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November, 2012:

Tone la Maji Circus Project

Il 21 novembre provenienti da Torino, sono arrivati a Nairobi gli amici della Fondazione “Uniti per crescere Insieme ONLUS” (UCI) per dare vita alla prima fase del “Tone La Maji Circus Project”.
Il progetto che ha preso il via il 26 novembre a Tone la Mji prevede laboratori di Circo Sociale giornalieri rivolti ai bambini e agli adolescenti delle nostre case: Tone La Maji, Kivuli, Casa di Anita e Ndugu Mdogo che si protrarranno fino al 19 dicembre.
In questa prima fase del progetto sono presenti: Maria Luisa Mirabella, presidente della fondazione UCI; Luca Sartor, educatore professionale e professore di circo; Luca Marzini, operatore di circo sociale; Francesca Santarelli e Anna Monaco, volontarie; Martina Carlini assistente artistica; Raffaele Ballarati, del Consiglio di Indirizzo di UCI. UCI ringrazia La Goccia per mettere a disposizione la struttura, e ancora La Goccia e Amani e Koinonia per il grande lavoro educativo gia fatto con questi ragazzi.
Il TLM Circus Project proseguirà le sue attività fino a dicembre 2014, con altre quattro sessioni distribuite nel 2013 e 2014, nei periodi delle vacanze scolastiche.
Uniti per Crescere Insieme con questo nuovo programma continua la tradizione di Koinonia di usare le arti circensi per la riabilitazione ed educazione dei giovani.
Per la prima volta alcune bambine della Casa di Anita partecipano a questo tipo di attivita. I partecipanti sono divisi in due gruppi, bambini e adolescenti, con la prospettiva che per la fine del 2014 gli adolescenti possano a loro volta diventare istruttori.

Sono giornate di impegno e allegria per tutti.

Alle prese coi foulards. Handling the foulards.

I piccoli cercano di domare il “Diablo”.The small ones try to tame the “Diablo”

Fallimento

Sto guidando l’auto, carica di bambini, nel centro di Nairobi ed ho, molto imprudentemente lasciato il finestrino aperto. Mi si avvicina una tipica persona di strada. Vestiti sdruciti e sporchi, alto, magrissimo, occhi arrossati, una smorfia che forse é un sorriso ma quasi privo di denti. Se non conoscessi le strade di Nairobi potrei dargli 50 anni, conoscendole penso che ne possa avere fra i venticinque e i trenta. E’ all’ultimo stadio della parabola discendente di una “vita di strada”. Gli stenti, la fame, lo sniffare la colla e la benzina, le infezioni, le discriminazioni e il disprezzo, le malattie di tutti i generi fanno si che a un certo punto la persona non reagisca più, si lasci morire. Penso che ormai avrà qualche mese di vita, e il recupero é quasi impossibile. Solo le suore di Madre Teresa accettano una persona ridotta cosi, e possono aiutarla a vivere gli ultimi giorni con solidarietà e affetto. L’uomo si appoggia al finestrino dell’auto, ferma a un semaforo. Sorride ancora, si, é proprio un sorriso, mi fissa con quegli occhi malati. La gente ben vestita continua a passare sul marciapiede, frettolosa. Sono impiegati, funzionari governativi, gente che fa ha fatto le ultime spese prima che i negozi chiudano. L’uomo continua a fissarmi. “Non mi riconosci?” No, non lo riconosco. Scavo nella memoria ma non ritrovo un volto che possa assomigliare a questo volto devastato. “Sono Lwanga, non ti ricordi?”

