Una vita in Africa – A life in Africa Rotating Header Image

February, 2012:

Un messaggio inaspettato – An Unexpected Message

Ho aperto il mio profilo – si dice così? – su facebook per necessità, perché qualcuno ne aveva aperti due con, diciamo, parodie della mia identità, e un amico mi aveva suggerito che la strategia migliore per contrastarli era di aprirne uno genuino. Non l’ho mai usato molto, sono sempre insicuro quando tento di mettere qualche link.
Oggi, per la prima volta, facebook mi ha davvero emozionato. Nei mesi scorsi avevo ricevuto qualche simpatico messaggio da vecchi amici, come Ambrogio Piazza del Brasile o altri. Ma quello che ho ricevuto oggi ha veramente dell’incredibile, quasi proveniente da un’altra vita. Firmato Joseph, con allegata la foto che pubblico qui sotto, il messaggio è in francese e dice semplicemente “Buongiorno, questa è una foto che hai fatto durante un tuo viaggio in Ciad. Il bambino della foto sono io. Quanti ricordi!”
Ho risposto poche righe in francese maccheronico all’uomo ormai cinquantenne che nel suo profilo, con una trentina di amici, quindi aperto da poco, si dice interessato ai diritti umani e all’ecologia. Aspetto la sua risposta. Ma quanti ricordi, davvero.
Il mio primo viaggio in Africa l’ho fatto nell’estate del 1971. Ho volato con Air Afrique, ormai fallita da tempo immemorabile, con un volo Parigi – Brazzaville, che fece scalo a Fort Lamy – si chiamava cosi, col nome coloniale, la capitale del Ciad che pochi anni dopo mutò il nome in N’Djamena. Andai per un paio di settimane in Congo Brazza, poi altre due settimane in Gabon, visitando anche Lambaréné dove, nel 1913, Albert Schweitzer, premio Nobel per la Pace nel 1952, aveva fondato il suo celebre ospedale, e dove era morto pochi anni prima, nel 1965. Due settimane in Cameroun a poi di nuovo a Fort Lamy, dove restai ancora un paio di settimane prima di tornare in Italia. Era il primo viaggio come redattore di Nigrizia, per raccogliere foto, informazioni, collegamenti. Avevo 28 anni.
Il vescovo di Fort Lamy era un gesuita francese, Paul Dalmais, che pochi anni dopo sarebbe stato forzato a dimettersi perché aveva avuto l’audacia di chiedere a Roma di poter ordinare uomini sposati, per garantire l’Eucarestia alle comunità cristiane perseguitate da un regime anti-cristiano. L’evangelizzazione in Ciad era incominciata pochi decenni prima, dopo la seconda guerra mondiale, ed era ancora agli inizi, con personale sparuto su aree vastissime. I cristiani erano pochi, quelli di N’jamena erano in genere immigrati dal sud, e non c’era ancora nessun prete locale.
Quando chiesi al vescovo di poter stare qualche giorno in una missione, sperimentando la vita della gente, mi portò a Chagoua, un quartiere periferico, sulla sponde del fiume Chari. La città, ancora un grosso villaggio, con forse un centinaio di edifici in cemento, in genere uffici governativi, e le abitazioni della gente costruite con mattoni di fango essicati al sole, era perennemente riarsa e coperta dalla sabbia finissima partata dal vento del Sahara. A Chagoua, che era a pochi passi dal fiume, c’erano degli alberi e un po di verde. C’era anche padre Forobert, un altro gesuita francese, già anziano, o così mi pareva a quei tempi, che viveva di yogurt e frutta fresca ed era per tutto il giorno circondato gente che lo venerava. La missione era una casa fatta di quattro stanze spartane, con la porta che dava all’aperto, ad una estremità la cucina all’altra i servizi. La chiesa era un vecchio capannone senza pareti. Unico lusso nelle stanze era un rubinetto posto molto in alto, fungente da doccia, perché il caldo era tale che durante le notte per riuscire a dormire bisognava ogni tanto, tre o quattro volte per notte, rinfrescarsi con l’acqua, e magari ributtarsi sul letto ancora bagnati.
Ogni giorno la gente si affollava intorno alla casa. Mi ricordo le Messe e le lezioni di catechismo con traduzioni simultanee in cinque o sei lingue, perché i catecumeni erano quasi tutti immigrati dal sud, dove si parlano una miriade di lingue diverse, come succede in Sudan.
