Oggi avrei dovuto essere sui Monti Nuba. Non son riuscito ad andarci per cause varie, non ultime la stanchezza e l’incertezza della situazione. La guerra purtroppo è ripresa agli inizi dello scorso giugno. Il governo di Khartoum ha tentato di controllare militarmente Kadugli, la capitale, adducendo come scusa la confusione post-elettorale, e ha cercato di arrestare il leader Abdel Aziz Al Hilu, membro del Sudan People’s Liberation Movement-North (SPLM-N), fino a pochi giorni prima vice-governatore e si era presentato alle elezioni per la carica di governatore. I Nuba hanno reagito a questa prevaricazione, e sono seguiti giorni di battaglie e atrocità. Ci sono immagini satellitari che mostrano fosse comuni. Poi le posizioni si sono attestate, con Abdel Aziz che controlla un territorio leggermente più esteso che non quello che controllava nel gennaio del 2002, quando venne firmato il cessate il fuoco. e i governativi che bombardano Kauda, Gidel, Teberi, Kerker, Sarbule, i posti dove Koinonia ed Amani hanno portato avanti progetti educativi sin dalla prima nostra presenza, nel 1995, fino all’ottobre del 2009, quando abbiamo consegnato le tre scuole alle autorità locali. Ho fatto una settimana in quell’area in marzo di quest’anno ed avevo notato con piacere che nonostante non avessimo più garantito fondi le scuole ancora funzionavano e sopratutto che ovunque andassimo c’erano maestri e direttori di scuole provenienti dal ciclo di formazione che avevamo avviato.
Se fossi andato adesso a Kauda, bombardamenti a parte, avrei potuto trovarmi a dover camminare per qualche decina di chilometri al giorno, dato che auto e ancor più carburante scarseggiano. Dieci anni fa la facevo. Adesso non son più in allenamento ed ho dieci anni di più…
Ora i Nuba riappaiono a Nairobi. Ieri è venuto a trovarmi un uomo che avevamo impiegato come logistico alla fine degli anni novanta. Dopo la pace era andato a Khartoum ed aveva un posto abbastanza importante in un ministero. Il mese scorso si è fatto precedere da moglie e figli al Cairo, poi lui ha chiesto il permesso di andarci per ragioni di salute, e tutti poi hanno preso l’aereo per Nairobi. Adesso sta organizzandosi per andare a Juba, dove spera di trovar lavoro. Anche i pochi studenti Nuba che sono a Nairobi stanno aspettando l’evolversi della situazione per decidere se rientrare a casa – clandestinamente, perché non c’è altra scelta – o andare a Juba, dove potrebbero almeno ottenere il passaporto Sud Sudanese, senza rischiare di restare apolidi per il resto della loro vita.
Quali le cause di questa nuova fase? Sono le stesse dalle guerra civile fra Sud e Nord, durata dal 1983 al 2005. Profonde ingiustizie e discriminazioni sociali, politiche, culturali, con anche una dimensione religiosa, che il trattato di pace non ha risolto, ha solo cercato di ignorare.
Tanti speravano, ma era un speranza ingenua, che dopo la divisone avvenuta lo scorso luglio – Sudan con capitale Khartoum e Sud Sudan con capitale Juba – si sarebbe avviata una fase di normalizzazione e ricostruzione. A soli due mesi dall’indipendenza il Sud Sudan è lacerato da lotte intestine gravissime. Sono i colpi di coda di una eredità di sopraffazione, violenza e tribalismo che sta per scompare, o è solo l’inizio di una nuova frammentazione? Nessuno lo può dire, molto certamente dipende dalle capacità dei leaders. In Sudan sono rimasti attivi i grandi focolai di violenza del Darfur e di Abyei, in giugno si sono aggiunti i Monti Nuba (che molti chiamano col nome ufficiale di South Kordofan) e l’altro ieri il governo di Khartoum ne ha avviato un’altro, attaccando la casa del governatore eletto Malik Aggar (altra mia vecchia conoscenza) e scatenando una reazione che poterà inevitabilmente ad altre violenze.
