Un’altro lutto, questa volta a Lusaka. Stephen Maningwe, 16 anni, un ragazzo buono e semplice è stato vittima di un incidente stradale. Nel 2007 un maestro della scuola di Tubalange, vicino a Mthunzi, dove vanno tutti i nostri studenti fino alla classe nona, ci aveva parlato del suo caso. Di famiglia poverissima, viveva molto lontano dalla scuola, e ogni giorno doveva fare due ore e mezza di cammino per arrivare a scuola, e la sera altrettante per tornare a casa. Lo abbiamo preso a Mthunzi e non ce ne siamo mai pentiti. Un po timido, non emergeva in nessuna attività, ma partecipava a tutte con entusiasmo e allegria. Sempre la spalla su cui contare. Letteralmente, perché con la sua solida corporatura era la base ideale nelle piramidi acrobatiche. .
Lunedì scorso era a Mthunzi, perché aveva appena completato la classe ottava – in Zambia l’anno scolastico è alla fine – e alcuni degli altri ragazzi invece erano a scuola per gli esami finali. Ha aggiustato un piccolo guasto meccanico della bicicletta del suo amico Richard, studente alla scuola alberghiera, e ha dato una mano ad Edina, la “mamma”, a cucinare il pranzo per tutti. Poi ha detto che approfittando della bicicletta di Richard avrebbe portato a casa i suoi vestiti e scarpe, in anticipazione del Natale a casa, cosi che poi agli inizi delle vacanza, andando a casa a piedi, non avrebbe avuto niente da portare.
Invece sul breve tratto di strada asfaltata è stato urtato da un camion, che è fuggito lasciandolo ai margini della strada. E’ una strada poco frequentata, e chi ha visto l’incidente era lontano e non ha visto la targa del camion. Lo hanno portato all’ospedale ma quando sono arrivati Malama, il responsabile di Mthunzi, e gli altri, Stephen era già morto.
Stamattina lo hanno seppellito a Chingwere, il grande cimitero alle porte di Lusaka. Ci sono troppi ragazzi di Koinonia in Cielo.
November, 2011:
Stephen Maningwe
NUBA MOUNTIANS – STOP ANOTHER WAR —————————— FERMIAMO UN’ALTRA GUERRA
APPELLO
Mobilitiamoci per i popoli dei Monti Nuba (Sudan)
Fermare il massacro
Il Kordofan Meridionale è stato teatro di ripetute tragedie. I nuba hanno subito aggressioni ambientali, economiche, culturali. Oggi Khartoum sta di nuovo bombardando quelle terre. Nel silenzio del mondo. Serve la reazione di tutti per evitare un genocidio.
Il 10 novembre, un aereo militare Antonov del governo di Khartoum è entrato nello spazio aereo del Sud Sudan per circa 15 km e ha bombardato il campo profughi di Yida, dove oltre 20mila persone nuba – per lo più bambini, donne e anziani – avevano trovato scampo, dopo essere fuggiti dai loro villaggi nello stato sudanese del Kordofan Meridionale, perché vittime di una feroce repressione. Almeno 12 i morti; 20 i gravemente feriti. Le agenzie umanitarie dell’Onu stavano proprio in quei giorni organizzando l’assistenza dei rifugiati per aiutarli a sopravvivere nel nuovo e ostile ambiente.
Questa azione, compiuta nella più totale mancanza di rispetto delle leggi internazionali e contravvenendo a numerose convenzioni internazionali – oggi Sudan e Sud Sudan sono due nazioni indipendenti e sovrane – è soltanto l’ultimo dei numerosi crimini commessi dal regime di Khartoum contro il popolo nuba. Il bombardamento ha avuto luogo poche ore dopo che il presidente del Sud Sudan, Salva Kiir Mayardit, aveva condannato un precedente attacco, avvenuto il giorno 8, contro un villaggio della contea di Maban (7 morti), e accusato il governo di Khartoum di cercare la guerra.
