I miei amici kenyani sono profondamente delusi, anche se preferiscono non darlo a vedere. Il presidente degli Stati Uniti d’America ha iniziato ieri la sua seconda visita in Africa, e anche questa volta si guarderà bene dal mettere piede in Kenya, il paese di suo padre. Per rendere ancora peggiore lo smacco, si recherà in visita alla vicina Tanzania.
L’elezione di Obama aveva suscitato un’enorme euforia in Kenya perché da senatore prima e da candidato in campagna elettorale poi, aveva esaltato la sua origine kenyana e il suo attaccamento alla memoria del papà. Fresco di nomina al senato degli Stati Uniti, Barack Obama aveva proclamato in un gremito auditorium di Nairobi: «Voglio che tutti voi sappiate che come vostro alleato, vostro amico e vostro fratello, sarò sempre con voi». Non sorprende quindi che tanti kenyani, in quel novembre 2008, si fossero convinti che un kenyano (“one of our sons” uno dei nostri figli, dicevano) fosse diventato presidente degli Stati Uniti. Si farneticava sulle facilitazioni che sarebbero state introdotte per i kenyani desiderosi di acquisire la cittadinanza americana, e non mancarono nemmeno i pronostici sulla possibilità che il Kenya potesse diventare… il cinquantunesimo stato degli Stati Uniti d’America! Raila Odinga, allora prima ministro, si era affrettato a far sapere di essere cugino di Obama, negandolo solo in un secondo momento, probabilmente su cortese invito dell’ambasciata americana in Kenya, che non desiderava proprio che Obama si ritrovasse con un cugino potenzialmente indiziato di crimini contro l’umanità. Erano già sufficientemente imbarazzanti i fratellastri alcolizzati e senza fissa dimora!
Ma non erano solo i kenyani a sperare che stesse per iniziare una nuova era. Imprese internazionali erano pronte a partecipare a bandi di gara per nuovi progetti. Io stesso ero stato avvicinato da un paio di imprese che, credendomi in contatto con potentati locali, mi proponevano di facilitare il loro inserimento nel mercato in vista di lucrosi contratti che, si diceva, sarebbero stati certamente finanziati da Obama. E si sognava la riabilitazione di tutti gli ospedali e delle scuole superiori statali del Kenya. Sarebbero stati necessari apparecchiature mediche e laboratori di fisica, chimica e di informatica.
Come tutti sanno, nulla di tutto questo è ovviamente successo. Obama non solo non si è lasciato intrappolare dalla sua origine etnica, ma per il Kenya, e per l’Africa tutta, ha fatto ancor meno del poco dei suoi immediati predecessori. I successi di cui si può vantare, all’inizio di questo suo secondo viaggio in Africa da presidente degli USA – dal 26 giugno al 3 luglio, toccando Senegal, Sudafrica e Tanzania – non sono molti. Anzi, gli aiuti americani all’Africa che col presidente George W. Bush erano schizzati in alto da 1.1 miliardi di dollari del 2006 agli 8.2 del 2009, sono scesi ai 6.9 del 2011. E poi, le iniziative per promuovere sicurezza alimentare e salute e per contrastare i cambiamenti climatici sono passate in seconda linea rispetto all’impegno per la sicurezza e le operazioni militari. La presenza americana, a volte problematicamente indecisa, è stata molto più visibile sui campi di battaglia, con il lancio di missili, ma anche l’invio di militari kenyani ed etiopici all’assolto della Somalia, con il sostegno ai ribelli libici contro Muammar Gaddafi, la spesa di milioni di dollari per addestrare gli eserciti africani a combattere gli estremisti islamici e la costruzione di una base per i drone nel deserto del Niger. Ttto questo mentre altri paesi come India e Brasile, ma sopratutto la Cina, hanno enormemente accresciuto i loro investimenti e gli scambi commerciali con l’Africa.
Questo viaggio intende forse spostare l’accento. Ma lo scarso entusiasmo con cui Obama è stato accolto lascia immaginare che non ci riuscirà. Senza contare il rischio enorme rappresentato dalla possibilità che Nelson Mandela venga a mancare proprio durante la visita di Obama in Sudafrica. Il che non solo farebbe passare la visita assolutamente in secondo piano, ma potrebbe richiedere addirittura che l’agenda del presidente venga completamente modificata. In Africa, infatti, si partecipa al lutto ed è inimmaginabile che si abbandoni la famiglia in difficoltà per andarsene ad altri impegni. Sarebbe uno sgarbo imperdonabile.
Per i kenyani la realizzazione che Obama non è “one of our sons” che solo per caso è nato in America, è avvenuto durante il suo primo viaggio in Africa, di sole 20 ore, in Ghana, nel 2009. Ogni passaggio del discorso che pronunciò in quell’occasione, lodando i progressi di quel paese, sembrava essere stato scritto apposta per denunciare i corrispondenti fallimenti del Kenya.
Oggi i segnali che Obama è ormai un personaggio distante e poco amato non mancano. Pochi giorni fa l’editoriale del più importante quotidiano kenyano ammetteva malinconicamente che, dopotutto Obama, «è il presidente degli Stati Uniti che è in visita in Africa, non un kenyano moralmente obbligato a ritornare a casa”. In realtà, nonostante alcune analisi apparentemente distaccate e neutrali sull’inizio del secondo mandato di Obama, per molti kenyani si tratta di poco meno di un traditore.