Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

March, 2013:

Papa Francesco

In piedi, dritto, quasi sull’attenti di fronte al suo popolo. Le parole semplici. La richiesta di preghiere e la recita insieme al popolo delle preghiere che tutti conoscono. Poi inchinato, che implora “per favore” la benedizione di tutti. Sempre, sul volto segnato dall’età, un’espressione e uno sguardo sereni, da ragazzo che guarda in avanti con speranza, in pace con tutti e pronto a fare il suo dovere.

Il vescovo di Roma, la Chiesa che presiede nella carità tutte le Chiese, mi ha fatto sentire la gioia di essere nella comunione di una Chiesa che ha straordinarie riserve di innovazione e di giovinezza. Francesco è un giovane, perché la fede nutre la speranza e la carità, e mantiene per sempre giovani. Le sue prime parole oggi, alla sua prima uscita dal Vaticano, sono state di misericordia, perdono, speranza. Sono certo che darà a tutti uno slancio nuovo, aprirà nuove strade e nuovi orizzonti. Veramente la fede giovane del Sud del mondo diventa, con Francesco, visibile capo della Chiesa di Roma.

Vogliono a tutti i costi trovargli difetti, silenzi colpevoli, alleanze sporche. Certamente non sarà perfetto, e avrà delle colpe anche se non gravi come quelle che vogliono attribuirgli. La grandezza di una persona non sta nell’essere perfetto, perché perfetto è solo il Padre che è nei cieli, sta piuttosto nella disponibilità a rinascere sempre, nello spirito, come Gesù spiega a Nicodemo.

Francesco è il tipo di papa che posso immaginare venga a Nairobi e si metta a parlare con le donne in fila per l’acqua alla fontana di Kivuli, o a camminare per le strade di Kibera ascoltando partecipe e divertito le storie dei bambini di strada.

Una Chiesa Povera e Fraterna – A Poor and Fraternal Church

Nel 1965, negli ultimi giorni del Concilio Vaticano II, prima di tornare alle loro diocesi, un quarantina di padri conciliari in maggioranza latino-americani, concelebrarono l’Eucaristia nelle catacombe di Domitilla, a Roma. Poi si impegnarono a costruire una Chiesa “serva e povera”, come aveva suggerito papa Giovanni XXIII, cioè a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. Firmarono un testo, l’originale era in portoghese, probabilmente scritto da Dom Helder Camara, arcivescovo di Olinda e Recife in Brasile, dopo giornate di consultazioni con gli altri aderenti. La versione italiana che circola sul web ha qualche sbavatura, ma la semplicità, chiarezza e concretezza restano dirompenti.

Leggendolo ci si domanda inevitabilmente: perché quei vescovi non sono riusciti a contagiare tutti i fedeli e gli altri vescovi con il loro sogno di una chiesa povera e fraterna? Sono forse stati ostacolati nella realizzazione dei loro programmi? Dopo di loro, le loro diocesi sono state governate da vescovi nominati perché ritornassero sulle vecchie strade? Perché, dopo quella visione di quasi cinquant’anni fa, ci ritroviamo con tanti scandali legati alla mala gestione del potere ecclesiastico?

Se le dimissioni di Papa Benedetto ridonano al papa una dimensione umana, l’impegno di quei quaranta vescovi voleva reinserire con più evidenza la chiesa tutta nella storia umana.

E’ bello oggi, mentre i cardinali entrano in conclave, rileggere questo testo. Ci fa respirare vangelo e speranza. Ci rassicura. Ci conferma che la Chiesa non sono solo quei 115 elettori. Che l’amore e il servizio che la chiesa donano al mondo non sono solo nei loro cuori e nelle loro mani. Che ciò che noi tutti poveri cristiani facciamo ogni giorno è per lo meno altrettanto importante di quanto fa un cardinale, e che nella chiesa la gerarchia non è costruita sul potere e sui titoli onorifici, ma sulla santità.

Ci sono tante persone, in ogni condizione di vita, che portano avanti il sogno di quei vescovi. Illusi? No, profeti di un mondo ancora in gestazione.