Quel bombardamento di un territorio straniero è stata l’ennesima prova che nulla fermerà il regime di Khartoum dall’usare ogni mezzo per piegare la volontà dei nuba di affermare il loro diritto all’autodeterminazione. Pare ormai certo che il governo di Omar El-Bashir è deciso a riprendere il genocidio culturale e fisico del popolo nuba, interrotto momentaneamente dal cessate-il-fuoco del 2002 e dall’Accordo globale di pace del gennaio 2005 tra il regime islamista di Khartoum e l’Esercito/Movimento popolare di liberazione del Sudan (Spla/m), e forse anche pronto a provocare una nuova guerra tra il Sudan e il Sud Sudan.
Noi, nuba della diaspora e amici del popolo nuba sparsi nel mondo, seguiamo con profonda preoccupazione il conflitto armato che è deflagrato nel giugno di quest’anno, e condanniamo con decisione questi nuovi atti di repressione barbarica da parte del governo di Khartoum.
In passato, lo stato del Kordofan Meridionale è stato teatro di ripetute tragedie: tratta schiavista, colonizzazione, prolungato isolamento del popolo nuba, totale privazione dei servizi scolastici e sanitari, negazione del diritto di proprietà e di uso delle risorse naturali locali… In particolare, i nuba hanno sofferto innumerevoli invasioni di razziatori di schiavi e una forzata arabizzazione-islamizzazione. Sono stato costretti con la forza a combattere in guerre che non erano per la loro difesa, ma per il beneficio di regimi lontani, se non proprio stranieri.
Nonostante queste ingiustizie, i nuba sono riusciti a far fronte a spaventose condizioni di vita e a sviluppare una straordinaria capacità di ripresa e un forte senso di identità. Il regime di Khartoum li ha tenuti sotto controllo attraverso una diabolica combinazione di meccanismi economici, sociali, ambientali e politici, ma non è stato in grado di spezzare la loro volontà.
In campo economico, Khartoum sta avvantaggiando persone o gruppi disposti a sposare i suoi orientamenti politici e a servire nelle sue strutture amministrative.
In campo sociale, ricorre alla denigrazione di tutto ciò che non è arabo e alla diffusione di norme sociali, tradizioni e costumi importati nella regione attraverso o un’esplicita imposizione dall’alto o matrimoni misti e pratiche religiose.
A livello ecologico, il regime sta gestendo l’ambiente in maniera scriteriata al solo scopo di avere il totale controllo dei mezzi di sussistenza in materia di cibo e sicurezza alimentare.
Dal punto di vista politico, con una linea programmatica sfacciatamente discriminatoria, ha impedito ai nuba di svolgere un loro ruolo a livello locale, nazionale e internazionale.
Infine, la popolazione dei Monti Nuba è stata testimone di vere e proprie aggressioni culturali, perpetrate per promuovere lingue, religioni, tradizioni, danzi, usi e costumi “altri”. Quasi tutte le culture imposte hanno mirato a instillare nei nuba un senso di inferiorità, quasi dovessero vergognarsi di essere ciò che sono. Tutti i mezzi di comunicazione, radio e televisione in particolare, sono stati – e sono tuttora – monopolizzati da chi detiene il potere e controlla le ricchezze nazionali.
L’Accordo globale di pace del 2005 non ha voluto affrontare il destino del popolo nuba e di altri gruppi marginalizzati del Sudan, né osato esaminare le molte cause di conflitto presenti in quelle aree. Questa la ragione principale che sta dietro l’attuale ritorno alla violenza, il pericolo di una nuova guerra civile e la possibilità di un conflitto interregionale se non addirittura internazionale. Oggi Khartoum uccide persone indifese che sono fuggite da zone di guerra, raggiungendole perfino nei campi profughi.
Cosa bisogna fare per fermare le violenze e evitare una nuova guerra? Di sicuro, serve la partecipazione di molti. Pertanto, ci appelliamo:
1. ai tutti i nuba della diaspora, perché sostengano il loro popolo, usando ogni mezzo possibile per far conoscere le sue sofferenze e le sue lotte, coinvolgendo i mezzi di comunicazione della nazione in cui vivono, così che il regime di Khartoum non possa più continuare impunemente a fare ciò che sta facendo sui Monti Nuba e nel Kordofan Meridionale;
2. alla comunità internazionale e agli organismi non governativi, perché approntino e inviino subito sui Monti Nuba e nel Kordofan Meridionale commissioni d’inchiesta per raccogliere documentazioni sui crimini che vi sono commessi, e nello stesso tempo mandino aiuti ai civili indifesi;
3. alle potenze mondiali e alle agenzie dell’Onu, perché esercitino pressioni sul governo di Khartoum, affinché consenta il libero accesso alle zone colpite dalle nuove violenze e promuovano un dialogo politico tra tutte le parti interessate.
