Kabiria Road è all’estrema periferia di Nairobi, oltre un chilometro di buche e dossi, e solo di tanto in tanto qualche metro di strada liscia. Un susseguirsi ininterrotto – e sempre in mutazione – di negozietti, bancarelle, donne che preparano frittelle, o chapati (il pane piatto di tipo indiano), o abbrustoliscono pannocchie di mais ai lati della strada. Ci sono macellerie con quarti di bue appesi a due metri dalle auto in movimento, polli in gabbia, capre legate ad un albero che cercano di mangiare tutto ciò che capita a tiro, anche i sacchetti di plastica vuoti, e dappertutto gente che compra, vende, passeggia e discute in mezzo alla strada e si sposta solo se minacci di investirli, barbieri all’aperto, posti di ristoro che offrono specialità locali come githeri (un straordinaria minestra di fagioli, chicchi di mais e patate), pensioni con due camere di lamiera e senza servizi ma con nomi altisonanti e fantasiosi come Regency Hotel Annex, o Mandela’s Hut o Mama Jane’s Villa. Il grande mondo modifica la vita di Kabiria non solo quando in televisione ci sono le partite del Manchester United e i negozianti per attirare clienti mettono una televisione accesa in vetrina, o arriva il politico candidato presidente alle ormai imminenti elezioni. La gente si muove, emigra in cerca di fortuna, e ritorna con racconti di terre lontane.
L’altro giorno vedo arrivare a Kivuli, dove Kabiria Road sta per esaurirsi nella campagna intorno a Nairobi, la mamma di un bambino che era in strada e che qualche mese fa ci è stato portato dalla polizia, pizzicato per aver tentato un furto di biscotti da una bancarella. La signora è tutta in ghingheri, strano per un giorno feriale. Non vorrei essere indiscreto e non le chiedo niente, ma dopo un po è lei che me ne spiega la ragione.”Sai, mio figlio maggiore, Caleb, quello che lavorava come magazziniere con uno stipendio da fame, che non gli bastava neanche per pagare l’affitto di una baracca e quindi viveva nella mia baracca con moglie e due figli, adesso è andato a lavorare a Mogadiscio come logistico per una ONG americana, e ha cominciato mandarmi qualche soldo ogni mese”.
La pace sta tornando in Somalia dopo venti anni di caos, e Mogadiscio è la nuova frontiera per i più intraprendenti lavoratori keniani di livello medio basso. Anni fa chi aveva delle competenze come meccanico, autista, logistico, operatore di computer, o anche semplicemente come affidabile guardiano ed era disposto a correre qualche rischio, cercava lavoro con le ONG che operavano con l’OLS (Operation Lifeline Sudan). Era una vita lontana da casa, segnata da sacrifici e incertezze, con tutti i rischi di una zona di guerra, ma si poteva prendere una salario cinque volte più alto che non in Kenya. Poi c’è stato il momento di Dubai e gli Emirati Arabi, dove cercavano mano d’opera a tutti i livelli ad anche personale con qualifiche superiori. Poi, con il trattato di pace fra Sudan e Sud Sudan, Juba la capitale del Sud, è stata per parecchi anni il nuovo punto di riferimento. Ma adesso l’OLS è chiusa da un pezzo, Dubai e gli Emirati Arabi sono pure vittime della crisi mondiale e la gente non ci va più volentieri per aver sentito raccontare troppe storie di discriminazione, a Juba i keniani erano diventati una presenza talmente ingombrante da provocare reazioni negative. Adesso, per chi è disposto a rischiare, Mogadiscio è il posto più vicino dove si può avere una buona paga senza affrontare le distanze e i rischi di un viaggio in Europa.
La città somala sta rinascendo dalle ceneri. Ovunque ci sono lavori di recupero e ristrutturazione degli edifici danneggiati dalla guerra – praticamente tutti – e se ne tirano su di nuovi. Non tutti gli esperti son convinti che questa fase di pace sia duratura, e che non sia semplicemente un momento di stallo della guerra civile in cui i contendenti stanno rafforzandosi e misurando le forzse degli altri, ma con le recenti avanzate della forza di pace panafricana AMISOM, con la sconfitta di Al Shabaab, la nuova costituzione e le elezioni la speranza che le pace possa durare è credibile.
La mamma di Caleb dice che suo figlio le racconta al telefono di centinaia e centinaia di lavoratori keniani impiegati a tutti i livelli nella ricostruzione della città. I rifugiati somali che ritornano in patria – per approfittare del momento economico favorevole ma anche perché sono stanchi dai continui controlli e pressioni del governo keniano che non perde occasione per far loro capire che ormai è tempo di tornare a casa – sono per lo più scaltri commercianti con pochissime competenze in altri settori. D’altro canto la lunga guerra ha causato la sparizione di tutte le competenze lavorative, e quindi subito dopo essere rientrati i somali chiedono ai loro ex-dipendenti keniani di raggiungerli, come autisti, contabili, operatori di computer, tecnici del telefono, muratori, capomastri, falegnami, cuochi nei ristoranti che stanno riaprendo vicino alle spiagge dove i pirati somali tornano a fare i pescatori.
Ormai, continua la mamma di Caleb, accarezzandosi con orgoglio il bel vestito dai colori sgargianti, sono almeno una trentina gli abitanti di Kabiria Road che si sono trasferiti a Mogadiscio: “Le paghe sono ottime. Pensa che mio figlio prende quasi 400 dollari americani al mese!”