Ecco il testo di quello che è stato chiamato “Il Patto delle Catacombe”
.
Noi, vescovi riuniti nel Concilio Vaticano II, illuminati sulle mancanze della nostra vita di povertà secondo il Vangelo; sollecitati vicendevolmente ad una iniziativa nella quale ognuno di noi vorrebbe evitare la singolarità e la presunzione; in unione con tutti i nostri Fratelli nell’Episcopato, contando soprattutto sulla grazia e la forza di Nostro Signore Gesù Cristo, sulla preghiera dei fedeli e dei sacerdoti della nostre rispettive diocesi; ponendoci col pensiero e la preghiera davanti alla Trinità, alla Chiesa di Cristo e davanti ai sacerdoti e ai fedeli della nostre diocesi; nell’umiltà e nella coscienza della nostra debolezza, ma anche con tutta la determinazione e tutta la forza di cui Dio vuole farci grazia, ci impegniamo a quanto segue:
Cercheremo di vivere come vive ordinariamente la nostra popolazione per quanto riguarda l’abitazione, l’alimentazione, i mezzi di locomozione e tutto il resto che da qui discende. Cfr. Mt 5,3; 6,33s; 8,20.

– Rinunciamo per sempre all’apparenza e alla realtà della ricchezza, specialmente negli abiti (stoffe ricche, colori sgargianti), nelle insegne di materia preziosa (questi segni devono essere effettivamente evangelici). Cf. Mc 6,9; Mt 10,9s; At 3,6. Né oro né argento. Non possederemo a nostro nome beni immobili, né mobili, né conto in banca, ecc.; e, se fosse necessario averne il possesso, metteremo tutto a nome della diocesi o di opere sociali o caritative. Cf. Mt 6,19-21; Lc 12,33s.

– Tutte le volte che sarà possibile, affideremo la gestione finanziaria e materiale nella nostra diocesi ad una commissione di laici competenti e consapevoli del loro ruolo apostolico, al fine di essere, noi, meno amministratori e più pastori e apostoli. Cf. Mt 10,8; At. 6,1-7.

Rifiutiamo di essere chiamati, oralmente o per scritto, con nomi e titoli che significano grandezza e potere (Eminenza, Eccellenza, Monsignore…). Preferiamo essere chiamati con il nome evangelico di Padre. Cf. Mt 20,25-28; 23,6-11; Jo 13,12-15.

Nel nostro comportamento, nelle nostre relazioni sociali, eviteremo quello che può sembrare un conferimento di privilegi, priorità, o anche di una qualsiasi preferenza, ai ricchi e ai potenti (es. banchetti offerti o accettati, nei servizi religiosi). Cf. Lc 13,12-14; 1Cor 9,14-19.

Eviteremo ugualmente di incentivare o adulare la vanità di chicchessia, con l’occhio a ricompense o a sollecitare doni o per qualsiasi altra ragione. Inviteremo i nostri fedeli a considerare i loro doni come una partecipazione normale al culto, all’apostolato e all’azione sociale. Cf. Mt 6,2-4; Lc 15,9-13; 2Cor 12,4.

Daremo tutto quanto è necessario del nostro tempo, riflessione, cuore, mezzi, ecc., al servizio apostolico e pastorale delle persone e dei gruppi laboriosi ed economicamente deboli e poco sviluppati, senza che questo pregiudichi le altre persone e gruppi della diocesi. Sosterremo i laici, i religiosi, i diaconi o i sacerdoti che il Signore chiama ad evangelizzare i poveri e gli operai condividendo la vita operaia e il lavoro. Cf. Lc 4,18s; Mc 6,4; Mt 11,4s; At 18,3s; 20,33-35; 1 Cor 4,12 e 9,1-27.

Consci delle esigenze della giustizia e della carità, e delle loro mutue relazioni, cercheremo di trasformare le opere di “beneficenza” in opere sociali fondate sulla carità e sulla giustizia, che tengano conto di tutti e di tutte le esigenze, come un umile servizio agli organismi pubblici competenti. Cf. Mt 25,31-46; Lc 13,12-14 e 33s.

