L’Africa è il luogo per eccellenza delle grandi crisi. O almeno tale è nella mente di molti occidentali. Parlando di Africa sembra inevitabile evocare l’interpretazione popolare dei cavalieri dell’Apocalisse:
Pestilenza, Guerra, Carestia e Morte. Poi la litania di negatività continua inesorabile man mano che l’analisi si fa più specifica: sottosviluppo, corruzione, violazione dei diritti umani, malaria e AIDS, disastri ecologici, land grabbing, sfruttamento delle donne e dei bambini, traffico di esseri umani, bambini soldato, bambini stregoni, bambini di strada, e, è proprio il caso di dirlo, chi più ne ha più ne metta.
La maggioranza degli interventi proposti, anche con le migliori intenzioni, parte dal presupposto che l’Africa non può farcela da sola, ha bisogno di noi, anche semplicemente per sopravvivere anche ai livelli più bassi.
In questi giorni un video postato in internet ha attirato l’attenzione del mondo. Si propone di fermare Joseph Kony, il leader delle Lord Resistance Army, un gruppo ribelle senza causa nato un Uganda ormai oltre vent’anni fa. Intitolato Kony2012, per gli aspetti comunicativi è innovativo ed esemplare, ma invoca l’intervento militare statunitense per fermare Kony. Ancora una volta sembra che la salvezza per l’Africa possa venire solo dall’esterno.
Da decenni nel mondo missionario ci si è posti la domanda se sia etico usare immagini negative sull’Africa per raccogliere fondi (o per invocare interventi), e la maggioranza dei missionari oggi rifiuta questa strategia, anche se c’è occasionalmente qualche eccezione. Ma tante organizzazioni di aiuto, anche di rilevanza internazionale, ancora usano questi metodi.
La controprova? Quando ho aperto il computer stamattina ho visitato il sito di un quotidiano italiano. Da parecchie settimane avevo notato fra i link un’icona con il volto di un bimbo africano che chiede di essere adottato a distanza. Stamattina ho cliccato l’icona e mi è apparso questo testo, firmato da una grande agenzia umanitaria.
Nel 2011 il Corno d’Africa è stato colpito da una terribile siccità, la peggiore degli ultimi 60 anni. Siamo nel 2012, ma migliaia di bambini continuano a morire di fame e di sete ogni giorno. L’area orientale è solo una tra le più problematiche dell’Africa. L’intero continente è costantemente afflitto da guerre, carestie, malattie e povertà estrema. I bambini rimangono la parte della popolazione che soffre di più, sempre. Assieme, possiamo cambiare il loro destino.
E’ una semplificazione estrema che esacerba gli aspetti negativi dell’Africa. Eppure è solo un esempio, e non quello che usa le immagini e le parole più forti, dei tanti appelli umanitari che magari con l’intento positivo di muoverci a una maggiore solidarietà, finiscono per rafforzare l’immagina di un’Africa in via di fallimento, dove l’Apocalisse è già iniziata.
Ma in Africa – sorpresa! – c’è anche un’accelerazione delle sviluppo economico. Mentre l’occidente è in crisi, e Cina e India danno segni preoccupanti di stanchezza, le economie dei maggiori paesi africani continuano a crescere al passo del 6 o 7 per cento annuo. Tramontata l’era delle tigri asiatiche si annuncia l’era dei leoni africani.
Secondo l’FMI il Ghana nel 2012 crescerà del 13,5 per cento, il Niger del 12,5, l’Angola del 10.5. Un buon numero di altri paesi, tra di essi il Kenya, si attesteranno intorno al 7 per cento di crescita annua. Senza considerare la Sierra Leone per la quale ci si aspetta un balzo di oltre il 51 per cento! Mediamente la crescita economica del continente sarà intorno al 6 per cento. Emblematico il caso dell’Angola, che sta trattando col Portogallo, tendendo una mano per soccorrere l’ex-potenza coloniale.Il settimanale inglese Economist, un’autorità nel suo campo, lo scorso dicembre ha dedicato un intero numero alla crescita economica africana e all’ancora più alto potenziale per il prossimo futuro
Come si conciliano queste due visioni cosi contrastanti? I luoghi comuni, i pregiudizi, sono duri a morire, ma ciò non può essere sufficiente a spiegare un tale divario tra percezione e realtà.
Forse la spiegazione più semplice e più vera è che entrambe le immagini dell’Africa, quella di un contenitore di problemi immani o di potenziale leone economico, sono vere. In Africa sta avvenendo velocità accelerata ciò che avviene in tutto il mondo e che Paolo VI denunciava già quasi 40 anni fa “i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri”.
