Avevo intitolato “Fallimento” uno di questi post, qualche tempo fa, ricordando un desolante incontro che avevo avuto pochi giorni prima con un ragazzo che anni fa avevamo tentato di riscattare dalla strada. Commentandolo, l’amico Alessandro mi aveva giustamente fatto notare che noi non possiamo illuderci di salvare, c’è solo Cristo che salva. Anche se, scriveva Alessandro, comunque “l’uomo deve collaborare al disegno di Dio: mica possiamo stare con le mani in mano ad aspettarla passivamente questa benedetta salvezza”… Si, proprio perché noi non salviamo nessuno, perché siamo cosi incapaci e deboli, e nello steso tempo siamo sempre tentati di crederci al centro del mondo, abbiamo bisogno che i fatti ci ricordino i nostri fallimenti, ma anche che di tanto in tanto qualcuno ci faccia credere che il nostro impegno serva a qualcosa, che Dio lo usi per salvare e per far crescere gli altri.
L’altro giorno ho vissuto uno di questi momenti. A Kivuli, in cucina, stavo lavando un abbondante raccolto di verdure provenienti dall’orto della Casa di Anita. Ero con tre ragazzi, ed uno di loro, che era sempre stato in silenzio, dopo un po mi ha chiesto di parlarmi. Allora sono andato con lui a sedermi sui gradini fuori dalla porta di casa, ed ha incominciato a raccontarmi la sua vita. Non conosce il padre, ha un vago ricordo della mamma che e’ morta quando lui aveva sei anni. E’ cresciuto in casa di uno zio che ha nove figli. Anni di povertà, di fame profonda, permanente, fin quando ha deciso di scappare in strada. Dopo altri tre anni di vita allo sbando, è stato avvicinato in strada dal nostro Bonny che l’ha convinto a venire a Kivuli. Tutte cose che sapevo già, e, sapendole, ho sempre apprezzato come questo ragazzo abbia saputo gestire un passato tanto pesante. “Adesso – mi dice – son qui da otto anni, ne ho ventitré, e se penso alla mia famiglia, ho momenti di sconforto, anzi di disperazione, mi sembra di non valere niente, di essere nato e vissuto per caso. Anche Dio, in quei momenti, aiuta poco. In quesi ultimi tempi sono più tranquillo perché Bernard mi ha chiesto di essere il riferimento per un gruppo di bambini appena arrivati dalla strada, la sera, quando rientro dalla scuola di ragioneria. Mi accorgo che la mia presenza per loro è importante, che mi guardano come ad un esempio, e mi sembra finalmente di avere uno scopo nella vita. Vorrei continuare a fare questo lavoro di assistente sociale per sempre, mi da la certezza che potrò avere dei figli miei e aver cura di loro, farli crescere amati e felici”. Il suo sfogo, che ho riassumo in poche righe, è durato a lungo, inframmezzato da lunghi silenzi e da faticose riprese. Gli confermo che il suo impegno è apprezzato, che in tanti gli vogliono bene. Poi mi dice “Sai padre, hai notato una cosa? Io non ti chiamo mai padre Kizito, ti chiamo sempre e solo padre, fin da quando sono arrivato qui. Vedi, un bambino che chiama suo padre non lo chiama col nome, lo chiama semplicemente padre, perché per lui il padre è quello, e non altri. Io ho sempre segretamente pensato che tu sei veramente mio padre, solo mio. Questo pensiero mi da forza. Voglio che tu sappia che quando io ti chiamo padre lo faccio perché mi sento tuo figlio, non perché tu sei un prete. Posso continuare a chiamarti solo padre? Me ne dai il permesso?”