Opereremo in modo che i responsabili del nostro governo e dei nostri servizi pubblici decidano e attuino leggi, strutture e istituzioni sociali necessarie alla giustizia, all’uguaglianza e allo sviluppo armonico e totale dell’uomo tutto in tutti gli uomini, e, da qui, all’avvento di un altro ordine sociale, nuovo, degno dei figli dell’uomo e dei figli di Dio. Cf. At. 2,44s; 4,32-35; 5,4; 2Cor 8 e 9 interi; 1Tim 5, 16.

Poiché la collegialità dei vescovi trova la sua più evangelica realizzazione nel farsi carico comune delle moltitudini umane in stato di miseria fisica, culturale e morale – due terzi dell’umanità – ci impegniamo: – a contribuire, nella misura dei nostri mezzi, a investimenti urgenti di episcopati di nazioni povere;

A richiedere insieme agli organismi internazionali, ma testimoniando il Vangelo come ha fatto Paolo VI all’Onu, l’adozione di strutture economiche e culturali che non fabbrichino più nazioni proletarie in un mondo sempre più ricco che però non permette alle masse povere di uscire dalla loro miseria.

Ci impegniamo a condividere, nella carità pastorale, la nostra vita con i nostri fratelli in Cristo, sacerdoti, religiosi e laici, perché il nostro ministero costituisca un vero servizio; così: – ci sforzeremo di “rivedere la nostra vita” con loro; – formeremo collaboratori che siano più animatori secondo lo spirito che capi secondo il mondo; – cercheremo di essere il più umanamente presenti, accoglienti…; – saremo aperti a tutti, qualsiasi sia la loro religione. Cf. Mc 8,34s; At 6,1-7; 1Tim 3,8-10.

Tornati alle nostre rispettive diocesi, faremo conoscere ai fedeli delle nostre diocesi la nostra risoluzione, pregandoli di aiutarci con la loro comprensione, il loro aiuto e le loro preghiere.

Aiutaci Dio ad essere fedeli.


Dom Helder Camara.

Elezioni in Kenya: Vincitori, Perdenti e Scomode Complicità

Uhuru Kenyatta, 51 anni, figlio del primo presidente del Kenya, e il suo socio William Ruto hanno vinto le elezioni che si sono svolte in Kenya il lunedì 4 marzo. Il 26 marzo entreranno ufficialmente in carica, rispettivamente come presidente e vicepresidente.

Per tentare di capire il significato di questa vittoria bisogna richiamare alcuni fatti. A fine dicembre 2007, vigente un’altra costituzione, correvano per la presidenza Mwai Kibaki, sostenuto fra gli altri da Uhuru Kenyatta, e Raila Odinga, con William Ruto come braccio destro. Ci furono molti brogli da entrambe le parti (come ebbero modo di appurare in seguito commissioni nazionali e internazionali). Alla fine, per una manciata di voti, prevalse Kibaki, che aveva già guidato il Kenya nei cinque anni precedenti e che aveva, quindi, il vantaggio di occupare già la residenza presidenziale. Raila protestò, parlò di elezioni rubate, e immediatamente si scatenarono due mesi di violenze, che provocarono, secondo le stime più credibili, almeno mille e cinquecento morti e trecentomila sfollati, la maggioranza dei quali contadini kikuyu costretti ad abbandonare le terre della Rift Valley. Molti degli sfollati non sono stati mai risarciti e non hanno potuto rientrare nelle loro case.

Un altro punto focale delle violenze fu Kibera, il più grande slum di Nairobi, dove Koinonia aveva appena aperto un centro di prima accoglienza per bambini di strada. Ricordo le telefonate notturne di Jack, l’educatore, rimasto il solo adulto con una quindicina di bambini: «Padre, stanno sparando vicino a casa. Cosa faccio? Forse domani sarebbe meglio spostare i bambini in un’altra casa».

Gli scontri avvennero solo fra poveri, per il controllo delle terre e in nome dell’appartenenza etnica. I quartieri ricchi di Nairobi, le proprietà terriere e le aziende agricole appartenenti all’élite politica di entrambe le parti non ne furono minimamente toccate.