Mi si stringe il cuore. Lwanga era un ragazzo di strada di non ancora 10 anni quando insieme ad Andrew nel 1992 incominciammo ad avvicinare un gruppo che stazionava nel mercato di Riruta Satellite. Mi aveva colpito perché Lwanga é il nome di un altro dei Martiri d’Uganda, come Kizito, e i nostri nomi erano stati un buon aggancio quando lui mi si era avvicinato per chiedere da mangiare. Lwanga era diventato un entusiasta giocatore degli Yassets, la squadra di calcio organizzata da Andrew e si era trasformato in un adolescente allegro e aperto. Da qualche parte devo avere ancora una foto fatta durante gli allenamenti nel campetto della scuola di Riruta, con Andrew esultante perché la sua squadra ha vinto, e Lwanga, come al solito, gli é vicino. Non gli pareva vero di aver trovato un adulto che si interessasse di lui, lo proteggesse. Poi Andrew, poco prima di morire in un incidente d’auto nel novembre del 1997, lo rimise in contatto con la famiglia, e lo aveva sistemato nella casa di una zia, iscrivendolo anche ad una scuola di meccanici per auto. Ricordo la trepidazione con cui Andrew aveva seguito la crescita di Lwanga.

Poi, dopo la morte di Andrew, lo avevamo perso di vista. Lo rivedo solo oggi, stritolato dalla vita. Gli chiedo di venirmi a trovare a Kivuli, ma temo che non lo rivedrò. Il ragazzino che stimolato da Andrew aveva re-imparato a guardare alla vita con fiducia non c’è più. Anche lui lo sa. Mi dice che verrà, ma si capisce che non ci crede. Ormai non si aspetta più niente.

Nairobi e’ una macchina che stritola i più deboli. Chi non é forte dentro, viene distrutto. Come sempre, quando una persona come Lwanga fallisce ti fa riflettere sulla ragione del fallimento e sull’efficacia e significato del nostro impegno a fianco delle persone di strada. Andrew ha dato a Lwanga protezione e affetto, lo ha rimesso in contatto con la famiglia dedicandogli innumerevoli visite, gli ha trovato la scuola, ha dovuto convincere gli insegnanti a accettarlo nella loro classe… E tutto questo per cosa?

Per motivarci possiamo pensare alle tante persone che sono passate nelle nostre case e adesso sono giovani adulti normalmente integrati e normalmente felici, per lo meno come si può essere felici in questo mondo, per convincerci che il nostro lavoro non é stato comunque inutile.

Ma una persona ridotta come Lwanga é una sconfitta bruciante. Eppure, pensando a lui e a qualcun altro come lui, non mi pento di aver sprecato tempo, fatiche e risorse perché qualcuno di Koinonia potesse restargli vicino. Il bene resta. E’ eterno. I momenti di felicità che Andrew ha saputo donare a Lwanga, anche fossero gli unici della sua vita, saranno per sempre, oltre la morte, sia in Lwanga che in Andrew. Dobbiamo cercare di fare bene il bene, ma anche se facciamo qualche sbaglio, il bene resta.

Elezioni e Violenza

Dal 19 novembre fino al 16 dicembre in tutto il Kenya sono aperte le postazioni per la registrazione degli elettori. Le elezioni si terranno il 4 marzo 2012, le prime dopo l’approvazione della nuova costituzione avvenuta nell’agosto del 2010. I keniani in una solo giorno ssaranno chiamati a eleggere il presidente, i senatori (47), i parlamentari (290), i governatori delle contee (47), e i rappresentati nei mini-parlamenti delle 47 contee. Una straordinaria opportunità’ di rinnovamento.

La registrazione degli elettori, effettuata dalla Commissione Indipendente per le Elezioni e i Confini (in inglese Independent Electoral and Boundaries Commission, o IEBC, che ha il mandato anche di stabilire i confini dei collegi elettorali e organizzare e gestire le elezioni) ) sarà fatta in 25.000 postazioni disseminate in tutto il paese. La Commissione prevede di registrare almeno 18 milioni di elettori, ma molti dicono che potrebbero diventare anche 21 o 22 milioni.

