“Porta di Lampedusa, Porta d’Europa” in ceramica refrattaria e ferro zincato, alta 5 metri, inaugurata il 28 giugno 2008, un’opera di Mimmo Paladino voluta e realizzata da Amani.
“Porta di Lampedusa, Porta d’Europa”, by internationally famous Italian sculptor Mimmo Paladino, is an art work in refractory ceramic and galvanized iron, 5 meters high. It was promoted and implemented by Amani, and inaugurated on June 28, 2008.
La “Porta di Lampedusa, Porta d’Europa” si apre su un mare dove si stima che negli ultimi vent’anni siano perite quasi ventimila persone tentando una difficile attraversata. È in un certo senso un’opera incompiuta. Può restare segno di pietà e luogo di raccoglimento, intristirsi in un freddo monumento funebre oppure diventare
il simbolo di un’Europa che si apre verso l’Africa, verso l’accoglienza e una solidarietà nuova.
Starà a noi, negli anni a venire, costruire il suo significato.
Guardando questa porta capiamo che la globalizzazione non è solo merci a basso prezzo che invadono il nostro mercato, e non sarà neppure una nostra nuova modalità per dominare il mondo. La forza della globalizzazione sono le persone che finalmente accedono alla consapevolezza di essere parte di un unico mondo, che vogliono essere responsabili della loro vita, e per questo sono disposti a venire in Europa a fare i lavori più umili: accudire i nostri ammalati, cucinare il nostro cibo e pulire le nostre città.
Il nostro mondo europeo è ormai piccolo e c’è al di là di questa porta un mondo più grande che ci chiede di partecipare e di condividere. L’Europa può essere anche un mondo piccino non solo in senso geografico, ma perché chiuso e meschino. Un piccolo mondo che si pensa al centro dell’universo; che non capisce che al di là dei nostri confini – i quali perdono sempre più significato – c’è un nuovo grande mondo ribollente di vita.
Chiudere questa porta vorrebbe dire chiudersi alla storia e al futuro. L’Europa ha incominciato a capire che il diritto internazionale costruito negli ultimi secoli, il quale nega la possibilità di interferire con gli affari interni di un paese – anche se è in atto una persecuzione o un genocidio – andava forse bene prima della globalizzazione. Adesso è superato. Ma è già anche superato il diritto di intervento umanitario: di fronte ai drammi crescenti della fame e del disastro ecologico, l’Europa viene presa dal panico e risponde alla crescente richiesta di solidarietà con promesse che non mantiene mai (come vediamo regolarmente durante gli incontri del G8) rinchiudendosi negli interessi nazionali e alzando barriere sempre più alte.
In questo momento – e speriamo che sia breve – l’Europa crede a chi percepisce e rappresenta lo straniero come una minaccia, come colui che vuole derubarci della «nostra roba» e della «nostra identità». Invece lo straniero è «colui senza il quale vivere non è più vivere».
Accettando l’altro non gli facciamo un favore: aiutiamo noi stessi; evitiamo di diventare maschere e di immedesimarci sempre più in un’identità immaginata che dovrebbe proteggerci dalle nostre insicurezze interiori, un’identità statica e sterile che ci impedisce di crescere come persone umane e come società. È una tentazione che coinvolge tutti, anche una Chiesa che talvolta sembra preferire il porto sicuro delle antiche abitudini piuttosto che l’avventura del mare aperto.
I poveri però si rifiutano di vivere in una miseria indegna della persona umana, vittime di uno sfruttamento interno ed esterno, di guerre che non capiscono e non vogliono; vengono a cercare da noi il sogno di quell’European way of life che abbiamo alimentato con la nostra propaganda, stupidamente sicuri che il nostro modello di sviluppo fosse l’unico possibile.
C’è chi in Europa crede di poter fermare con le leggi questa ondata di vita che viene ad abbracciarci. Fortunatamente per tutti noi, sono degli illusi. La legge non cambia la storia; anzi, quasi sempre la legge è costretta a seguirla, soprattutto quando si tratta di eventi epocali come le migrazioni oggi in atto. Così chi in Europa tiene gli occhi aperti incomincia a capire che la solidarietà o diventa globale o non ha più senso. Gli egoismi di classe e di nazione sono il linguaggio del passato. Oggi i nostri ragazzi si sentono sempre di più cittadini di un unico mondo e capiscono istintivamente – a meno che siano succubi di martellanti propagande – che la convivenza civile può essere fondata solo su una solidarietà globale, altrimenti è un egoismo mascherato. Fra pochi anni i politici che hanno inventato i muri che dividono le nazioni come fra Messico e Stati Uniti o fra Israele e Palestina, i centri di identificazione ed espulsione e i respingimenti saranno consegnati alla storia come sopravvissuti di un’era in cui nessuno più si riconoscerà.
