Ho aperto il mio profilo – si dice così? – su facebook per necessità, perché qualcuno ne aveva aperti due con, diciamo, parodie della mia identità, e un amico mi aveva suggerito che la strategia migliore per contrastarli era di aprirne uno genuino. Non l’ho mai usato molto, sono sempre insicuro quando tento di mettere qualche link.
Oggi, per la prima volta, facebook mi ha davvero emozionato. Nei mesi scorsi avevo ricevuto qualche simpatico messaggio da vecchi amici, come Ambrogio Piazza del Brasile o altri. Ma quello che ho ricevuto oggi ha veramente dell’incredibile, quasi proveniente da un’altra vita. Firmato Joseph, con allegata la foto che pubblico qui sotto, il messaggio è in francese e dice semplicemente “Buongiorno, questa è una foto che hai fatto durante un tuo viaggio in Ciad. Il bambino della foto sono io. Quanti ricordi!”
Ho risposto poche righe in francese maccheronico all’uomo ormai cinquantenne che nel suo profilo, con una trentina di amici, quindi aperto da poco, si dice interessato ai diritti umani e all’ecologia. Aspetto la sua risposta. Ma quanti ricordi, davvero.
Il mio primo viaggio in Africa l’ho fatto nell’estate del 1971. Ho volato con Air Afrique, ormai fallita da tempo immemorabile, con un volo Parigi – Brazzaville, che fece scalo a Fort Lamy – si chiamava cosi, col nome coloniale, la capitale del Ciad che pochi anni dopo mutò il nome in N’Djamena. Andai per un paio di settimane in Congo Brazza, poi altre due settimane in Gabon, visitando anche Lambaréné dove, nel 1913, Albert Schweitzer, premio Nobel per la Pace nel 1952, aveva fondato il suo celebre ospedale, e dove era morto pochi anni prima, nel 1965. Due settimane in Cameroun a poi di nuovo a Fort Lamy, dove restai ancora un paio di settimane prima di tornare in Italia. Era il primo viaggio come redattore di Nigrizia, per raccogliere foto, informazioni, collegamenti. Avevo 28 anni.
Il vescovo di Fort Lamy era un gesuita francese, Paul Dalmais, che pochi anni dopo sarebbe stato forzato a dimettersi perché aveva avuto l’audacia di chiedere a Roma di poter ordinare uomini sposati, per garantire l’Eucarestia alle comunità cristiane perseguitate da un regime anti-cristiano. L’evangelizzazione in Ciad era incominciata pochi decenni prima, dopo la seconda guerra mondiale, ed era ancora agli inizi, con personale sparuto su aree vastissime. I cristiani erano pochi, quelli di N’jamena erano in genere immigrati dal sud, e non c’era ancora nessun prete locale.
Quando chiesi al vescovo di poter stare qualche giorno in una missione, sperimentando la vita della gente, mi portò a Chagoua, un quartiere periferico, sulla sponde del fiume Chari. La città, ancora un grosso villaggio, con forse un centinaio di edifici in cemento, in genere uffici governativi, e le abitazioni della gente costruite con mattoni di fango essicati al sole, era perennemente riarsa e coperta dalla sabbia finissima partata dal vento del Sahara. A Chagoua, che era a pochi passi dal fiume, c’erano degli alberi e un po di verde. C’era anche padre Forobert, un altro gesuita francese, già anziano, o così mi pareva a quei tempi, che viveva di yogurt e frutta fresca ed era per tutto il giorno circondato gente che lo venerava. La missione era una casa fatta di quattro stanze spartane, con la porta che dava all’aperto, ad una estremità la cucina all’altra i servizi. La chiesa era un vecchio capannone senza pareti. Unico lusso nelle stanze era un rubinetto posto molto in alto, fungente da doccia, perché il caldo era tale che durante le notte per riuscire a dormire bisognava ogni tanto, tre o quattro volte per notte, rinfrescarsi con l’acqua, e magari ributtarsi sul letto ancora bagnati.
Ogni giorno la gente si affollava intorno alla casa. Mi ricordo le Messe e le lezioni di catechismo con traduzioni simultanee in cinque o sei lingue, perché i catecumeni erano quasi tutti immigrati dal sud, dove si parlano una miriade di lingue diverse, come succede in Sudan.