La registrazione sarà fatta con avveniristici Biometric Voter Registration (BVR) kit, consistenti in un computer portatile con un sistema di alimentazione solare e annessi software e hardware, che permettono di archiviare per ogni potenziale elettore il documento di identità, la foto e le impronte digitali. Il tutto verrà poi verificato e gestito nel momento delle elezioni da un sistema centralizzato, che, dice la ditta fornitrice dei kit, sarà assolutamente sicuro e immune da manipolazioni.

Tutto bene dunque? Non proprio. Siamo in un paese dove le tensioni etniche, alimentate ad arte, sono in crescita, e dove la violenza fisica più brutale e diventata talmente parte della vita quotidiana da non fare più notizia.

Il primo gravissimo segnale e’ che Uhuru Kenyatta e William Ruto, incriminati dalla Corte Criminale Internazionale dell’Aia per crimini contro l’umanità avvenuti subito dopo le precedenti elezioni e oggi in attesa di processo, sono in corsa per la poltrona presidenziale. Il processo contro di loro dovrebbe incominciare il 10 aprile, poco più di un mese dopo le elezioni, e, a scanso di equivoci, il pubblico ministero dell’Aia ha fatto sapere che il procedimento continuerà anche se uno degli incriminati dovesse essere eletto.

Intanto le prime pagine dei giornali riportano continuamente notizie di violenze, ma quasi mai i responsabili vengano assicurati alla giustizia.

Sabato 6 novembre, a Baragoi, circa 40 poliziotti (incredibilmente non si sa ancora il numero preciso) sono caduti in un’imboscata di razziatori di bestiame e sono stati massacrati. E’ il più grave colpo inferto alla polizia in tutta la storia del Kenya. Ad oggi, 21 novembre, nessuno dei colpevoli e’ stato preso, e nessuno dei responsabili di questo disastro ha sentito il bisogno di dare le dimissioni. Ancora peggio, il fatto e’ sparito dalle notizie e dai commenti. Ma quasi ogni giorno ci sono notizie simili, ormai considerate degna solo di qualche pagina interna se le vititme sono poche. Ieri, a pagina tre del maggior quotidiano: “tre soldati uccisi a Garissa da banditi che poi sono fuggiti con le loro armi”. I soldati erano parte di un piccolo contingente che stava andando in Somalia.

Domenica 19 novembre, a Eastleigh, quartiere di Nairobi, abitato in prevalenza da rifugiati Somali, esplode una bomba su un “matatu” – veicolo per il trasporto pubblico. Ad oggi dieci persone sono morte in conseguenza dello scoppio, e tutto il quartiere e ancora sconvolto da disordini.

E non possiamo dimenticare la lunga lista di attacchi alle chiese cristiane nel corso dell’ultimo anno.

La connessione fra questi avvenimenti e l’entrata delle forze armate keniane in territorio somalo in ottobre del 2011 e’ impossibile da negare, nonostante le autorità evitino accuratamente di ammettere questo legame, perché il riconoscerlo potrebbe solo aggravare le violenze. Ma che questi fatti di violenza possano avere, e abbiano sempre di piu, un legame con le imminanti elezioni non e’ da escludere.

La violenza fisica aumenta il fossato fra la nuova classe benestante di Nairobi, beneficiaria della crescita economica in atto, e il resto della popolazione. La borghesia emergente della capitale, che mandai i figli a fare l’università’ in Inghilterra e Stati Uniti, si sente anni luce distante dai razziatori di bestiame di Baragoi, ed e’ inorridita dalla violenza delle bombe. Eppure pratica quotidianamente una violenza fatta di corruzione, concussione, discriminazione. E’ un altro tipo di violenza, quella del potere e del denaro, che e’ all’origine di questa società’ malata.

La patina di modernità della registrazione computerizzata degli elettori non sara sufficiente a garantire che le prossime elezioni saranno senza violenza. Ci aspettano mesi molto difficili.

Nairobi, 19 novembre 2012. Postazione di registrazione degli elettori a Kibera, vicino a Ndugu Mdogo Rescue.