Subito alcuni dei catecumeni più giovani e intraprendendti, quasi tutti maschi, visto che era tempo di vacanze scolastiche, si incaricarono di iniziami alla vita ciadiana, e ogni mattina, quando aprivo la porta della stanza, erano già li, facendo a gara per portarmi a vedere le meraviglie del loro quartiere, a mangiare qualcosa preparato dalla loro mamma, esplorare la riva del fiume, portarmi fino al ponte al di là del quale c’è il Cameroun. Da loro ho imparato che il cibo più buono è quello che incominci a mangiare quando la mamma ti tiene in braccio. Un mattino mi offrirono bruchi vivi, grossi come un pollice, che avevano raccolto ai primi raggi del sole, sugli striminziti alberi intorno alla missione. Quando li rifiutai, perché proprio non ce le facevo a metterli in bocca ancora vivi, ci rimasero veramente male. Ma restarono sconvolti quando io, visto che dove il fiume formava delle pozze di acqua stagnante c’erano tantissime rane, suggerii che forse erano buone da mangiare, visto che al mio paese ci sono delle persone che le mangiano. Non potevano credermi, mi prendevano per pazzo. Mangiare le rane?! Ma chi ha mai sentito una cosa simile.
L’ultimo giorno promisi loro che avrei fatto delle foto e l’anno successivo avrei portato una copia per ognuno di loro. Il posto e la gente mi piacevano troppo ed avevo deciso che avrei fatto il possibile per tornarci. Li avevo sempre visti con indosso solo un paio di calzoncini stracciati, ma qual giorno arrivarono con i vestiti più belli, addirittura con le camicie. E’ cosi che fotografai Joseph e tutti gli altri.
Passarono due anni prima che potessi tornare. Le foto suscitarono grande allegria, poi padre Forobert mi affidò ad un laico che stava andando al Sud, a quasi cinquecento chilometri, su una pista di sabbia e terra battuta, con una Citroen 2 cavalli che ogni tanto si fermava nella sabbia ma aveva il vantaggio che anche solo noi due la si poteva sollevare e si ripartiva. Ci andai anche per visitare uno dei bambini che nel frattempo era entrato in seminario, a Sarh. Non mi ricordo più il nome di quel ragazzino, ma mi ricordo che il sud a me pareva molto bello, coperto di vegetazione rigogliosa, enormi alberi di mango. E il ragazzino invece rimpiangeva l’arido, sabbioso nord, perché là era cresciuto.
Continuai a scambiare qualche lettera con padre Forobert, anche dopo che andai in Zambia, fino agli inizi degli anni 80, finché inevitabilmente persi i contatti. Dopo l’uccisione del dittatoriale presidente, Francois Tombalbaye, in Ciad si scateno una guerra civile e una feroce repressione anticristiana, come aveva previsto mons. Dalmais, e molti cristiani e catechisti furono uccisi. Il Ciad, che era stato uno degli ultimi paesi africani a ricevere i missionari, attraversò lunghi anni di passione. Intanto, cosa che non avrei mai pensato durante le mie visite, nel 1977 noi comboniani andammo in Ciad e, poco tempo dopo la mia partenza per la Zambia, ci andò anche padre Celestino Celi, indimenticabile amico e collega che aveva lavorato con me nella redazione di Nigrizia, e che in Ciad mori in un incidente il 26 marzo del 1988 a soli 39 anni.
E’ difficile valutare quanto le singole persone abbiano avuto influenza nella nostra vita. Io sento molto di essere stato plasmato degli incontri che ho avuto. Non ho mai dimenticato padre Forobert e qual manipolo di monelli di Chagoua. Anch’essi hanno plasmato il mio modo di vedere il mondo, di avvicinarmi agli altri, di cercare di capirli e accettarli cosi come sono. Mi hanno insegnato a fare domande rispettose, a lasciare tempo che la conoscenza reciproca e l’amicizia maturino, che non si può sempre volere tutto e subito, che ciò che si ha e ciò che si è sono sempre sufficienti per essere felici, perchè la felicità non sta fuori, ma dentro.
Il sorriso con cui quei ragazzini aprivano la mia giornata, il loro accompagnami durante le preghiere e la Messa e poi nelle strade di Chagoua mi hanno insegnato un metodo missionario.
Davvero, quanti ricordi suscita quella foto dai colori ormai sbiaditi, che però non hanno spento la semplice felicità che si vede negli occhi di Joseph. Pensare che abbia abbia tenuto quella foto per quarant’anni, attraverso persecuzioni, guerra, carestie e la lotta per la sopravvivenza quotidiana, mi ha commosso e dato luce alla mia giornata.
E’ difficile, difficilissmo, immaginare il paradiso. Forse si può intuire qualcosa solo pensando che sarà la presenza, la comunione, la koinonia con le persone che ci hanno voluto bene, senza limiti di spazio e di tempo.