Potrà Omer Hassan al-Bashir, al potere a Khartoum dal 1989, mantenere il controllo di un paese che dopo aver perso il Sud adesso si sta dividendo su basi regionali? Fra i possibili scenari ci sono la discesa sia del Sudan che del Sud Sudan in una spirale di violenza e di illegalità che li farà diventare un’altra Somalia, o la speranza che in Sudan le opposizioni comincino a lavorare unite e diano la spallata finale al governo di Bashir, portando al potere un governo democratico, che a sua volta potrebbe favorevolmente influire sulla stabilizzazione anche del Sud Sudan. Insomma un’altra fase della primavera araba, con tutte le incertezze ma anche con tutte le speranze che la caratterizzano.
Intanto la comunità Nuba a Nairobi torna ad espandersi. Mentre scrivevo questa nota mi ha chiamato una delle vedove di Yusuf Kuwa, il leader Nuba morto 10 anni fa. Anche lei si è rifugiata a Nairobi, in cerca di quella pace che per i Nuba sembra un sogno impossibile.
Se fossi andato adesso a Kauda, bombardamenti a parte, avrei potuto trovarmi a dover camminare per qualche decina di chilometri al giorno, dato che auto e ancor più carburante scarseggiano. Dieci anni fa la facevo. Adesso non son più in allenamento ed ho dieci anni di più…
Ora i Nuba riappaiono a Nairobi. Ieri è venuto a trovarmi un uomo che avevamo impiegato come logistico alla fine degli anni novanta. Dopo la pace era andato a Khartoum ed aveva un posto abbastanza importante in un ministero. Il mese scorso si è fatto precedere da moglie e figli al Cairo, poi lui ha chiesto il permesso di andarci per ragioni di salute, e tutti poi hanno preso l’aereo per Nairobi. Adesso sta organizzandosi per andare a Juba, dove spera di trovar lavoro. Anche i pochi studenti Nuba che sono a Nairobi stanno aspettando l’evolversi della situazione per decidere se rientrare a casa – clandestinamente, perché non c’è altra scelta – o andare a Juba, dove potrebbero almeno ottenere il passaporto Sud Sudanese, senza rischiare di restare apolidi per il resto della loro vita.
Quali le cause di questa nuova fase? Sono le stesse dalle guerra civile fra Sud e Nord, durata dal 1983 al 2005. Profonde ingiustizie e discriminazioni sociali, politiche, culturali, con anche una dimensione religiosa, che il trattato di pace non ha risolto, ha solo cercato di ignorare.
Tanti speravano, ma era un speranza ingenua, che dopo la divisone avvenuta lo scorso luglio – Sudan con capitale Khartoum e Sud Sudan con capitale Juba – si sarebbe avviata una fase di normalizzazione e ricostruzione. A soli due mesi dall’indipendenza il Sud Sudan è lacerato da lotte intestine gravissime. Sono i colpi di coda di una eredità di sopraffazione, violenza e tribalismo che sta per scompare, o è solo l’inizio di una nuova frammentazione? Nessuno lo può dire, molto certamente dipende dalle capacità dei leaders. In Sudan sono rimasti attivi i grandi focolai di violenza del Darfur e di Abyei, in giugno si sono aggiunti i Monti Nuba (che molti chiamano col nome ufficiale di South Kordofan) e l’altro ieri il governo di Khartoum ne ha avviato un’altro, attaccando la casa del governatore eletto Malik Aggar (altra mia vecchia conoscenza) e scatenando una reazione che poterà inevitabilmente ad altre violenze.
Potrà Omer Hassan al-Bashir, al potere a Khartoum dal 1989, mantenere il controllo di un paese che dopo aver perso il Sud adesso si sta dividendo su basi regionali? Fra i possibili scenari ci sono la discesa sia del Sudan che del Sud Sudan in una spirale di violenza e di illegalità che li farà diventare un’altra Somalia, o la speranza che in Sudan le opposizioni comincino a lavorare unite e diano la spallata finale al governo di Bashir, portando al potere un governo democratico, che a sua volta potrebbe favorevolmente influire sulla stabilizzazione anche del Sud Sudan. Insomma un’altra fase della primavera araba, con tutte le incertezze ma anche con tutte le speranze che la caratterizzano.
Intanto la comunità Nuba a Nairobi torna ad espandersi. Mentre scrivevo questa nota mi ha chiamato una delle vedove di Yusuf Kuwa, il leader Nuba morto 10 anni fa. Anche lei si è rifugiata a Nairobi, in cerca di quella pace che per i Nuba sembra un sogno impossibile.