Sono fiero della mia cultura e della mia tradizione, nelle quali è centrale riconoscere in ogni persona prima di tutto la comune umanità, fonte di dignità e diritti. Solo successivamente si vedono le differenze, le quali ci completano, anzi, mi creano e mi danno vita, perché senza queste differenze non potrei essere me stesso.
Mi sento in comunione con Francesco, il papa-pastore che abbraccia i fratelli sofferenti, non per calcoli diplomatici o equilibri geopolitici, ma “solo” perché essi “sono la carne di Cristo”.
Riguardando questa porta non la vedo più come un monumento ai morti ma come un grande segno di speranza per i vivi. Non facciamo semplicemente memoria di quei poveri corpi in fondo al mare: li riconosciamo come persone che venivano a noi desiderose di condividere la nostra comune umanità. Riconosciamo che loro, che hanno già attraversato un’altra porta – quella che si apre sull’incontro con l’Infinito, con colui che è davvero e definitivamente l’Altro – avevano capito ciò che noi fatichiamo a intravedere: che la fraternità è il nostro orizzonte.
The “Door of Lampedusa” opens on a sea where it is estimated that in the last twenty years almost twenty thousand people have perished attempting a difficult crossing from Africa to Italy. It is in a sense an unfinished work. It can be a sign of piety and a place of meditation, or a sad and cold tomb, or become the symbol of a Europe that opens to Africa, of acceptance and new solidarity. It’s up to us in the years to come to build its meaning.
Looking at this door we understand that globalization is not only cheap goods that invade our market. The positive and real force of globalization is the people who finally have access to the awareness of being part of one world, the people who want to be in charge of their lives, and for that they are willing to come to Europe to do the most menial jobs: care for our sick relatives, cook our food and clean our cities.
Our European world is now a small world, and beyond this door there is a bigger world that asks us to participate and share. Europe sometimes is a small world not only in a geographical sense, but because it has a closed and petty mentality. A small world that thinks of itself as the center of the universe, that does not understand that beyond our borders – which are increasingly losing meaning – there is a new big world seething with life.
To close this door would mean to close to history and to the future. Europe has begun to understand that an international law like the one built in the last few centuries, which denies the possibility of interfering with the internal affairs of another country – even at a time of persecution or genocide – is obsolete. The new principle of humanitarian intervention are already old in the face of escalating drama of hunger and ecological disaster. Europe panics as its own geopolitical importance is declining and it is not able to address the growing demand for solidarity, and raises ever higher barriers shutting itself in a net of national interests
At this time – and I hope it will pass quickly – Europe believes in those who perceive the stranger as a threat, as the one who wants to rob us of “our stuff” and “our identity”. Instead the stranger is “the one without whom to live is not any longer life”.
Accepting the others we do not do them a favor: we help ourselves. Otherwise we become masks, and identify more and more with a fixed, imagined self-understanding that is supposed to protect us from our inner insecurities, but is a static and sterile vision which prevents us from growing as human beings and as a society. It is a temptation that affects everyone, even the church that sometimes seems to prefer the safe haven of the old habits rather than the adventure of the open sea.
The poor, however, refuse to live in a misery unworthy of the human person, victims of internal and external exploitation, of wars they do not understand and do not want to fight on behalf of others, and come to seek that “European way of life” that we have promoted with our propaganda, foolishly confident that our model of development is the only possible one.
There are those who believe that Europe must be able to stop this wave of humanity that comes to hug us. Law and security is their answer. But they will be deluded, fortunately for all of us. The law cannot change history, and indeed almost always history is forced to follow the law, especially when it comes to momentous events such as the mass migrations taking place today. So those who keep theirs eyes opened, realize that solidarity must become global or does not make sense any longer. Class and national selfishness are a language of the past. Today, our children feel more and more citizens of one world and instinctively understand – unless they are slaves of relentless propaganda – that our society can be founded only on a global solidarity, otherwise it is a disguised egoism. In a few years the politicians who invented the walls that divide the nations -as between Mexico and the United States or between Israel and Palestine – will be consigned to history as survivors of an era in which no one will want to be part.
I am proud of roots of my European culture and my tradition, which teaches me to recognize in each person first of all our common humanity, source of dignity and rights. Only later you can see the differences, which are a complement for each other. In fact, the differences create and give me life, because without these differences I could not be myself.
I’m happy to be a member of pope Francis’ flock, the pastor who visit these brothers not to do social work, not for diplomatic calculations or to change the geopolitical balance, but “only” because these people “are the flesh of Christ.”
I no longer see the Door of Lampedusa as a monument to the dead but as a great sign of hope for the living. We do not simply remember those bodies at the bottom of the sea: we recognize them as people who came to us eager to share our common humanity.
We recognize that they, who have already gone through another door – the one that opens on the encounter with the Infinite, with the one who really and definitely is the Other – they understood what we find it hard to fathom: that brotherhood is our only possible horizon.