Invitiamo tutti a fare in fretta, ad agire ora, quando un genocidio vero e proprio è ancora evitabile.
Firme
Mohamed Yassin (Diaspora nuba) – Acli Cremona – Acli Milano – Amani Italia – Arci Darfur Milano – Arci Milano – Campagna italiana per il Sudan – Commissione giustizia e pace comboniani Italia – Fondazione Nigrizia onlus – Ipsia Milano – Iscos Emilia Romagna – Koinonia Kenya – Koinonia Roma – Nexus Bologna – Tavola della Pace.
Altre adesioni possono essere comunicate a info@developmentdays.net e forum@nigrizia.it
AMICI E MARTIRI – FRIENDS AND MARTYRS
C’erano gli ex-giovani che agli inizi degli anni 70 partecipavano al gruppo Mani Tese della parrocchia della Trasfigurazione nel quartiere Monteverde e che erano diventati amici di Nigrizia. In quegli anni avevamo la redazione a San Pancrazio, a due passi dalla loro parrocchia. Erano liceali o poco più, contribuivano con le loro idee, dando una mano a correggere le bozze, a stampare le foto – in un bagno adibito a camera oscura. Poi nel 1987 – queste date fanno un po impressione – si sono organizzati nella Onlus che si chiama pure Koinonia, facendo piccoli progetti in diversi paesi. Oggi alcuni sono vicini alla pensione. Michele, introducendo la Messa, ha parlato di amicizia, perché questa Onlus è in realtà più che altro un gruppo di amici, con “un legame profondo di vita, nella condivisione, attraverso le varie scelte di ognuno e sapendo che ieri come oggi possiamo contare un sull’altro per ogni evenienza bella o dolorosa che la vita ci propone, e sempre tenendo aperta una porta in noi e nelle nostre. case a coloro che erano e che sono meno fortunati”.
Uno di questi amici si sposò alla Trasfigurazione. Lui e la moglie arrivarono al matrimonio in blu jeans, e dopo la cerimonia offrirono a tutti un gelato, in un locale adiacente. Domenica scorsa era presente con moglie, figli e nipoti, e mi fece una riflessione su quanto sia difficile per i suoi figli oggi fare amicizie solide e durature.
Abbiamo ricordato George, che era stato ospite in una delle loro case, e Marco, ma anche Don Andrea Santoro, che quarant’anni fa insieme a don Franco fu una presenza importantissima per i giovani della Trasfigurazione. Successivamente scelse di dedicarsi alla presenza e al dialogo nel mondo musulmano, andando a vivere in Turchia, dove fu ucciso da un fanatico nel febbraio del 2006.
Per tutta la giornata ho pensato al collegamento fra amicizia, amore e martirio. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i suoi amici”. Le lettere di don Andrea ci dicono che si sentiva circondato da molti amici musulmani, e che la sua scelta di vivere in mezzo a loro era fondata sul desiderio di comunione. Pochi giorni prima del nostro incontro era stata uccisa suor Valsa John, una religiosa indiana che aveva lottato per proteggere i suoi amici sfruttati nelle miniere di carbone. E Graziella Fumagalli, Annalena Tonelli, suor Leonella Sgorbati in Somalia, Monsignor Romero… Tutta gente che amava Dio, ma che amava davvero anche le persone attorno a loro.
