La crescita numerica della Chiesa in Africa è una realtà di grande importanza non solo per i cambiamenti profondi che potrebbe significare per i paesi in cui la crescita si svolge, ma anche per la vita della Chiesa nel suo insieme. Però, quando si parla di una realtà spirituale come il “popolo di Dio” che è la Chiesa, il significato dei numenri deve essere messo in giusta prospettiva.
Il pericolo maggiore è quello di pensare che i numeri possano darci indicazioni chiare e quasi automatiche per capire come sarà la chiesa del futuro.
Uno studio sulla crescita del cristianesimo nel mondo –The Next Christendom. The Coming of Global Christianity, di Philip Jenkins, pubblicato nel 2002 – dimostra, utilizzando statistiche disponibili in quel momento, che l’adesione alle Chiese cristiane sta vivendo una rapida crescita in Africa e in Asia, e che la maggior parte dei nuovi credenti tendono verso un cristianesimo pentecostale, carismatico e, in ultima analisi, fondamentalista. Utilizzando proiezioni statistiche, Jenkins prevede che nel 2050 il cristianesimo a livello mondiale sarà fortemente fondamentalista, più propenso ad confrontarsi in modo conflittuale con le altre fedi, piuttosto che a dialogare. La crescita numerica, infatti, sempre secondo le proiezioni statistiche eleborate da Jenkins, sarà solo fisiologica per le grandi Chiese tradizionali – Cattolica, Luterana e Anglicana – ma sarà travolgente nella costellazione delle nuove chiese di stampo pentecostale che sono Cristo-centriche ma socialmente conservatrici e politicamente disimpegnate.
E ‘vero che l’analisi statistica dei fenomeni sociali è importante per capire dove siamo e dove probabilmente andremo nell’immediato futuro. Tuttavia, è altamente discutibile proiettare le tendenze attuali per un periodo così lungo, come Jenkins fa, in particolare per quanto riguarda cultura, società e religione. Ci sono dei cambiamenti nella società che sfidano tutte le statistiche. Per esempio, la primavera araba, con tutte le sue ambiguità, non è stata prevista da nessuno. Le trasformazioni che sta provocando non sono ancora chiare e magari diventeranno evidenti solo fra una generazione, ma chi aveva costruito un quadro di come il mondo arabo sarà nel 2050, supponendo che le tendenze del 2010 sarebbero continuate per lungo tempo, ha fatto un esercizio in futilità. Allo stesso modo, cosa sappiamo dei movimenti culturali e politici che cresceranno in Africa nel prossimo futuro? Niente. Ci sarà una nuova percezione dei diritti umani che cambiarà l’auto-comprensione del mondo africano? Oppure la crescente influenza della cultura materialistica occidentale causerà il crollo della visione del mondo tradizionale in cui Dio e la religione occupano un posto importante? E le chiese cristiane perderanno il sostegno della spiritualità tradizionale che è una forte preparazione al cristianesimo? Quali trends e correnti di pensiero prevarranno? Gli elementi in gioco sono troppi e troppo imprevedibili, nessuno può neanche con relativa certezza dirci come sarà l’Africa fra trenta o più anni. Leggere i segni dei tempi non è un esercizio facile.
I numeri non significano maturità
Se i numeri non possono essere l’unico fattore per aiutarci a vedere nel futuro, non sono neanche molto utili per misurare la forza spirituale di una comunità. Quando l’Europa fu travolta dall’orrore del nazismo e della seconda guerra mondiale, era statisticamente abitata da una maggioranza cristiana. Ma quanti cristiani furono capaci di resistere a quella follia? Alcuni lo fecero, dando testimoninaza di grande coraggio, ma dobbiamo ammettere che furono pochi. Allo stesso modo, quando il Ruanda, un paese a grande maggioranza cattolica, è stato sconvolto dalla furia genocidaria del 1994, quanti si opposero in nome della loro fede? Alcuni lo hanno fatto, dimostrando eroismo civile e santità cristiana, ma sono stati una piccola percentuale. Hanno salvato vite umane, anche sacrificando la propria e dimostrando adesione totale al Vangelo, ma non furono in numero sufficente a creare un ostacolo capace di fermare l’onda del genocidio.
Alcuni giustificano il caso del Ruanda dicendo che il cristianesimo non aveva ancora messo radici profonde. Ma allora come giustificare ciò che è accaduto in Europa, dove il cristianesimo era stato presente per almeno duemila anni? Era un segno del declino del cristianesimo europeo? Il minimo che possiamo dire è che, in entrambi i casi, i numeri non sono stati un buon indicatore della maturità e della forza di quella Chiesa particolare di resistere al male.
E’ evidente che parlare di “maturità” di una Chiesa, basandosi sulla forza dei numeri o sul tempo in cui la chiesa è stata presente su un territorio non ha molto significato. Come si valuta la maturità? Spesso, una Chiesa “giovane” genera persone che sono pronte a morire per mostrare la loro fedeltà a Cristo. Abbiamo l’esempio dei Martiri d’Uganda, e molti altri. Giustamente alcuni africani non accettano che le loro chiese siano denominate “giovani” perché può dare l’idea di immaturità e di dipendenza. Oppure lo stesso aggettivo, anche se inteso in senso positivo di vitalità e di forza, può diventare un vuoto luogo comune, che si riferisce solo a danze e ululati tollerati durante le cerimonie liturgiche come si tollerano gli schiamazzi degli adolescenti.