Secondo i calcoli del gruppo finanziario Credit Suisse la metà più povera della popolazione adulta globale è proprietaria solo dell’1% della ricchezza globale. Un totale di 3.051 milioni di adulti, pari al 67,6% della popolazione adulta globale, possiede appena il 3,3% della ricchezza. Al contrario, il 10% più ricco dispone dell’84% della ricchezza globale, l’1% più ricco possiede il 44% e lo 0,5% più ricco il 38,5%.
La crisi economica ha solo esaltato questa tendenza alla concentrazione di elevate proporzioni della ricchezza nelle mani di una piccola minoranza. Le imprese Capgemini e Merrill Lynch Wealth Management hanno pubblicato nel 2010 un rapporto sulla situazione dei ricchi del mondo, dove si legge che il numero totale di individui con redditi elevati nel mondo è cresciuto di un 17.1% nel 2009, malgrado vi sia stata una contrazione globale dell’economia di un 2%. La ricchezza totale di questi individui si è incrementata del 18.9%.
A Nairobi la coesistenza di due economie parallele è sempre più visibile, almeno per chi ha ancora gli occhi per vedere. Opulenza, sviluppo tecnologico, mass media sofisticati sono accessibili al 20 per cento della popolazione, mentre un altro 60 per cento vive in situazione di gravissimo degrado. Il 20 per cento che vive nell’area intermedia si assottiglia sempre più, man mano che chi vi appartiene riesce salire al livello superiore o viene riassorbito dalla povertà. La stessa situazione si ripropone a livello nazionale: la siccità che lo scorso anno ha provocato carestia e morte nel nord-est del paese è stata vissuta a Nairobi da una consistente parte delle popolazione non per quello che era – cioè un problema nazionale di ridistribuzione delle risorse e di giustizia – ma come un evento mediatico, che ha dato occasione alle grandi compagnie di sfoggiare i loro programmi di “corporate responsibility”.
Allora, cosa dobbiamo fare? Rifiutiamo di aiutare chi potrebbe essere aiutato dai suoi connazionali? Chiudiamo l’epoca degli aiuti per aprire quella degli scambi commerciali? Lasciamo che siano le multinazionali a lavorare per la giustizia con i loro programmi di responsabilità sociale? Ci arrendiamo a che il nostro livello di progresso sia stabilito dell’indice di crescita economica? Accettiamo che i nuovi equilibri mondiali vengano stabiliti da chi ha più armi ed è più prepotente? Meglio ancora, ci garantiamo di essere nel gruppo dei ricchi, lasciando perdere i poveri? Che imparino ad arrangiarsi da soli se non sono capaci di competere nella scalata sociale!
Nella tradizione sociale cristiana esistono principi che si chiamano bene comune, responsabilità, giustizia e solidarietà, tanto per citarne alcuni. Sono principi che per loro dinamica chiedono di essere applicati su scala globale.
Negli ultimi anni invece abbiamo visto che con la globalizzazione e i nuovi mezzi di comunicazione aumenta e diventa sempre più visibile l’interdipendenza, ma non sembrano aumentare ne il senso di responsabilità globale, ne la solidarietà ne la giustizia.
Il piccolo contributo, in Africa come in Europa, che noi possiamo offrire è la pratica e l’insegnamento della giustizia e della solidarietà. Senza stancarci, senza imporci, senza violenze di nessun tipo. Con perseveranza e rispetto. Adagio adagio scopriremo insieme nuove vie per imparare ad essere una sola umanità.
Africa is a place of great crises and humanitarian disasters. Or at least that is the image that exists in the minds of many Westerners. Speaking of Africa inevitably evokes the popular interpretation of the horsemen of the Apocalypse:
Pestilence, War, Famine And Death. The litany of negative stereotypes continues when the discourse becomes more specific: underdevelopment, corruption, violation of human rights, malaria and HIV/AIDS, environmental disasters, land grabbing, exploitation of women and children, human trafficking, child soldiers, sorcerers, street children…the list is endless.
Most proposed interventions – despite being well intended in terms of setting things right – start from the assumption that Africa cannot succeed on its own. Rather, it needs foreign assistance, even just to survive.
In recent days, a video posted on the internet has attracted the attention of the world. It proposes ways to stop Joseph Kony, the leader of the Lord’s Resistance Army, a rebel movement without a cause that has existed in Uganda for over twenty years. The video, titled Kony 2012, is very innovative in terms of its communication design, but not for its proposed solutions because its begs for an American military intervention to stop Kony. Once again, it seems to suggest that salvation for Africa can only come from the outside.
For decades in the missionary world, we have asked ourselves whether it is ethical to use negative images of Africa to raise money (or to invoke action) for African causes. Most missionaries today reject this strategy, although there are occasional exceptions. But many aid organizations, even those of international stature, still use these methods.