Nella chiesa non è facile trovare amore. O meglio lo si trova più facilemente fra i comuni fedeli e meno negli altri livelli di responsabilità. E’ difficile amare ed esercitare il ministro del servizio. Chi è in autorità tende naturalmente a privilegiare legge e strutture piuttosto che l’attenzione alle persone. L’ho amaramente sperimentato in questi giorni, incontrando persone che hanno responsabilità importanti nella chiesa, e a parte un paio di felici e positivissime eccezioni, ho trovato tanto desiderio di salvaguardare gli interessi della chiesa, di mantenere gli equilibri di potere, di evitare scandali, di difendere il proprio piccolo potere, di non apparire troppo ingenuo, eccetera eccetera. Ma amore per i poveri, disponibilità a mettersi in gioco per il loro servizio, ne ho percepito molto poco. Spero che la mia sia una percezione sbagliata e non voglio giudicare chi ho incontrato magari solo per pochi minuti. Perchè la chiesa senza amore non esiste.
Pochi giorni fa, su Avvenire, il cardinal Ravasi citava la romanziera tedesca Luise Rinser: “Questa è la mia idea dell’inferno: uno se ne sta seduto là, completamente abbandonato da Dio, e sente che non può più amare, mai più e che mai più incontrerà un’altra persona per tutta l’eternità”. Forse alcuni si creano il loro inferno personale in terra, illudendosi che cosi facendo si meriteranno il paradiso. All’opposto, il martirio è il dono e sigillo per chi ama.
Perché?
Perché la storia dell’Africa postcoloniale è stata dominata da tiranni megalomani come Idi Amin, Mobutu Sese Seko, Bokassa, Menghistu, Siad Barre, Daniel Arap Moi, Dos Santos, Adjio, Omar Bongo, Mubarak, Al Bashir, Afewerki, tanto per fare un elenco dei primi che vengono in mente, vivi e morti? O anche, perché gli africani sono così vulnerabili dal fascino di leader che poi si tramutano in tiranni?
È difficile rispondere. Occorre non solo una buona conoscenza della storia africana, ma anche tanto tempo, o tanta carta, per sviluppare l’argomento e dare una risposta che non sia superficiale.
In queste ultimi mesi si è aggiunta una domanda ancor più complessa, che nelle ultime settimane ho sentito fare decine di volte in incontri, conferenze e seminari: perché l’onda della “primavera araba” non tocca l’Africa nera?
Guardo alla grande mappa dell’Africa appesa nella mia stanza e, muovendo per grandi semplificazioni, penso a quali possano essere le similitudini e le differenze fra i paesi dell’Africa araba e quelli dell’Africa nera.
Le somiglianze sono molte e importanti. Innanzitutto sono paesi dove una minoranza ricca governa una maggioranza povera, con un divario in continua crescita. Dove per chi nasce nella povertà è quasi impossibile uscirne: non esiste o quasi mobilità sociale. Sono tutti paesi giovani, dove mediamente il 50% della popolazione ha meno di 18 anni, e dove da decenni la disoccupazione giovanile è un problema nazionale che spinge all’emigrazione i giovani più istruiti e desiderosi di cambiamento. Sono tutti paesi dove le recente crisi economica globale e la crescita inarrestabile del costo del cibo sta avendo conseguenze dirette e immediate sulla vita quotidiana delle fasce più povere della popolazione.
Però appena si incomincia a pensare alle differenze, ci si accorge che le somiglianze sono tutte di tipo economico-sociale, mentre sono macroscopiche le diversità storico-culturali. I paesi del Nord Africa sono eredi della cultura araba, e sono unità socio-politiche da diverse generazioni, anche se magari sono indipendenti solo da mezzo secolo. I paesi dell’Africa nera invece sono sì indipendenti da mezzo secolo, ma hanno alle spalle secoli di frammentazione, schiavitù e colonizzazione di una brutalità straordinaria. Le indipendenze hanno coagulato altre frammentazioni – l’Africa è il continente con il più alto numero di stati – rendendo problematico il sorgere di un senso diffuso di unità nazionale.
Bastano queste differenze a spiegare perché in Africa non ci sono ancora state “primavere”?
Molti dittatori, come Museveni e Mugabe, si sono affrettati a dire che da loro non potranno succedere le stesse cose che in Egitto. In un certo senso saranno salvati dal tribalismo, come essi stessi hanno brutalmente chiamato la frammentazione. Diventati esperti nel gioco del divide et impera, non si troveranno mai di fronte a qualcosa di simile alla folla compatta di Tahir Square. Contro i dittatori non si muoverà neppure la classe media, per quanto stia diventano sempre più numerosa, perché i suoi membri o si compiacciono di essere stati cooptati dall’élite dominante o comunque si sentono troppo fragili di fronte allo strapotere economico delle poche famiglie in cui esso si concentra.