La posizione geopolitica del Kenya fece sì che la “comunità internazionale” intervenisse con sollecitudine. L’economia di Sudan, Uganda, Rwanda e Burundi che dipendono dal porto di Mombasa per tutte le loro importazioni, carburante incluso, stavano per crollare. La comunità internazionale convinse – in particolare gli americani usarono tutti i loro mezzi di “convinzione” – le due parti a formare un governo di coalizione, creando per Raila il posto di primo ministro.

Nei mesi successivi nella grande coalizione si crearono nuove alleanze e nacquero nuovi partiti. Nell’agosto del 2010 veniva approvata con un referendum popolare la nuova costituzione, sul modello americano, con un presidente e vicepresidente; la carica di primo ministro veniva abolita. Intanto si affermava, localmente e internazionalmente, la volontà di punire i responsabili delle violenze post-elettorali del 2007, per assicurarsi che fatti simili non si sarebbero più ripetuti, e farla finita con l’impunità di cui avevano goduto tutti i potenti kenyani sin dall’indipendenza. Si ripeteva inoltre all’infinito che si doveva affrontare il problema della terra, o della ridistribuzione delle terre, che è alla radice di tutti i conflitti in Kenya, e inestricabilmente legato all’identità tribale.
Ma ogni tentativo di investigare i crimini in Kenya fallì, e così, sotto la spinta dell’opinione pubblica, intervenne la Corte penale internazionale (Cpi) dell’Aja. La Corte incriminò inizialmente sei persone, tre di ogni campo, indicate come i maggiori responsabili delle violenze. In seguito però, le accuse contro due di loro non furono confermate. Dei quattro rimasti, che tra poche settimane dovrebbero presentarsi all’Aja, i più importanti per la posizione che detenevano al momento dei fatti sono appunto Uhuru Kenyatta e William Ruto. Che nel frattempo, da acerrimi nemici che erano sono diventati alleati, e rispettivamente presidente e vice-presidente…

La procedura seguita dalla Cpi non è esente da critiche ed è stata certamente influenzata da criteri politici. Come mai prima tre e tre accusati, e poi due e due? Forse un tentativo di equilibrismo per non aumentare l’animosità e dare l’impressione d’imparzialità. È una sfida al buon senso pensare che Uhuru e Ruto siano responsabili di crimini contro l’umanità e che i loro capi, Kibaki e Raila, non ne sapessero niente. E questo sopratutto nel caso di Raila, che ha la reputazione di controllare il suo partito nei minimi dettagli e dove non c’è promozione o rimozione, anche ai livelli più bassi, senza il suo accordo. I fatti e la logica avrebbero voluto che i primi accusati fossero Kibaki e Raila. Tutti in Kenya immaginano che Ruto abbia documenti che provano il coinvolgimento di Raila nel programmare le violenze di cinque anni fa, e che sarebbe pronto a svelarli se la sua posizione dovesse peggiorare. A maggior ragione potrebbe farlo ora, che Raila ha perso ogni carica istituzionale. Insomma, i quattro personaggi sono irrimediabilmente legati da scomode complicità.

Nel frattempo, in cinque anni, nulla di sostanziale è stato fatto per risolvere le questioni della terra e della crescente “negative etnicity” – termine politically correct inventato per evitare di parlare di “tribalismo”. Non è stato neppure completamente risolto il dramma degli sfollati, considerati quasi …fastidiosi testimoni piuttosto che vittime di una situazione non creata da loro. Il tribalismo è cresciuto in maniera esponenziale: più ci si sente minacciati dalle rivendicazioni degli altri, più ci si chiude nella propria comunità etnica. È un processo che ho visto crescere negli ultimi 20 anni, da quando il presidente Moi ha cominciato a mettere kalenjin contro kikuyu per controllare il crescente potere economico e politico di questi ultimi. Conosco molte persone ragionevoli che non erano tribaliste, ma che lo sono diventate o che comunque oggi hanno votato secondo linee tribali.