Cristiani-Musulmani: Convivenza a Rischio

Non sono un esperto di Islam. Anche se vivo in Africa da 35 anni, non ho mai avuto il tempo e l’occasione di approfondirne la conoscenza. Sono semplicemente un missionario che nei suoi giri per l’Africa e nelle sue attività quotidiane si è spesso trovato a fare un pezzo di strada insieme ad alcuni musulmani. Sempre nel reciproco rispetto e qualche volta stringendo profonde amicizie. Per questo mi sento ferito dalla crescente incomprensione e violenza che sta scavando un fossato fra le due fedi, sopratutto in due paesi chiave per l’Africa come la Nigeria a Ovest e il Kenya a Est.
In tempi anche recenti la convivenza pacifica in Africa sub-sahariana fra cristiani e musulmani era scontata. Tipico il caso del Senegal, un paese a stragrande maggioranza musulmana diventato indipendente nel 1960 e governato fino al 1980 dal presidente-poeta Leopold Sedar Senghor, uno che certo non nascondeva la sua fede cattolica, senza che ci fossero mai problemi e conflitti di religione. In Costa d’Avorio c’era un personaggio straordinario come Amadou Hampâté Bâ, nato in Mali ma di fatto portavoce del mondo islamico di tutta l’Africa occidentale. Sempre vestito con gli abiti tradizionali del suo popolo Fulbe, e a suo agio in una capanna di villaggio come nei corridoi dell’UNESCO e dell’ONU, Hampâté Bâ non aveva mai cercato posizioni di potere politico, ma la sua autorità morale era immensa e le sue mani erano sempre aperte all’amicizia e al dialogo con tutti.
La dove l’avanzata musulmana s’era fermata dopo la spinta iniziale, fra il Sahel e l’Africa sub-sahariana, l’aggressività s’era nei secoli stemperata nelle tradizioni africane di tolleranza, accoglienza e ospitalità. E così la convivenza rispettosa, con il successivo avvento dell’evangelizzazione cristiana nel Golfo di Guinea, era diventata parte della tradizione di entrambe le fedi. Lo stesso in altre zone. Tipica in Sudan la regione dei Monti Nuba, dove l’appartenenza religiosa diversa, anche all’interno della stessa famiglia, non costituiva motivo di tensione. O sulla costa orientale dell’Africa, dove dopo gli scontri fra i primi colonizzatori portoghesi e le popolazioni già islamizzate o di origine araba si era ritrovata la strada di una convivenza quotidiana pacifica.
La capacità di integrare le differenze è costitutiva delle culture africane, di una società dove la differenza, non l’uniformità, è la regola. Ma non si può negare che sotto una superficie tranquilla c’erano anche delle tensioni, seppur non gravi, alimentate da fondamentalisti di entrambe le parti, anche se in questo caso, bisogna ammetterlo, le responsabilità più gravi furono probabilmente di una frangia di missionari cristiani.
Perché allora di questi tempi, la crescente violenza, gli atti terroristici seguiti da reazioni inconsulte come gli attentati nelle chiese in Kenya a Nigeria? Proprio mentre con il Concilio Vaticano II e il movimento ecumenico in tutta la cristianità sono cresciuti il rispetto per le altre religioni, l’abitudine al dialogo e il rifiuto della violenza?
C’è stato il risveglio del mondo islamico e la presa di coscienza di una propria identità, che coincide con l’uscita del mondo arabo dalla tutela occidentale, risveglio iniziato verso la metà del secolo scorso e che si è progressivamente affermato. Vent’anni fa un vero esperto del musulmanesimo così mi spiegava la tensioni che cominciavano ad emergere anche in Africa, alimentate dalla ripresa del proselitismo islamico: “Nel mondo arabo hanno sempre pensato all’Africa sub-sahariana come al giardino dietro casa, che era trascurato, ma che comunque era il loro giardino. Oggi si sono accorti che quel giardino è diventato cristiano, quasi che il cristianesimo ne abbia preso possesso durante l’assenza del proprietario. E ciò non piace”.
