In questi giorni le corrispondenze dal Vaticano e le opinioni di teologi, come pure di tanti cristiani che semplicemente sono partecipi della vita della chiesa, sottolineano i problemi, le difficoltà, le “sfide” che il nuovo papa dovrà affrontare. Non mancano i suggerimenti, se non addirittura proposte di soluzione.
L’editorialista di un autorevole settimanale cattolico inglese pochi giorni fa suggeriva ai leader della chiesa europea, che affogano in un mare di documenti mentre perdono contatto con i fedeli, di guardare all’Africa, in particolare ai pronunciamenti dei vescovi africani, e di trarre ispirazioni di concretezza da un documento pubblicato un mese fa dal SECAM (Symposium of the Episcopal Conferences of Africa and Madagascar) intitolato “Governance, bene comune e transizione democratica in Africa”. Per dar forza al suo argomento l’autore ne cita diversi paragrafi e li applica all’Europa. Ovviamente è anche un implicito invito a cercare il nuovo papa fra i cardinali africani, nell’ingenua assunzione che i pastori africani siano più vicini alla gente.
Mi spiace deludere, ma per quanto riguarda l’irrilevanza dei pronunciamenti ufficiali dei vescovi e delle conferenze episcopali, il fenomeno tocca, eccome, anche la chiesa africana. Il citato documento del SECAM è un’ottima sintesi della dottrina sociale della chiesa con delle indicazioni su come applicarla oggi in Africa. Ma chi lo leggerà? Soprattutto, chi ne metterà in pratica le indicazioni? Esiste da tempo una bella collezione dei testi dei vescovi africani sui problemi sociali. Se un centesimo delle indicazioni, esortazioni, propositi, auspici contenuti in quei documenti fossero stati messi in pratica, anche solo all’interno delle strutture ecclesiastiche, l’Africa e la chiesa africana sarebbero molto diverse! Esporre un principio o proporre un nuovo approccio pastorale in un documento è una cosa, metterlo in pratica è un’altra. I fedeli non leggono documenti, guardano alla vita, e troppo spesso sentono tante belle parole, e vedono pochi fatti. Cosi le parole diventano irrilevanti.
Naturalmente se parliamo dei documenti vaticani è ancora peggio. Sono pressoché sconosciuti. Quanti, in Africa, anche fra i fedeli più attenti, anche fra i preti, hanno letto Africae munus, il documento papale promulgato dopo la conclusione del Sinodo Africano del 2009? Quanti saprebbero indicarne almeno le idee portanti?
Più aumentano le parole e più cresce lo scollamento fra parole e realtà. È sempre più imbarazzante per il prete o il catechista, che vive davvero a contatto con la gente, proporre idee che non diventano vita. Scorrendo il documento del SECAM con qualche amico africano, leggevamo insieme sottotitoli come “Il flagello della corruzione”, “Le condizioni per una transizione pacifica e democratica”, “L’importanza della società civile”. La domanda che veniva immediatamente alle labbra di tutti era: «Ma nella mia diocesi come si affrontano queste sfide, all’interno e all’esterno della chiesa?». Domanda inevitabile, perché oggi le informazioni, fortunatamente, circolano con grande facilita, i cristiani conoscono bene come viene gestita la loro chiesa, anche a livello locale, e non si può pensare di dare lezioni quando non si è credibili.
La chiesa africana ha il grande potenziale di un laicato disposto a giocarsi sul Vangelo. È un laicato maturo, che non pretende di avere dei pastori perfetti, è capace di accettarne le debolezze e di perdonarli, ma avrebbe bisogno di pastori che camminano insieme al gregge. La chiesa africana, come la chiesa tutta, deve urgentemente ristabilire la propria credibilità pastorale. La coerenza fra parole e fatti è importante, e può essere garantita meglio se ci fosse un coinvolgimento dei laici ai pronunciamenti ufficiali. Non è solo il problema della pedofilia che la inficia, ma più alla radice la mancata partecipazione dei laici alla vita della chiesa.
Il decreto Christus Dominus sull’Ufficio pastorale dei vescovi del Vaticano II, quasi cinquant’anni fa ormai, proponeva di istituire consigli pastorali parrocchiali e diocesani. Nell’Africa di oggi, dove questi consigli esistono, sono quasi sempre solo una formalità, un’altra occasione per vescovi e parroci di catechizzare i laici, dando per scontato che vengano approvate decisioni che sono state già prese a livelli “più alti”. Recentemente un anziano vice-presidente di un consiglio diocesano, rispettato e autorevole giudice in pensione, mi diceva: «Non possiamo neanche permetterci di dare un parere al nostro vescovo, il quale viene al consiglio diocesano con le decisioni scritte su un foglietto. Il segretario ascolta, le digita su un computer – siamo moderni! – le stampa e noi le firmiamo. Fine del consiglio». Troppi chierici hanno semplicemente deciso che i laici non sono e non diventeranno mai adulti maturi. Non sono affidabili. Non possono gestire le finanze della parrocchia. Tanto meno possono dare un parere su una questione etica…
Non si tratta quindi solo di fare dichiarazioni più coraggiose, e magari anche in un linguaggio più comprensibile. Bisogna promuovere la partecipazione di tutti i membri del popolo di Dio, se non vogliamo che i leader si ritrovino a scrivere documenti che saranno i soli a leggere.