Mi diceva un professore di filosofia con esperienza di insegnamento anche in università estere: «Come posso votare per un presidente luo che cinque anni fa ha scatenato la caccia alla mia gente nella città che lui controllava con le sue squadracce?». D’altro canto Otieno, un ragazzo di Kibera, protesta: «Qui siamo in maggioranza luo ma viviamo in una città controllata da avidi kikuyu». Sono affermazioni che vent’anni fa non si sentivano. Gli stereotipi si consolidino in generalizzazioni tanto ingiuste quanto inoppugnabili per chi le pronuncia.

Purtroppo la geografia del voto e la matematica confermano. Il calcolo e’ semplice; Uhuru e Ruto rappresentano i due gruppi etnici che in termini di numeri sono il primo (kikuyu) e il terzo (kalenjin). Raila (luo) e il suo socio Kalonzo Musyoka (kamba) rappresentano il quarto e il quinto gruppo etnico, e si erano assicurati una certa forza sulla costa, presentandosi come difensori dei diritti della comunità musulmana. I luhya, numericamente secondo gruppo etnico, non avevano un rappresentante forte e i loro voti sono andati dispersi. Gli altri sei candidati venivano percepiti come troppo deboli e senza possibilità di vittoria. È un’analisi brutalmente tribale, ma difficile provare il contrario.

E adesso?

Raila ha dichiarato che impugnerà i risultati, ma difficilmente troverà sostegno. Gli osservatori internazionali hanno dichiarato che le elezioni sono state libere e giuste, e nessuno vuol vedere il Kenya diventare instabile e magari precipitare nel caos. Il fragile processo di pacificazione in Somalia, la ricostruzione nazionale in Sud Sudan, le tensioni in Uganda, Rwanda, Burundi, la parte orientale della Rd Congo, mancando il perno di un Kenya stabile, potrebbero esplodere e precipitare tutta l’Africa orientale nel caos.

Per le stesse ragioni la comunità internazionale sarà molto cauta nel sostenere i processi in corso alla Cpi dell’Aja. USA, Gran Bretagna e Francia, che avevano fatto sapere che avrebbero limitato all’essenziale i contatti con Kenyatta in caso di sua vittoria alle presidenziali, adesso dovranno trovare il modo di addolcire la loro posizione. Non solo il Kenya è un alleato fondamentale nelle guerra contro il terrorismo di Al-Qaeda – come ha dimostrato vincendo contro Al-Shabaab in Somalia – ma compagnie multinazionali hanno investito pesantemente in Kenya nei settori bancari, delle costruzioni, turismo, agricoltura, sicurezza, telecomunicazioni, informatica.

Certo, Raila non si darà facilmente per vinto, perché l’alternativa è sparire completamente dalla scena politica ed economica del Kenya. La costituzione, infatti, prevede che una persona può candidarsi a una sola carica. Se perde, in questo caso la presidenza, non gli resta altro che aspettare un’altra opportunità, ma fra cinque anni. A meno che Kenyatta, per tenerlo buono, decida di dargli un ministero.

Kivuli (Nairobi), 4 marzo 2013. La gente è stata in coda per ore e ore per poter votare.

Le Parole e i Fatti

In questi giorni le corrispondenze dal Vaticano e le opinioni di teologi, come pure di tanti cristiani che semplicemente sono partecipi della vita della chiesa, sottolineano i problemi, le difficoltà, le “sfide” che il nuovo papa dovrà affrontare. Non mancano i suggerimenti, se non addirittura proposte di soluzione.

L’editorialista di un autorevole settimanale cattolico inglese pochi giorni fa suggeriva ai leader della chiesa europea, che affogano in un mare di documenti mentre perdono contatto con i fedeli, di guardare all’Africa, in particolare ai pronunciamenti dei vescovi africani, e di trarre ispirazioni di concretezza da un documento pubblicato un mese fa dal SECAM (Symposium of the Episcopal Conferences of Africa and Madagascar) intitolato “Governance, bene comune e transizione democratica in Africa”. Per dar forza al suo argomento l’autore ne cita diversi paragrafi e li applica all’Europa. Ovviamente è anche un implicito invito a cercare il nuovo papa fra i cardinali africani, nell’ingenua assunzione che i pastori africani siano più vicini alla gente.