C’è stato anche un crescente uso politico delle religione. Mentre il mondo occidentale diventava sempre più secolarizzato e ormai la religione ha poca importanza nella vita pubblica, tanto meno gioca un ruolo nell’elaborazione della politica estera, nel mondo arabo si pensa che occidente e cristianesimo coincidano. La reazione ed odio contro l’aggressività economica e culturale dell’occidente, alimentata da movimenti numericamente minoritari ma comunque importanti, diventa odio contro il cristianesimo, percepito come la religione degli occidentali.
Su questi due primi fattori si e’ innestato il fondamentalismo e fanatismo, rappresentato da organizzazioni che hanno notevolissima disponibilità economica e alimentano una vera e propria strategia delle tensione nelle aree più fragili.
Adesso il quadro non è più cosi chiaro come lo era una trentina di anni fa. Per esempio le tensioni che sono fondamentalmente di natura sociale, storica e culturale fra Sudan e Sud Sudan e fra Somalia e Kenya stanno prendendo una forte coloritura religiosa. Cosa ancora più evidente in Nigeria., dove il malcontento politico e la discriminazione economica trovano sfogo nella sfera religiosa.
Per evitare che il dialogo difficile diventi uno scontro violento dobbiamo fermamente reagire contro i fanatici che usano la violenza e negano i diritti umani, e d’altro canto dobbiamo offrire tutte le opportunità possibili alle gente che è ancora capace di una convivenza costruttiva.
Alla fine dello scorso luglio, quando era appena iniziato il Ramadan, ho incontrato per caso a Kibera, enorme baraccopoli di Nairobi, alcuni amici musulmani che in passato mi avevano aiutato a superare alcune difficoltà. C’era con me un gruppo di ex-ragazzi di strada, alcuni di loro musulmani, i quali da tempo mi avevano chiesto di poter pregare insieme ai ragazzi cristiani. Seguendo la loro ispirazione, ho chiesto di aiutarmi a preparare un incontro di amicizia fra musulmani e cristiani, organizzando insieme la festa finale per la chiusura del Ramadan. Abbiamo fatto un comitato, che ha deciso di invitare pastori di tutte le chiese cristiane presenti nel grande slum. Alla fine eravamo quasi trecento persone, radunatesi al calar del sole, dopo il tramonto dell’ultimo giorno di digiuno. Guidati degli imam locali abbiamo pregato e condiviso un pasto. Un semplicissimo gesto che purtroppo è parso straordinario, tanto che dopo qualche giorno l’imam più rappresentativo ed io siamo stati invitati da una televisione locale gestita da una chiesa protestante a spiegarne il senso.
La disponibilità a un convivere che non sia solo un indifferente tollerarsi, ma un costruire insieme una società più aperta e più giusta, esiste. Ma non dobbiamo perdere tempo. I segni che il baratro si sta allargando sono troppi. Lo scorso anno un’associazione di studenti musulmani sudanesi del Darfur, Sudan Sun Rise, espresse la volontà, in segno di riconciliazione e di apprezzamento per quanto fatto dal vescovo di Torit mons. Akio Johnson Mutek durante i lunghi anni di guerra civile, di aiutarlo a ricostruire la cattedrale, nel Sud Sudan, gravemente danneggiata, anzi praticamente distrutta durante il conflitto. In questi giorni, in seguito alle proteste di alcuni cristiani che non vogliono accettare il contributo dei musulmani per la ricostruzione della loro chiesa, il buon vescovo ha dovuto pubblicare una dichiarazione in cui rassicura il suo gregge che “non e stato fatto nessun passo, e la cosa è ancora oggetto di ampie consultazioni”. Davvero, non c’è tempo da perdere se non vogliamo che il dialogo diventi impossibile.

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