Di recente ho sentito un missionario paragonare i leader cristiani africani a un neo-patentato che incomincia a guidare l’automobile: si concentra più sulla gestione dei comandi – come cambiare marcia, come controllare l’auto in curva, quanta forza usare premendo sui freni – che a scegliera la strada e arrivare alla meta. Con questo paragone, il vecchio missionario voleva bonariamente giustificare la mancanza di programmazione pastorale e di visione del suo vescovo africano. Ma alcuni amici africani presenti erano piuttosto infastiditi dal paragone!
Accesi dibattiti sorgono anche quando si vuol valutare se l’importanza numerica della Chiesa africana sia adeguatamente rappresentata agli alti livello della gerarchia cattolica. Prima dell’ultimo concistoro, tenutosi il 18 febbraio 2012, un sito web africano, ha pubblicato un commento molto amaro sulla mancanza di africani fra le nuove nomine. Sicuramente, a parere di chi scriveva, non vi è carenza di africani che meritano la berretta cardinalizia. L’autore esprimeva anche il suo disappunto per il fatto che, sempre secondo lui, nell’ultimo conclave il cardinale africano Francis Arinze non sarebbe stato eletto papa, come tutti si aspettavano, solo per ragioni di pregiusdizi anti-africani… Il chiaro sottinteso era: “Ci meritiamo posizioni importanti a Roma, perché siamo in molti! Ora è il nostro turno! “. Aspettative sbagliate? Troppa fiducia nella forza dei numeri? Non sono stati nominati cardinali africani perché i posti disponibili erano pochi o perché l’episcopato africano non ha molti leaders di grande livello? Tutte queste domande sono inutili. Se pensiamo che avere un papa africano sia un diritto di riparazione alle discriminazioni subite in passato, o guardiamo con orgoglio al numero dei cardinali africani che lavorano in Vaticano e pensiamo che il loro numero dovrebbe aumentare, entriamo in una logica di potere che certamente non è quella del Vangelo e che non aiuta la chiesa a spogliarsi della metalità eurocentrica. Continuiamo a ragionare con paramentri sbagliati.
Costruire un’identità africana
In “La Terza Chiesa alle Porte, un’analisi del presente e del futuro ecclesiale”, pubblicato nel 1976, Walter Bühlmann, un cappuccino svizzero che ha insegnato a Roma negli anni effervescenti dopo il Concilio Vaticano II, metteva insieme le sue riflessioni sulla crescente importanza di quella che allora era ancora popolarmente chiamata “Chiesa missionaria.” Per la prima volta, un eminente studioso occidentale (gli africani avevano già cominciato venti anni prima) sistematizzava in un quadro teologico, le nuove tendenze e le aspirazioni che già emergevano dal “Terzo Mondo” e in particolare dall’Africa, e acutamente inventò il termine “Terza Chiesa”. “Terzo Mondo” era già in uso comune e non aveva la connotazione negativa che prese più tardi, e certamente Bühlmann usò “terza chiesa” in modo positivo. Il suo era un testo pieno di speranza, con le braccia tese verso la terza chiesa, e pronto ad accettare i cambiamenti che le comunità cristiane emergenti avrebbero potuto portare alla Chiesa universale.
Bühlmann aveva ragione: il suo approccio è ancora valido. I numeri non dovrebbe essere visti come potere, ma la Chiesa africana deve vederli come un segno della sua responsabilità a scoprire e svolgere la sua chiamata all’interno della Chiesa universale, e per rafforzare la sua determinazione a seguire il Vangelo di Gesù. Per tutta la Chiesa cattolica, il crescente numero di cristiani africani è una fonte di gioia e un incentivo a far loro spazio nell’assemblea, in uno spirito di fratellanza e nel riconoscimento delle diverse lingue e culture che possono esprimere la fede comune. La Chiesa africana ha il suo giusto posto nella Chiesa universale, non per la forza dei numeri, ma in forza della sua fedeltà a Cristo, in forza dei doni che porta nella comunione universale. Lo Spirito di Dio crea sempre cose nuove in mezzo a noi, e dobbiamo aprirci a Lui.
La Chiesa africana deve fare un bilancio dei suoi successi – soprattutto di quelli recenti, avvenuti dopo gli anni delle indipendenze, con alla guida dei Pastori africani – e andare avanti, costruendo la propria identità. L’inculturazione, la giustizia sociale, la partecipazione dei laici nella vita della Chiesa, sono solo alcune delle linee di identità che sono emerse durante i due Sinodi africani, nel 1994 e nel 2009. Sono questi i doni che la Chiesa africana può portare alla comunità cattolica in tutto il mondo.
I numeri non sono la cosa più importante. Gesù parlava di sale, di lievito, di piccolo gregge. “Non temere, piccolo gregge, perché al Padre vostro è piaciuto di darvi il suo regno”. (Lc 12,32). Nella chiesa l’unico titolo di merito dovrebbe essere la fedeltà al Vangelo.