Mi spiace deludere, ma per quanto riguarda l’irrilevanza dei pronunciamenti ufficiali dei vescovi e delle conferenze episcopali, il fenomeno tocca, eccome, anche la chiesa africana. Il citato documento del SECAM è un’ottima sintesi della dottrina sociale della chiesa con delle indicazioni su come applicarla oggi in Africa. Ma chi lo leggerà? Soprattutto, chi ne metterà in pratica le indicazioni? Esiste da tempo una bella collezione dei testi dei vescovi africani sui problemi sociali. Se un centesimo delle indicazioni, esortazioni, propositi, auspici contenuti in quei documenti fossero stati messi in pratica, anche solo all’interno delle strutture ecclesiastiche, l’Africa e la chiesa africana sarebbero molto diverse! Esporre un principio o proporre un nuovo approccio pastorale in un documento è una cosa, metterlo in pratica è un’altra. I fedeli non leggono documenti, guardano alla vita, e troppo spesso sentono tante belle parole, e vedono pochi fatti. Cosi le parole diventano irrilevanti.
Naturalmente se parliamo dei documenti vaticani è ancora peggio. Sono pressoché sconosciuti. Quanti, in Africa, anche fra i fedeli più attenti, anche fra i preti, hanno letto Africae munus, il documento papale promulgato dopo la conclusione del Sinodo Africano del 2009? Quanti saprebbero indicarne almeno le idee portanti?

Più aumentano le parole e più cresce lo scollamento fra parole e realtà. È sempre più imbarazzante per il prete o il catechista, che vive davvero a contatto con la gente, proporre idee che non diventano vita. Scorrendo il documento del SECAM con qualche amico africano, leggevamo insieme sottotitoli come “Il flagello della corruzione”, “Le condizioni per una transizione pacifica e democratica”, “L’importanza della società civile”. La domanda che veniva immediatamente alle labbra di tutti era: «Ma nella mia diocesi come si affrontano queste sfide, all’interno e all’esterno della chiesa?». Domanda inevitabile, perché oggi le informazioni, fortunatamente, circolano con grande facilita, i cristiani conoscono bene come viene gestita la loro chiesa, anche a livello locale, e non si può pensare di dare lezioni quando non si è credibili.

La chiesa africana ha il grande potenziale di un laicato disposto a giocarsi sul Vangelo. È un laicato maturo, che non pretende di avere dei pastori perfetti, è capace di accettarne le debolezze e di perdonarli, ma avrebbe bisogno di pastori che camminano insieme al gregge. La chiesa africana, come la chiesa tutta, deve urgentemente ristabilire la propria credibilità pastorale. La coerenza fra parole e fatti è importante, e può essere garantita meglio se ci fosse un coinvolgimento dei laici ai pronunciamenti ufficiali. Non è solo il problema della pedofilia che la inficia, ma più alla radice la mancata partecipazione dei laici alla vita della chiesa.

Il decreto Christus Dominus sull’Ufficio pastorale dei vescovi del Vaticano II, quasi cinquant’anni fa ormai, proponeva di istituire consigli pastorali parrocchiali e diocesani. Nell’Africa di oggi, dove questi consigli esistono, sono quasi sempre solo una formalità, un’altra occasione per vescovi e parroci di catechizzare i laici, dando per scontato che vengano approvate decisioni che sono state già prese a livelli “più alti”. Recentemente un anziano vice-presidente di un consiglio diocesano, rispettato e autorevole giudice in pensione, mi diceva: «Non possiamo neanche permetterci di dare un parere al nostro vescovo, il quale viene al consiglio diocesano con le decisioni scritte su un foglietto. Il segretario ascolta, le digita su un computer – siamo moderni! – le stampa e noi le firmiamo. Fine del consiglio». Troppi chierici hanno semplicemente deciso che i laici non sono e non diventeranno mai adulti maturi. Non sono affidabili. Non possono gestire le finanze della parrocchia. Tanto meno possono dare un parere su una questione etica…

Non si tratta quindi solo di fare dichiarazioni più coraggiose, e magari anche in un linguaggio più comprensibile. Bisogna promuovere la partecipazione di tutti i membri del popolo di Dio, se non vogliamo che i leader si ritrovino a scrivere documenti che saranno i soli a leggere.

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