, honest citizens and leaders in the fields of justice and peace. It is the first time that a victim of the Mafia becomes a martyr of the Catholic Church.
The path that led to the beatification of Don Pino was rough, and once was stopped because he was not assassinated in odium fidei (hatred for the faith) which used to be the essential criterion for the Church to proclaim somebody a Christian martyr. The process for the beatification of a martyr is usually much faster than other similar processes. The reasoning behind this is that a martyr has in a clear way died for his faithfulness to Jesus, while for people who died in other circumstances their holiness of life and the soundness of their teaching and preaching must be proved beyond any doubt, and this requires a long process of examining the life and the writings of the person in question. But the killers of Don Pino were Catholics—often, Mafia bosses like to sit in the front pew during important celebrations, to enhance their social status, and they proclaim themselves to be staunch Catholics—so their motivation for ordering the killing of Don Pino was not the hatred of the faith, but the hatred of Don Pino’s actions and teaching. Some thought that without hatred of the faith in the mind of the killers, there could be no martyrdom.
The new understanding of martyrdom that emerged during the beatification process of Don Pino is reflected in the words of Pope Francis who said: “Yesterday, in Palermo, Father Giuseppe Puglisi, a priest and martyr, was beatified, killed by the Mafia in 1993. Don Puglisi was an exemplary priest, devoted especially to the youth ministry. He was teaching the gospel to the children, and taking them out of the control of the criminal groups, and so they had tried to defeat him and killed him. The reality, though, is that he has won, with the Risen Christ! Let us pray to the Lord to convert the hearts of these people. They cannot do this! They cannot turn us, brothers, into slaves!”
So, the killers of Don Pino did not act in odium fidei, but in odium virtutis et veritatis, meaning in hatred of virtue and truth. They did not act because they wanted to destroy Christianity—possibly they considered themselves to be good Catholics! Don Pino stood against the evil ways they and their criminal organisation were using: it is what prompted them to kill him.
Don Pino’s beatification, many commentators pointed out, could become the first in a line of beatifications done because the martyr stood up against evil and was killed in hatred of virtue and truth. The most obvious and well-known example in this possible line-up is Archbishop Oscar Arnulfo Romero of El Salvador, killed on 24 March 1980, while celebrating Mass, because he stood as a defender of the poor in his divided country.
Meekness and peace
Recently, Pope Francis addressed members of lay organisations gathered in St Peter’s Square, and spoke of Christians who are still victims of persecution: “There are more martyrs today than in past centuries. The martyrdom is never a defeat, it is the highest grade of testimony. A Christian must always have an attitude of unity and meekness, relying on Jesus. We must be close to those persecuted; they do experience the boundary between life and death.”
The Buta seminarians were also killed because of their stand for justice and Christian brotherhood. They too had decided to make of their community an example of fraternal living and of peace, in spite of the divided society around them. They too were killed most probably by other Catholics—Burundi is mostly a Catholic country—not so much for hatred of the faith, but for hatred of peace and justice, driven by the most brutal tribalism.
The forty innocent Burundian boys and their testimony should be better known and become a model and example of the aspirations of the African youth. Looking at their white tombs, we must not be overcome by desperation. We should rather say, as Pope Francis said of Don Pino: “They have won, with the risen Christ”.