Tristemente, le celebrazioni per il cinquantesimo anniversario dell’Unione africana (Ua), all’insegna del “Rinascimento africano”, si sono trasformate in una vetrina del peggio della politica del continente.
L’Organizzazione dell’Unità Africana (Oua) ha la sua origine nella lotta per la decolonizzazione e prese forma definitiva ad Addis Abeba nel 1963. Dal 2002, dopo un forte intervento diplomatico e anche monetario di Gheddafi, è diventata Unione africana (Ua).
Per le celebrazioni, lo scorso fine settimana, erano presenti i leader di 54 paesi. Fra di loro il presidenti del Sudan Omar El-Bashir e del Kenya Uhuru Kenyatta, il primo condannato e il secondo indiziato dalla Corte penale internazionale (Cpi) per crimini di guerra e crimini contro l’umanità. C’era una serie di altri personaggi poco appetibili, come Robert Mugabe, presidente dello Zimbabwe da oltre tren’anni al potere, e il presidente del Rwanda Paul Kagame, accusato dalle Nazioni Unite di aver sostenuto le attività criminali dei ribelli del M23 nella vicina Repubblica democratica del Congo. Le celebrazioni, con circa 15.000 ospiti, si sono tenute nella nuova grandiosa sede dell’Ua, che domina la capitale etiopica, costruita dal governo cinese al costo di duecento milioni di dollari.
In assemblea generale, il ministro degli esteri ugandese, Sam Kuteesa, ha presentato una mozione perché la Cpi chiuda i casi contro il presidente e il vicepresidente del Kenya, William Ruto, affermando che le accuse sono basate su falsità. Lo stesso presidente ugandese, Yoweri Museveni, ha chiesto garanzie affinché il presidente Kenyatta non sia umiliato quando si recherà all’Aia per l’apertura del suo processo prevista per il 9 luglio, affermando di essere a conoscenza che la Cpi ha programmato di arrestare Kenyatta quando giungerà all’Aia. Mentre Museveni fa queste denunce, in Uganda è in corso una feroce repressione contro l’opposizione che accusa il presidente, al potere ormai da quasi trent’anni, di manovrare per farsi succedere dal figlio, Muhoozi Kainerugaba.
Sull’onda della retorica del rispetto delle sovranità nazionali dei paesi africani, il presidente dello Zambia, Michael Sata, ha chiesto che siano i kenyani a risolvere i loro problemi, dicendo «Dov’era l’Aia, quando l’Africa lottava per la propria indipendenza? Se un presidente del Kenya o dello Zambia è colpevole, devono essere i popoli del Kenya o dello Zambia a giudicarlo, non l’Aia!». Dimenticando che, a suo tempo, fu proprio il popolo kenyano a chiedere che i responsabili della violenza post-elettorale fossero giudicati dalla Cpi, avendo poca fiducia nella giustizia locale.
Infine, il primo ministro etiopico Hailemariam Desalegn ha accusato la Corte penale internazionale di “discriminazione razziale” affermando che al momento della sua creazione lo scopo della Cpi era quello di evitare ogni forma d’impunità, ma che ora quelle buone intenzioni sono degenerate: «Il 99% degli imputati all’Aia sono africani, e questo è sufficiente a dimostrare che qualcosa non va», ha affermato.
Inevitabilmente, i commentatori politici hanno fatto notare che i problemi dell’Africa sono ben più seri dei problemi personali e di potere di alcuni presidenti e che i presidenti africani invece di proteggersi, dovrebbero mantenere l’impegno, assunto nell’ambito di un sistema volontario di “peer review”, di garantire che le rispettive amministrazioni aderiscano a principi democratici e di buona governance.
“Soluzioni africane a problemi africani” è il mantra continuamente ripetuto dai membri della elefantiaca burocrazia dell’Ua, ma i problemi risolti sono proprio pochini. L’Ua appare piuttosto all’opinione pubblica del continente, là dove una società civile esiste, la migliore illustrazione del proverbio che dice:«Non si finisce mai di mangiare la carne di un elefante».
Afro-pessimismo? No, non serve. Come non serve un pregiudiziale afro-ottimismo. C’è bisogno di afro-realismo, bisogna guardare cioè ai tanti, tantissimi africani che non sono stati invitati alle celebrazioni del cinquantesimo e che lavorano duramente ogni giorno per crescere e per far rispettare i propri e altrui diritti.