Subito alcuni dei catecumeni più giovani e intraprendendti, quasi tutti maschi, visto che era tempo di vacanze scolastiche, si incaricarono di iniziami alla vita ciadiana, e ogni mattina, quando aprivo la porta della stanza, erano già li, facendo a gara per portarmi a vedere le meraviglie del loro quartiere, a mangiare qualcosa preparato dalla loro mamma, esplorare la riva del fiume, portarmi fino al ponte al di là del quale c’è il Cameroun. Da loro ho imparato che il cibo più buono è quello che incominci a mangiare quando la mamma ti tiene in braccio. Un mattino mi offrirono bruchi vivi, grossi come un pollice, che avevano raccolto ai primi raggi del sole, sugli striminziti alberi intorno alla missione. Quando li rifiutai, perché proprio non ce le facevo a metterli in bocca ancora vivi, ci rimasero veramente male. Ma restarono sconvolti quando io, visto che dove il fiume formava delle pozze di acqua stagnante c’erano tantissime rane, suggerii che forse erano buone da mangiare, visto che al mio paese ci sono delle persone che le mangiano. Non potevano credermi, mi prendevano per pazzo. Mangiare le rane?! Ma chi ha mai sentito una cosa simile.
L’ultimo giorno promisi loro che avrei fatto delle foto e l’anno successivo avrei portato una copia per ognuno di loro. Il posto e la gente mi piacevano troppo ed avevo deciso che avrei fatto il possibile per tornarci. Li avevo sempre visti con indosso solo un paio di calzoncini stracciati, ma qual giorno arrivarono con i vestiti più belli, addirittura con le camicie. E’ cosi che fotografai Joseph e tutti gli altri.
Passarono due anni prima che potessi tornare. Le foto suscitarono grande allegria, poi padre Forobert mi affidò ad un laico che stava andando al Sud, a quasi cinquecento chilometri, su una pista di sabbia e terra battuta, con una Citroen 2 cavalli che ogni tanto si fermava nella sabbia ma aveva il vantaggio che anche solo noi due la si poteva sollevare e si ripartiva. Ci andai anche per visitare uno dei bambini che nel frattempo era entrato in seminario, a Sarh. Non mi ricordo più il nome di quel ragazzino, ma mi ricordo che il sud a me pareva molto bello, coperto di vegetazione rigogliosa, enormi alberi di mango. E il ragazzino invece rimpiangeva l’arido, sabbioso nord, perché là era cresciuto.
Continuai a scambiare qualche lettera con padre Forobert, anche dopo che andai in Zambia, fino agli inizi degli anni 80, finché inevitabilmente persi i contatti. Dopo l’uccisione del dittatoriale presidente, Francois Tombalbaye, in Ciad si scateno una guerra civile e una feroce repressione anticristiana, come aveva previsto mons. Dalmais, e molti cristiani e catechisti furono uccisi. Il Ciad, che era stato uno degli ultimi paesi africani a ricevere i missionari, attraversò lunghi anni di passione. Intanto, cosa che non avrei mai pensato durante le mie visite, nel 1977 noi comboniani andammo in Ciad e, poco tempo dopo la mia partenza per la Zambia, ci andò anche padre Celestino Celi, indimenticabile amico e collega che aveva lavorato con me nella redazione di Nigrizia, e che in Ciad mori in un incidente il 26 marzo del 1988 a soli 39 anni.
E’ difficile valutare quanto le singole persone abbiano avuto influenza nella nostra vita. Io sento molto di essere stato plasmato degli incontri che ho avuto. Non ho mai dimenticato padre Forobert e qual manipolo di monelli di Chagoua. Anch’essi hanno plasmato il mio modo di vedere il mondo, di avvicinarmi agli altri, di cercare di capirli e accettarli cosi come sono. Mi hanno insegnato a fare domande rispettose, a lasciare tempo che la conoscenza reciproca e l’amicizia maturino, che non si può sempre volere tutto e subito, che ciò che si ha e ciò che si è sono sempre sufficienti per essere felici, perchè la felicità non sta fuori, ma dentro.
Il sorriso con cui quei ragazzini aprivano la mia giornata, il loro accompagnami durante le preghiere e la Messa e poi nelle strade di Chagoua mi hanno insegnato un metodo missionario.
Davvero, quanti ricordi suscita quella foto dai colori ormai sbiaditi, che però non hanno spento la semplice felicità che si vede negli occhi di Joseph. Pensare che abbia abbia tenuto quella foto per quarant’anni, attraverso persecuzioni, guerra, carestie e la lotta per la sopravvivenza quotidiana, mi ha commosso e dato luce alla mia giornata.
