Alla fine di giugno mi ero riproposto di scrivere qualcosa su questo blog almeno una volta alla settimana. Poi la tragedia avvenuta a Marina di Ravenna il 2 luglio mi ha fatto capire una volta ancora quanto le parole siano insufficienti. D’altra parte non volevo tornare a scrivere senza nominare George e Marco. Adesso ne trovo la forza riproponendovi una colonna che Pietro Veronese ha pubblicato sul Venerdì di Repubblica.
A MARCO, LA CUI MORTE HA RISCATTATO ANCHE NOI
Il 2 luglio è mancato a Marina di Ravenna il giovane Marco Colombaioni, di 28 anni.
Marco è morto in mare nel tentativo di aiutare alcuni ragazzi africani che si erano trovati in pericolo facendo il bagno. Quattro ne ha salvati, è perito insieme al quinto, il quindicenne George Munya.
Era caro agli dèi questo giovane artista brillantemente diplomato a Brera, volontario in Africa per l’associazione Amani, che molti, celebrandolo, hanno chiamato eroe. Un figlio di quella “Milano perfetta fatta di associazionismo, arte, attività culturale, cooperazione internazionale”, per usare le parole con le quali è stato commemorato in Consiglio Comunale a Palazzo Marino.
A me, più per come ha troppo brevemente vissuto, piacerà ricordare Marco Colombaioni per come è morto. Soccorrendo vite africane in quello stesso mare di indifferenza e di egoismo che è diventato il Mediterraneo. Certamente i suoi giovani amici non erano migranti, non stavano cercando di raggiungere le sponde italiane, anzi se ne erano allontanati per gioco. Ma ai miei occhi il suo sacrificio riscatta tutti quegli annegati, tutte quelle anime che abbiamo lasciato andare a fondo mentre venivano verso di noi attraverso le onde, dalle coste dell’Africa. Marco è stato solidale fino all’estremo, anche per noi, che non lo siamo stati abbastanza. Come quella di Cristo, la sua è stata una morte da redentore. (da Il Venerdì di Repubblica, 15 luglio 2011)
Dopo qualche giorno abbiamo celebrato il funerale e messo a riposare le spoglie di George, in un paesino ai piedi del Kilimanjaro, un paesaggio che come pochi dà il senso della bellezza e dell’eternità. Tornato a Kivuli, ho rivisitato con gli altri ragazzi che erano in acqua al momento della tragedia ciò che era successo. Ho scoperto che anche George è perito per aver pensato agli altri prima che a se stesso. Quando si è accorto di quell’onda pericolosa che lo avrebbe portato via ha incitato agli altri ad andare verso riva, trascinandone alcuni per qualche metro e indicando loro di andare verso Marco.
Marco e George sono una presenza viva e gioiosa, non dimenticheremo mai il loro esempio.
Pietro Veronese ha poi scritto un’altra colonna su un ragazzo di Koinonia.
IL GIOVANE JACK, ELETTO PADRE DAI BAMBINI DELLO SLUM
Non so dire se gli angeli esistano in un mondo ultraterreno, ma talvolta se ne incontra uno che si aggira in mezzo agli uomini. Tale mi è apparso Jack Matika, un ragazzo che a Nairobi accoglie e cura i bambini di strada di Kibera, lo slum più grande della capitale del Kenya e uno dei più estesi dell’Africa.
Spesso ad assumersi questo compito sono ex bambini di strada, che una volta diventati adulti si sentono chiamati a farsi carico dei loro più piccoli compagni di sventura. Ma la storia di Jack è particolare. Lui una famiglia ce l’aveva, sia pure poverissima; ed una modesta casa sulla Kabiria Road, in uno dei sobborghi popolari della città. Appena diplomato, giovanissimo insegnante, sono stati gli “street children” ospitati in una casa d’accoglienza ad invitarlo, e da allora Jack non se n’è più andato. E’ stato insomma lui ad essere adottato dai bambini di strada e non il contrario. Gli hanno addirittura pagato un ulteriore biennio di studi perché diventasse assistente sociale titolato.
Adesso Jack è l’anima di un centro di prima accoglienza che si chiama Ndugu Mdogo, “piccolo fratello”. Dicono che abbia un’energia inesauribile e sia benvoluto da tutti. La polizia gli affida i ragazzi che trova in strada; i capi musulmani di Kibera lo proteggono. Quando lo sono andato a trovare insieme ai suoi bambini, Jack, che potrebbe essere mio figlio, ha adottato anche me. (da Il Venerdì di Repubblica, 12 agosto 2011)
Jack è davvero una persona speciale. Ogni volta che l’ho incontrato non ho potuto fare a meno di pensare che l’Africa vive anche e soprattutto grazie alle (tante, tantissime,..) persone come lui.
Ciao Kizi,
grazie per essere tornato a scrivere. Ora capisco il motivo della tua lunga assenza.
Non conoscevo Marco e George, ma leggendo le parole di Veronese non sono riuscito a trattenere le lacrime. Alla rabbia per non aver saputo nulla per settimane (le parole sono ancora più insufficienti se non dette o non ascoltate) si è sostituita l’emozione di ritrovare in queste due vite spezzate la grandezza del sacrificio per l’altro, vertigine dell’Amore.
Da qui vi abbracciamo sentendoci, ancora, intensamente, parte della stessa famiglia.
Beppe e Dèsy
Caro Padre Kizito, mi accodo al commosso e affettuoso ricordo di George. Sul sito della nostra associazione calcistica (www.calciolandia.it), sezione foto, sono sempre visibili le immagini di un emozionante pomeriggio del maggio 2010 in cui i ragazzi di Kivuli hanno giocato a calcio insieme ai nuovi amici di Mulazzano.
Fui proprio io, organizzatore e arbitro della partita, a chiedere ai suoi ragazzi di eleggere il proprio capitano, insignito della classica fascia distintiva. La scelta cadde unanime proprio su George, che si dimostrò poi in campo autentico leader per esempio e capacità.
Non mi sorprende sapere che fino all’ultimo ha agito in pieno accordo con la sua innata indole da capitano vero.
Se di notte spingo gli occhi verso l’universalità del cielo, mi sembra di scorgere la luce che arriva da quel “paesino ai piedi del Kilimanjaro”, riflesso di un sorriso e di una fascia da capitano che continueranno a segnare la strada per la nostra squadra.
Capitani, in fondo, si nasce e si rimane per sempre.
Ciao George.