When I turned on my computer this morning, I visited the website of an Italian newspaper. For several weeks I had noticed, at the bottom of the newspaper’s webpage, an icon with the face of an African baby imploring to be supported. This morning I clicked on the icon and the following text by a well-known aid agency appeared:
“In 2011, the Horn of Africa was hit by a terrible drought, the worst in 60 years. We are in 2012, but thousands of children continue to die of hunger and thirst every day. Eastern Africa is just one of the most problematic regions in Africa. The entire continent is constantly plagued by wars, famines, disease and extreme poverty. The children are always the part of the population that suffers the most. Together, we can change their destiny.”
This is an oversimplification that highlights only the negative aspects of Africa. Yet it is only an example, and not even one that uses the strongest pictures and words, compared to the numerous humanitarian appeals, including those with the positive intent to move towards a greater sense of solidarity, depict the entire continent as a failure, a place where the apocalypse has already begun.
But in Africa – surprise! – there is also an acceleration of economic development. While the West is in crisis, and while China and India are giving signs of economic fatigue, the economies of most African countries continue to grow at rates between 6-7% per annum. The era of the Asian Tigers appears to have passed; could this mean the era of the African Lions is arriving?
According to the IMF, Ghana is projected to grow by 13.5% in 2012, Niger by 12.5% and Angola by 10.5%. A good number of other countries, among them Kenya, will stabilize at an annual growth of around 7%. Sierra Leone’s economic growth is expected to leap by more than 51 %! On the average, the continent’s economic growth will be around 6%. Quite emblematic is the case of Angola, which is negotiating with Portugal, ready to extend a helping hand to its former colonial power. The authoritative British weekly, The Economist, last December devoted an entire issue to the topic of Africa’s economic growth.
How can we reconcile these two conflicting images? Common misconceptions and prejudices die hard, but this may not be sufficient to explain such a gap between perception and reality.
Perhaps the simplest explanation is that both images of Africa – that of a terminal case and that of a potential economic Lion, are true. Things are happening at a very fast pace in Africa and around the world, and just as Pope Paul VI denounced already almost 40 years ago, “the rich get richer and the poor get poorer.”
According to the calculations of the financial group Credit Suisse, the poorest half of the global adult population owns only 1% of the world’s wealth. A total of 3.051 million adults, representing 67.6% of the global adult population, has only 3.3% of the world’s wealth. In contrast, the richest 10% have 84% of global wealth, the richest 1% owns 44% and the richest 0.5% of the world population own 38.5% of the world’s wealth.
The world economic crisis has only enhanced the concentration of a high proportion of the world’s wealth in the hands of a small minority. In 2010, the companies Capgemini and Merrill Lynch Wealth Management published a report on the situation of the rich world, where we read that the total number of individuals in the global high income bracket grew by 17.1% in 2009, and even though the global economy contracted by 2%, the total wealth of these individuals increased by 18.9%.
In Nairobi, the coexistence of two parallel economies is increasingly visible, at least for those who have the eyes to see. Affluence, technological development, sophisticated media are accessible to 20% of the population, while another 60% live in a state of serious degradation. The 20% who live in the middle are dwindling because few of them are able to jump a step higher, and the rest find themselves slowly being reabsorbed into the lower bracket. The same situation repeats itself at the national level: the drought that last year caused famine and death in the country’s North-East has been experienced in Nairobi by a significant proportion of people, not for what it was – a national problem regarding the redistribution of resources and justice – but as a media opportunity for large companies to show off their “corporate responsibility” programmes.
So what should we do? Should we deny assistance to the poor who are not assisted by their wealthy countrymen? Should we close the era of aid and open the era of the trade? Should we allow international corporations to be in charge of establishing justice with their “social responsibility” programmes? Should we surrender to the fact that human progress is only measured by the index of economic growth? Should we accept that the new global political equilibrium is controlled by those who have more weapons and are more arrogant? Better yet, should we become determined to be in the group of the rich, and keep the poor at a safe distance, letting them learn to fend for themselves if they are unable to compete in the social ladder?
In the Christian tradition there are social principles such as the common good, responsibility, justice and solidarity, just to name a few. These are principles that, by their own internal dynamics, ask to be applied on a global scale.
In recent years have we seen that with globalization and new means of communication, interdependence between nations has increased and has become more and more visible. Unfortunately it does not appear to increase neither the sense of global responsibility, nor the spirit of solidarity and justice.
The small contribution, as much in Africa as in Europe, that we can provide is the practice and teaching of justice and solidarity. Without ceasing, without imposing, and without applying violence of any kind. Together, with perseverance and respect, we can slowly discover new ways of learning to be one humanity.
Nairobi. Dawn
Siamo una sola Tribù, siamo un solo Spirito: è un tamburo che rimbomba nell’Anima