Che cosa potrebbe allora far sbocciare queste “primavere nere”? John Githongo, in un articolo pubblicato dal quotidiano americano International Herald Tribune, dà la più seria e sintetica delle risposte che mi sia capitato di leggere. Githongo è stato nel primo governo Kibaki in Kenya “sottosegretario per la governance e l’etica”, un posto che era stato creato per lui e che poi è stato cancellato quando egli non ha esitato a prendere sul serio il suo lavoro e si apprestava a denunciare per corruzione acuni suoi colleghi di governo. Dovette fuggire all’estero per salvarsi.
Secondo Githongo oggi in Kenya, ma in genere in tutta l’Africa nera, c’è un crescente numero di giovani che sono quotidianamente provocati dai simboli della crescente diseguaglianza economica e dalla mancanza di partecipazione alla vita sociale. Il risentimento, per esempio, contro il figlio del presidente che si compra una Ferrari scatena una rivendicazione più forte della rabbia causata dal vedere in televisione i simboli della ricchezza dell’Occidente. La globalizzazione ha cambiato le aspirazioni dei poveri e le loro aspettative, paradossalmente, sono diventate più locali. Githongo sostiene che la rivoluzione araba ci ha fatto capire come ormai il problema non sia più la povertà globale, ma la diseguaglianza e la sua percezione all’interno di un paese. Di conseguenza oggi il compito più urgente è mitigare le diseguaglianze all’interno di uno stesso paese, e non quello di “make poverty history” (mettere fuorilegge la povertà), come diceva la campagna di solo pochi anni fa.
La povertà, afferma Githongo, è diminuita a livello globale, ma sono aumentate le diseguaglianze locali. Lo sviluppo economico – molti paesi africani crescono oggi al ritmo del 5% annuo – insieme alla presa di coscienza dei propri diritti, ha reso i giovani consapevoli del ritardo rispetto al villaggio globale.
Scrive Githongo, facendo un paragone preso dall’informatica, che “la Primavera araba è avvenuta nel momento in cui lo sviluppo economico ha distanziato lo sviluppo politico. Sistemi politici ossificati non riescono più a soddisfare la richiesta di nuova libertà che viene dalla gente. L’esplosione democratica del mondo arabo è quindi il risultato del suo successo economico, non del suo fallimento. Un paese può vivere una crescita economica e dotarsi di tutto il corretto hardware di governo (educazione, salute, infrastrutture) ma nel contempo dotarsi del software sbagliato (diritti fondamentali, leadership, controllo delle ineguaglianze, risposte alla domande dei giovani). Alla fine il sistema brucia”.
Githongo non lo scrive, ma la conclusione ultima che possiamo trarre dalla sua argomentazione è che il crescente divario fra un sistema ossificato e un’élite di predatori da un lato, e dall’altro la richiesta di diritti fondamentali e la consapevolezza delle diseguaglianze economiche, finirà inevitabilmente per far fiorire la primavera anche nell’Africa nera.
Resta una domanda: quando?
Kenya senza Pace
I colletti delle camicie degli studenti cominciano a sfilacciarci per l’usura dei continui lavaggi. E’ segno che l’anno scolastico sta per finire. Sono alla nostra scuola superiore, la Domus Mariae a a fine ottobre venticinque studenti i loro cominceranno gli esami finali, per poter eccedere all’università o comunque a scuole di terzo livello. Ieri, come ogni domenica, ho celebrato la Messa con loro e poi mi sono fermato nella scuola per respirarne un po l’aria..
Su richiesta di un gruppo di studenti abbiamo fatto un po di riflessione e preghiera per il Kenya. Naturalmente, come con tuti gli studenti del mondo, chi ha studiato di meno durante l’anno ha pregato con maggiore intensita, che Dio gli doni forza, salute e intelligenza durante gli easmi… A parte questo, gli argomenti per lo scambio di idee e la preghiera non sono mancati.