Contro il Traffico di Persone Umane – Against Human Trafficking

Una serie di iniziative nate da Koinonia o con il supporto di Koinonia, sono poco conosciute dai nostri amici. Koinonia Advisory Research e Development Services (KARDS) è quella più nota ma ce sono altre come Consolation Est Africa (nata da KARDS con una particolare attenzione al traffico di esseri umani), Rafiki Mwafrika, REG, NAREC, SYDI, e altre ancora. Questi gruppi sono operativi, con poco o nessun sostegno dall’estero, e sono in rete con una miriade di altre organizzazioni simili a Nairobi, in Kenya e oltre.

Una piccolo successo è quello della commedia ‘A Blue Heart: la storia di Joy’ che mira a creare consapevolezza sul traffico di esseri umani e che sarà in scena al Teatro Nazionale del Kenya il 24 marzo 2012.

Da quello che so, il successo è dovuto alla caparbia determinazione del nostro membro di Koinonia Richard Muko e alcuni dei suoi amici, in particolare a Bernard Muhia del Fern Poetry, ma molti altri ci hanno lavorato. Li potete conoscere se seguite questa affascinante “storia in internet”.

Si può iniziare dalla fine, visitando il sito di UN-GIFT a
http://www.ungift.org/knowledgehub/stories/february2012/blue-heart-campaign-inspiring-artists-in-kenya.html

L’idea di usare le arti sceniche e visive per comunicare un messaggio contro la tratta di esseri umani é nata in KARDS nel 2009. Dopo aver fatto una ricerca molto seria sul tema, la prima del suo genere in Kenya, KARDS ha preso contatto con altri gruppi. A Mombasa hanno trovato Arise and Shine, un gruppo di auto-aiuto di giovani. A Nairobi ne hanno identificati molti altri, tra i quali un gruppo di artisti visivi. Vedi:
http://consolationafrica.wordpress.com/category/counter-trafficking-art/

Un altro gruppo, noto come HAART, iniziato dalle suore Medical Missionaries of Mary aveva già prodotto un CD educativo sul tema della tratta degli esseri umani.

Fern Poetry ha incominciato a visitare scuole per coscientizzare gli studenti. In questo sito c’è un video fatto durante una presentazione alla St. Hannah Secondary school.

Gli studenti dopo aver ascoltato le poesie hanno anche scritto le proprie, che sono pubblicate qui
http://consolationafrica.wordpress.com/category/counter-human-trafficking-poems/

L’idea dello spettacolo che andrà in scena la prossima settimana è iniziata con un simposio organizzato da KARDS, che lo scorso anno ha riunito varie iniziative di lavoro contro la tratta di esseri umani nella Shalom House, mettendo insieme esperienze di ricerca, di intervento sociale, di comunicazione. Durante il simposio Bernard Muhia parlato sul ruolo delle arti dello spettacolo per la lotta contro il traffico di esseri umani.
http://consolationafrica.wordpress.com/2012/01/02/the-role-of-performing-arts-in-countering-human-trafficking/

Alcuni dei gruppi voluto dare continuità al simposio, e di conseguenza si sono riuniti formando una iniziativa chiamata Blue Hearts. La storia è qui
http://consolationafrica.wordpress.com/2012/01/08/kenya-blue-hearts-grassroots-initiative-kbhgi/

Gli artisti del gruppo hanno poi deciso di creare un pezzo teatrale di conscientizzazione sul tema, usando i loro specifici talenti nel campo della danza, poesia, canto, teatro:
http://consolationafrica.wordpress.com/2012/01/11/play-a-blue-heart-joys-story/

Più tardi hanno cominciato a visitare le scuole
http://consolationafrica.wordpress.com/2012/01/20/1911/

Infine, il loro pezzo teatrale sta per essere portato al Teatro Nazionale del Kenya, ai Teatri Braeburn, Safaricom a nella hall dell’Alliance Francaise

KARDS e Consolation Est Africa, in collaborazione con gli altri, nei prossimi mesi hanno un programma di simposi per informare e formare contro la tratta di esseri umani. In marzo in Tanzania, in giugno a Mombasa e in novembre a Nairobi.