E’ difficile, difficilissmo, immaginare il paradiso. Forse si può intuire qualcosa solo pensando che sarà la presenza, la comunione, la koinonia con le persone che ci hanno voluto bene, senza limiti di spazio e di tempo.
Oggi, per la prima volta, facebook mi ha davvero emozionato. Nei mesi scorsi avevo ricevuto qualche simpatico messaggio da vecchi amici, come Ambrogio Piazza del Brasile o altri. Ma quello che ho ricevuto oggi ha veramente dell’incredibile, quasi proveniente da un’altra vita. Firmato Joseph, con allegata la foto che pubblico qui sotto, il messaggio è in francese e dice semplicemente “Buongiorno, questa è una foto che hai fatto durante un tuo viaggio in Ciad. Il bambino della foto sono io. Quanti ricordi!”
Ho risposto poche righe in francese maccheronico all’uomo ormai cinquantenne che nel suo profilo, con una trentina di amici, quindi aperto da poco, si dice interessato ai diritti umani e all’ecologia. Aspetto la sua risposta. Ma quanti ricordi, davvero.
Il mio primo viaggio in Africa l’ho fatto nell’estate del 1971. Ho volato con Air Afrique, ormai fallita da tempo immemorabile, con un volo Parigi – Brazzaville, che fece scalo a Fort Lamy – si chiamava cosi, col nome coloniale, la capitale del Ciad che pochi anni dopo mutò il nome in N’Djamena. Andai per un paio di settimane in Congo Brazza, poi altre due settimane in Gabon, visitando anche Lambaréné dove, nel 1913, Albert Schweitzer, premio Nobel per la Pace nel 1952, aveva fondato il suo celebre ospedale, e dove era morto pochi anni prima, nel 1965. Due settimane in Cameroun a poi di nuovo a Fort Lamy, dove restai ancora un paio di settimane prima di tornare in Italia. Era il primo viaggio come redattore di Nigrizia, per raccogliere foto, informazioni, collegamenti. Avevo 28 anni.
Il vescovo di Fort Lamy era un gesuita francese, Paul Dalmais, che pochi anni dopo sarebbe stato forzato a dimettersi perché aveva avuto l’audacia di chiedere a Roma di poter ordinare uomini sposati, per garantire l’Eucarestia alle comunità cristiane perseguitate da un regime anti-cristiano. L’evangelizzazione in Ciad era incominciata pochi decenni prima, dopo la seconda guerra mondiale, ed era ancora agli inizi, con personale sparuto su aree vastissime. I cristiani erano pochi, quelli di N’jamena erano in genere immigrati dal sud, e non c’era ancora nessun prete locale.
Quando chiesi al vescovo di poter stare qualche giorno in una missione, sperimentando la vita della gente, mi portò a Chagoua, un quartiere periferico, sulla sponde del fiume Chari. La città, ancora un grosso villaggio, con forse un centinaio di edifici in cemento, in genere uffici governativi, e le abitazioni della gente costruite con mattoni di fango essicati al sole, era perennemente riarsa e coperta dalla sabbia finissima partata dal vento del Sahara. A Chagoua, che era a pochi passi dal fiume, c’erano degli alberi e un po di verde. C’era anche padre Forobert, un altro gesuita francese, già anziano, o così mi pareva a quei tempi, che viveva di yogurt e frutta fresca ed era per tutto il giorno circondato gente che lo venerava. La missione era una casa fatta di quattro stanze spartane, con la porta che dava all’aperto, ad una estremità la cucina all’altra i servizi. La chiesa era un vecchio capannone senza pareti. Unico lusso nelle stanze era un rubinetto posto molto in alto, fungente da doccia, perché il caldo era tale che durante le notte per riuscire a dormire bisognava ogni tanto, tre o quattro volte per notte, rinfrescarsi con l’acqua, e magari ributtarsi sul letto ancora bagnati.
Ogni giorno la gente si affollava intorno alla casa. Mi ricordo le Messe e le lezioni di catechismo con traduzioni simultanee in cinque o sei lingue, perché i catecumeni erano quasi tutti immigrati dal sud, dove si parlano una miriade di lingue diverse, come succede in Sudan.