Nella scorsa settimana sono successi in pochi giorni alcuni disastri, di natura ormai ricorrente.
Lunedì l’incendio del piccolo slum chiamato Sinai le cui immagini orrende hanno fatto il giro del mondo. Quasi cento persone morte bruciate in un rogo scatenatosi mentre una folla era accorsa e cercava con tutti i contenitori possibili di raccogliere oltre centomila litri di carburante che si erano riversati in un canale di scolo dalla tubatura difettosa di una vicina raffineria. .
Due giorni dopo in due diverse località quasi venti persone morte, e altre diventate cieche, per aver bevuto dell’alcool distillato illegalmente, senza eliminare la testa e la coda che normalmente, e lo sanno tutti, sono tossiche.
Sabato sera quattro morti e cinque feriti per il crollo di un edificio in costruzione.
Disastri causati della disperazione, dal desiderio o dalla necessità di far soldi a tutti i costi, e in fretta.
Queste notizie hanno fatto passare in secondo piano la tremenda carestia che sta devastando tutto il nord del paese e che era stata nelle prima pagine dei giornali nel mese precedente
Sono tragedie che hanno responsabilità precise, e il comun denominatore è la corruzione. Per pochi soldi si chiude un occhio se una casa non è costruita secondo i minimi standard, se l’alcool viene distillato nel cortile dietro casa, se un oleodotto regolarmente ha perdite che inquinano e potrebbero innescare un disastro.
Ho interrotto quanto avevo incominciato a scrivere qui sopra, pensando di riprendere dopo poche ore, ma poi sono venuto in Italia per la Perugia – Assisi ed una serie di incontri che mi ha portato da Bolzano a Modica, da Bari a Torino, da Alghero a Conegliano Veneto…
Nel frattempo in Kenya e in tutto il Corno d’Africa la carestia continua, centinaia di persone muoiono ogni giorno, gli interventi umanitari sono assolutamente insufficienti come denunciato degli stessi responsabili degli aiuti, fiumane di persone disperate hanno cominciato a riversarsi in Kenya dalla Somalia in cerca di cibo per sopravvivere, i militanti islamici somali hanno rapito turisti in Kenya, e il governo keniano non ha trovato altra soluzione di inviare l’esercito in Somalia.
Si può pensare che il Kenya riesca a pacificare la Somalia, quando ha fallito l’America e poi l’Etiopia? Anche se negli anni la situazione è cambiata e l’esercito keniano ha il supporto dietro le quinte degli americani, è fin troppo facile prevedere che il risultato sarà nel migliore di casi una serie infinita di scaramucce e scontri.
La violenza, le armi, non vincono mai contro le legittime aspirazioni dei popoli. Nel migliore dei casi nascondono sotto il tappeto di una falsa pace una situazione che riesploderà ancora dopo pochi anni. In Somalia ci si può seriamente domandare quali siano le legittime aspirazioni o se non si sia creata una situazione di violenza cronica che è diventata uno stile di vita. Ma certamente una mamma che sa con certezza che sta morendo per fame insieme ai figli, non si ferma davanti al rischio di essere uccisa da una pallottola.
Addirittura leggo che qualcuno in Kenya sogna di stabilire uno stato cuscinetto fra Kenya e Somalia, da chiamare Azania. E’ la stessa linea di pensiero espressa tre anni fa da un editorialista del Nation di Nairobi che si domandava se il Kenya non avesse la responsabilità di invadere e colonizzare la Somalia, per lo meno fino a che i somali non diventassero capaci di autogestirsi. Intanto, com’era da aspettarsi, dal 6 novembre sono iniziate le reazioni dei fondamentalisti islamici in Kenya, che hanno tirato una granata nel cortile di una chiesa pentecostale, a Grarissa, facendo due morti e tre feriti.
Non sarà facile fermare questa spirale di violenza. Speriamo sempre nei giovani. Che la generazione degli studenti della Domus Mariae capisca che il rispetto dei diritti degli altri e dialogo sono le chiavi della pace. E’ una strada lunga e faticosa, ma non c’è altra via per diventare più umani.