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Perché?

Perché la storia dell’Africa postcoloniale è stata dominata da tiranni megalomani come Idi Amin, Mobutu Sese Seko, Bokassa, Menghistu, Siad Barre, Daniel Arap Moi, Dos Santos, Adjio, Omar Bongo, Mubarak, Al Bashir, Afewerki, tanto per fare un elenco dei primi che vengono in mente, vivi e morti? O anche, perché gli africani sono così vulnerabili dal fascino di leader che poi si tramutano in tiranni?

È difficile rispondere. Occorre non solo una buona conoscenza della storia africana, ma anche tanto tempo, o tanta carta, per sviluppare l’argomento e dare una risposta che non sia superficiale.

In queste ultimi mesi si è aggiunta una domanda ancor più complessa, che nelle ultime settimane ho sentito fare decine di volte in incontri, conferenze e seminari: perché l’onda della “primavera araba” non tocca l’Africa nera?

Guardo alla grande mappa dell’Africa appesa nella mia stanza e, muovendo per grandi semplificazioni, penso a quali possano essere le similitudini e le differenze fra i paesi dell’Africa araba e quelli dell’Africa nera.

Le somiglianze sono molte e importanti. Innanzitutto sono paesi dove una minoranza ricca governa una maggioranza povera, con un divario in continua crescita. Dove per chi nasce nella povertà è quasi impossibile uscirne: non esiste o quasi mobilità sociale. Sono tutti paesi giovani, dove mediamente il 50% della popolazione ha meno di 18 anni, e dove da decenni la disoccupazione giovanile è un problema nazionale che spinge all’emigrazione i giovani più istruiti e desiderosi di cambiamento. Sono tutti paesi dove le recente crisi economica globale e la crescita inarrestabile del costo del cibo sta avendo conseguenze dirette e immediate sulla vita quotidiana delle fasce più povere della popolazione.

Però appena si incomincia a pensare alle differenze, ci si accorge che le somiglianze sono tutte di tipo economico-sociale, mentre sono macroscopiche le diversità storico-culturali. I paesi del Nord Africa sono eredi della cultura araba, e sono unità socio-politiche da diverse generazioni, anche se magari sono indipendenti solo da mezzo secolo. I paesi dell’Africa nera invece sono sì indipendenti da mezzo secolo, ma hanno alle spalle secoli di frammentazione, schiavitù e colonizzazione di una brutalità straordinaria. Le indipendenze hanno coagulato altre frammentazioni – l’Africa è il continente con il più alto numero di stati – rendendo problematico il sorgere di un senso diffuso di unità nazionale.

Bastano queste differenze a spiegare perché in Africa non ci sono ancora state “primavere”?
Molti dittatori, come Museveni e Mugabe, si sono affrettati a dire che da loro non potranno succedere le stesse cose che in Egitto. In un certo senso saranno salvati dal tribalismo, come essi stessi hanno brutalmente chiamato la frammentazione. Diventati esperti nel gioco del divide et impera, non si troveranno mai di fronte a qualcosa di simile alla folla compatta di Tahir Square. Contro i dittatori non si muoverà neppure la classe media, per quanto stia diventano sempre più numerosa, perché i suoi membri o si compiacciono di essere stati cooptati dall’élite dominante o comunque si sentono troppo fragili di fronte allo strapotere economico delle poche famiglie in cui esso si concentra.

Che cosa potrebbe allora far sbocciare queste “primavere nere”? John Githongo, in un articolo pubblicato dal quotidiano americano International Herald Tribune, dà la più seria e sintetica delle risposte che mi sia capitato di leggere. Githongo è stato nel primo governo Kibaki in Kenya “sottosegretario per la governance e l’etica”, un posto che era stato creato per lui e che poi è stato cancellato quando egli non ha esitato a prendere sul serio il suo lavoro e si apprestava a denunciare per corruzione acuni suoi colleghi di governo. Dovette fuggire all’estero per salvarsi.

Secondo Githongo oggi in Kenya, ma in genere in tutta l’Africa nera, c’è un crescente numero di giovani che sono quotidianamente provocati dai simboli della crescente diseguaglianza economica e dalla mancanza di partecipazione alla vita sociale. Il risentimento, per esempio, contro il figlio del presidente che si compra una Ferrari scatena una rivendicazione più forte della rabbia causata dal vedere in televisione i simboli della ricchezza dell’Occidente. La globalizzazione ha cambiato le aspirazioni dei poveri e le loro aspettative, paradossalmente, sono diventate più locali. Githongo sostiene che la rivoluzione araba ci ha fatto capire come ormai il problema non sia più la povertà globale, ma la diseguaglianza e la sua percezione all’interno di un paese. Di conseguenza oggi il compito più urgente è mitigare le diseguaglianze all’interno di uno stesso paese, e non quello di “make poverty history” (mettere fuorilegge la povertà), come diceva la campagna di solo pochi anni fa.

La povertà, afferma Githongo, è diminuita a livello globale, ma sono aumentate le diseguaglianze locali. Lo sviluppo economico – molti paesi africani crescono oggi al ritmo del 5% annuo – insieme alla presa di coscienza dei propri diritti, ha reso i giovani consapevoli del ritardo rispetto al villaggio globale.
Scrive Githongo, facendo un paragone preso dall’informatica, che “la Primavera araba è avvenuta nel momento in cui lo sviluppo economico ha distanziato lo sviluppo politico. Sistemi politici ossificati non riescono più a soddisfare la richiesta di nuova libertà che viene dalla gente. L’esplosione democratica del mondo arabo è quindi il risultato del suo successo economico, non del suo fallimento. Un paese può vivere una crescita economica e dotarsi di tutto il corretto hardware di governo (educazione, salute, infrastrutture) ma nel contempo dotarsi del software sbagliato (diritti fondamentali, leadership, controllo delle ineguaglianze, risposte alla domande dei giovani). Alla fine il sistema brucia”.

Githongo non lo scrive, ma la conclusione ultima che possiamo trarre dalla sua argomentazione è che il crescente divario fra un sistema ossificato e un’élite di predatori da un lato, e dall’altro la richiesta di diritti fondamentali e la consapevolezza delle diseguaglianze economiche, finirà inevitabilmente per far fiorire la primavera anche nell’Africa nera.

Resta una domanda: quando?

2 Comments

  1. Toni Portioli says:

    speriamo tutti che fiorisca al piú presto anche la “primavera africana”, purché non sia portatrice di altre rivoluzioni, distruzioni, morti.
    L’Africa ha bisogno di pace (costi quel che costi) se vuol costruire un futuro migliore per la sua gente. ciao, Toni

  2. Mikele Mau Mau says:

    Le Telecomunicazioni sono uno strumendo ideale che San Daniele Comboni non si lascerebbe scappare per far nascere il sentimento di unità Africana. Per questo volevo portare avanti un progetto di collaborazione tra le scuole usando internet, ma i costi della banda sono eccessibi, perchè ancora Satellitare. I recenti investimenti in fibra ottica su connettività terrestre fanno ben sperare. E’ un’occasione…. se io fossi un comboniano, mi chiamerei al telefono e mi troverei in Seminario dove farmi studiare e poi farmi inviare subito in Africa come Prete/Telecomunicatore Missionario…. senza perderci troppo tempo!
    Capito?!

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