Subito alcuni dei catecumeni più giovani e intraprendendti, quasi tutti maschi, visto che era tempo di vacanze scolastiche, si incaricarono di iniziami alla vita ciadiana, e ogni mattina, quando aprivo la porta della stanza, erano già li, facendo a gara per portarmi a vedere le meraviglie del loro quartiere, a mangiare qualcosa preparato dalla loro mamma, esplorare la riva del fiume, portarmi fino al ponte al di là del quale c’è il Cameroun. Da loro ho imparato che il cibo più buono è quello che incominci a mangiare quando la mamma ti tiene in braccio. Un mattino mi offrirono bruchi vivi, grossi come un pollice, che avevano raccolto ai primi raggi del sole, sugli striminziti alberi intorno alla missione. Quando li rifiutai, perché proprio non ce le facevo a metterli in bocca ancora vivi, ci rimasero veramente male. Ma restarono sconvolti quando io, visto che dove il fiume formava delle pozze di acqua stagnante c’erano tantissime rane, suggerii che forse erano buone da mangiare, visto che al mio paese ci sono delle persone che le mangiano. Non potevano credermi, mi prendevano per pazzo. Mangiare le rane?! Ma chi ha mai sentito una cosa simile.
L’ultimo giorno promisi loro che avrei fatto delle foto e l’anno successivo avrei portato una copia per ognuno di loro. Il posto e la gente mi piacevano troppo ed avevo deciso che avrei fatto il possibile per tornarci. Li avevo sempre visti con indosso solo un paio di calzoncini stracciati, ma qual giorno arrivarono con i vestiti più belli, addirittura con le camicie. E’ cosi che fotografai Joseph e tutti gli altri.
Passarono due anni prima che potessi tornare. Le foto suscitarono grande allegria, poi padre Forobert mi affidò ad un laico che stava andando al Sud, a quasi cinquecento chilometri, su una pista di sabbia e terra battuta, con una Citroen 2 cavalli che ogni tanto si fermava nella sabbia ma aveva il vantaggio che anche solo noi due la si poteva sollevare e si ripartiva. Ci andai anche per visitare uno dei bambini che nel frattempo era entrato in seminario, a Sarh. Non mi ricordo più il nome di quel ragazzino, ma mi ricordo che il sud a me pareva molto bello, coperto di vegetazione rigogliosa, enormi alberi di mango. E il ragazzino invece rimpiangeva l’arido, sabbioso nord, perché là era cresciuto.
Continuai a scambiare qualche lettera con padre Forobert, anche dopo che andai in Zambia, fino agli inizi degli anni 80, finché inevitabilmente persi i contatti. Dopo l’uccisione del dittatoriale presidente, Francois Tombalbaye, in Ciad si scateno una guerra civile e una feroce repressione anticristiana, come aveva previsto mons. Dalmais, e molti cristiani e catechisti furono uccisi. Il Ciad, che era stato uno degli ultimi paesi africani a ricevere i missionari, attraversò lunghi anni di passione. Intanto, cosa che non avrei mai pensato durante le mie visite, nel 1977 noi comboniani andammo in Ciad e, poco tempo dopo la mia partenza per la Zambia, ci andò anche padre Celestino Celi, indimenticabile amico e collega che aveva lavorato con me nella redazione di Nigrizia, e che in Ciad mori in un incidente il 26 marzo del 1988 a soli 39 anni.
E’ difficile valutare quanto le singole persone abbiano avuto influenza nella nostra vita. Io sento molto di essere stato plasmato degli incontri che ho avuto. Non ho mai dimenticato padre Forobert e qual manipolo di monelli di Chagoua. Anch’essi hanno plasmato il mio modo di vedere il mondo, di avvicinarmi agli altri, di cercare di capirli e accettarli cosi come sono. Mi hanno insegnato a fare domande rispettose, a lasciare tempo che la conoscenza reciproca e l’amicizia maturino, che non si può sempre volere tutto e subito, che ciò che si ha e ciò che si è sono sempre sufficienti per essere felici, perchè la felicità non sta fuori, ma dentro.
Il sorriso con cui quei ragazzini aprivano la mia giornata, il loro accompagnami durante le preghiere e la Messa e poi nelle strade di Chagoua mi hanno insegnato un metodo missionario.
Davvero, quanti ricordi suscita quella foto dai colori ormai sbiaditi, che però non hanno spento la semplice felicità che si vede negli occhi di Joseph. Pensare che abbia abbia tenuto quella foto per quarant’anni, attraverso persecuzioni, guerra, carestie e la lotta per la sopravvivenza quotidiana, mi ha commosso e dato luce alla mia giornata.
E’ difficile, difficilissmo, immaginare il paradiso. Forse si può intuire qualcosa solo pensando che sarà la presenza, la comunione, la koinonia con le persone che ci hanno voluto bene, senza limiti di spazio e di tempo.