Il lavoro continua. Grazie a Richard, a Bernard e a tutti gli amici che vi si sono gettati con tutte le forze.

In Cammino in Terra Santa – Journeying in the Holy Land

E’ ormai una settimana che sono a Betlemme. Ho il grande privilegio di non assere assillato dal tempo. Gli amici Salesiani mi hanno aperto la loro casa e comunità senza condizioni, e penso di restare qui fin oltre la metà di marzo. Ben poche persone hanno una simile opportunità nella vita.

Come ho sempre fatto quando la disponibilità di tempo me lo permetteva, arrivando in un paese o in una posto per me nuovo, non mi sono messo a correre cercando di vedere tutto. Passeggio, mi siedo su una panchina, guardo la gente passare, ascolto i suoni, respiro e assaporo l’aria, lascio che l’atmosfera o lo spirito del luogo mi conquisti. In questi giorni sono stato una sola volta nella grotta nella Natività, che è a due passi dalla casa dei Salesiani, ma ho trascorso molte ore nella piazza antistante la basilica.

Oggi sono andato con l’autobus di linea a Gerusalemme – ci vuol meno di mezz’ora, come da Riruta al centro di Nairobi – ho girato i viottoli delle Gerusalemme vecchia, ho fatto pranzo con una straordinaria spremuta di melograno fatta al momento, poi sono entrato nella chiesa del Santo Sepolcro. Non mi sono messo in fila, anche perché mi davano fastidio i monaci scostanti e maleducati. Mi sono seduto sulla panca a pochi metri di distanza dell’ingresso della tomba, e per due ore sono stato ore a guardare la gente che da tutto il mondo viene in pellegrinaggio alla tomba vuota.

Il privilegio di chi non ha fretta. Di chi si sente arrivato anche se mancano pochi metri, perché può tornarci, perché dopotutto l’importante non è essere in in luogo preciso, toccare una pietra, come in un rito magico, ma lasciarsi avvolgere dal mistero di cui il luogo è memoria. Molti, più che pellegrini, sembravano turisti, entrando alla tomba vuota dopo dieci o venti minuti di fila, tutti spesi ansiosamente controllando che la batteria e il flash del telefonino o videocamera fossero carichi, per non perdere l’istante propizio per una foto nei pochi secondi di accesso. Troppi sembravano intenti a riportarsi un ricordo a casa, più che a essere presenti, a vivere quel momento e magari lasciarsi vincere dalla Vita. Difficile pensare che qualcuno stesse vivendo un’ esperienza spirituale profonda. Ma non si può mai sapere, Dio ha le Sue strade.

La tomba vuota. Da quando le discepole prima, Giovanni e Pietro poi, ci sono entrati e ne sono usciti impauriti, sconvolti, con un primo barlume di comprensione e di fede, questa tomba vuota è un segno che sfida sia il nostro scetticismo come la nostra speranza. Dà senso a tutta la vita di Gesù, dalla nascita nella grotta di Betlemme alla crocifissione. Perché quel vuoto richiama la pienezza di vita che Gesù ha vissuto e ci ha donato. Lo rivedi sul monte che spiega dove trovare la felicità, risenti la sua voce esigente che parla di giustizia e di fraternità, ascolti come nuove le sue parole che ti liberano dall’ansia di potere e di ricchezza, immagini di vedere in un suo sorriso le sua tenerezza verso tutti. Quel segno strano, la tomba vuota, dà senso alla mia vita. Uno sprone per rimettersi in cammino per cercarlo, perché Lui non è qui, in questa tomba vuota, ma non sta più nemmeno solo nei templi e nelle chiese, perché il giorno è venuto in cui i veri adoratori adorano il Padre in Spirito e verità e i sacrifici graditi al Signore si possono offrire come fece il il Samaritano, versando olio e vino sulle ferite di chi giace ai margini della strada.

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