Questa è una città? Si, ci sono case, ma non c’è una piazza centrale, non un parco dove la gente possa incontrarsi, non un teatro, un municipio degno di questo nome” L’amico mozambicano, abituato ai tentativi di civetteria latina delle città nate nelle colonie portoghesi, forse esagera. Lusaka, la capitale della Zambia, non è poi cosi brutta. Tuttavia le sue osservazioni hanno del vero.
Come tante altre città africane, Lusaka è nata per soddisfare le esigenze dei pragmatici colonizzatori britannici, costruita intorno alla linea ferroviaria che serviva principalmente per esportare il rame. I criteri che ne hanno guidato la pianificazione della città sono fondamentalmente gli stessi dell’apartheid: tre strade parallele alla ferrovia per sistemarci alberghi e negozi, un quartiere per gli uffici governativi, un quartiere per i coloni inglesi e, allontanandosi dal centro, prima un quartiere indiano, poi una corona di quartieri africani, poi fattorie (di proprietà dei coloni) per rifornire la città di viveri. Unica concessione alla fantasia, o meglio ai sogni imperiali, il nome della strada più importante, Cairo Road. Nel 1931, quando Lusaka è stata fondata come capitale della Rhodesia del Nord, si poteva partire da Città del Capo, e, passando da Cairo Road, raggiungere la capitale egiziana sempre muovendosi in territori dominati dagli inglesi.
Il valore complessivo del rame che gli inglesi hanno esportato sulle rotaie che attraversano Lusaka fino al 1964, anno dell’indipendenza, senza un euro di compenso alla popolazione locale, fa girare la testa se si cerca di calcolarlo. Quando gli inglesi allentarono la stretta e la Zambia divenne formalmente indipendente, ci fu un periodo di grande prosperità. Gli Zambiani affermavano con orgoglio che Lusaka era la città africana con la più grande percentuale di crescita, e paragonavano Cairo Road al Miracle Mile di Los Angeles, perché in negozi elegantissimi vi si trovava di tutto, anche le ultimissime novità tecnologiche del tempo. Oggi, dopo anni disastrosi politicamente ed economicamente, la risalita del prezzo del rame e l’arrivo di compagnie e capitali cinesi, stanno ridando splendore a Lusaka, anche se la maggioranza della gente continua a vivere in grande povertà
Per conoscere una città pensata per il business bisogna andare al mercato. Fra cassette di pomodori e peperoni, sacchi di pesce secco, di fagioli e di riso. caschi di banane, montagne di cavoli – un panorama che cambia a seconda dei prodotti della stagione – si incontra tutta la Lusaka che non conta agli occhi del mondo, gli uomini che portano al mercato il prodotto dei loro orti, i facchini, le donne che col piccolo commercio mantengono la famiglia, le casalinghe che tutte le mattine vengono qui a cercare i prodotti più economici. Qui si incontrano anche i bambini di strada, che si muovono svelti in piccoli gruppi, innocenti e scaltri, pronti a fare sia un servizio a pagamento sia a non lasciarsi sfuggire l’occasione di un piccolo furto.
Oggi mi viene incontro Lavu, il più anziano di una banda di adolescenti. Mi mostra Ouma. “Lo vedi? Ha otto anni, la mamma si è messa con un altro uomo che lo ha cacciato di casa. Da ieri è con noi. Ma perché la gente è tanto cattiva?”. Domanda che farebbe tremare i polsi ad un teologo. Ouma ha ancora i segni delle lacrime sul viso sporco, e segni di percosse su tutto il corpo. “Lavu – gli dico – non è vero che tutta la gente è cattiva. Fra la gente ci siete voi, e voi avete accolto Ouma. Non si può essere al mondo senza aver a che fare con ingiustizia a violenza, ma noi siamo qui per aiutarci, per vincere con l’amore, facendo ciò che è bene. L’amore vince il male, e voi lo state dimostrando. Io vi prometto che vi aiuterò ad aiutare Ouma, voglio imitarvi, perché voi state facendo quello che farebbe Gesù”.
Mi guardano sbalorditi, Sorridono felici. Mi promettono che se hanno troppa fame o si ammalano cercheranno aiuto a Mthunzi, dove già decine di ex ragazzi di strada hanno trovato rifugio, e in pochi secondi scompaiono di nuovo, inghiottiti dalla fiumana di gente che si muove intorno a noi. Ancora una volta mi hanno confermato che sono loro il cuore vero di questa città.
Come tante altre città africane, Lusaka è nata per soddisfare le esigenze dei pragmatici colonizzatori britannici, costruita intorno alla linea ferroviaria che serviva principalmente per esportare il rame. I criteri che ne hanno guidato la pianificazione della città sono fondamentalmente gli stessi dell’apartheid: tre strade parallele alla ferrovia per sistemarci alberghi e negozi, un quartiere per gli uffici governativi, un quartiere per i coloni inglesi e, allontanandosi dal centro, prima un quartiere indiano, poi una corona di quartieri africani, poi fattorie (di proprietà dei coloni) per rifornire la città di viveri. Unica concessione alla fantasia, o meglio ai sogni imperiali, il nome della strada più importante, Cairo Road. Nel 1931, quando Lusaka è stata fondata come capitale della Rhodesia del Nord, si poteva partire da Città del Capo, e, passando da Cairo Road, raggiungere la capitale egiziana sempre muovendosi in territori dominati dagli inglesi.
Il valore complessivo del rame che gli inglesi hanno esportato sulle rotaie che attraversano Lusaka fino al 1964, anno dell’indipendenza, senza un euro di compenso alla popolazione locale, fa girare la testa se si cerca di calcolarlo. Quando gli inglesi allentarono la stretta e la Zambia divenne formalmente indipendente, ci fu un periodo di grande prosperità. Gli Zambiani affermavano con orgoglio che Lusaka era la città africana con la più grande percentuale di crescita, e paragonavano Cairo Road al Miracle Mile di Los Angeles, perché in negozi elegantissimi vi si trovava di tutto, anche le ultimissime novità tecnologiche del tempo. Oggi, dopo anni disastrosi politicamente ed economicamente, la risalita del prezzo del rame e l’arrivo di compagnie e capitali cinesi, stanno ridando splendore a Lusaka, anche se la maggioranza della gente continua a vivere in grande povertà
Per conoscere una città pensata per il business bisogna andare al mercato. Fra cassette di pomodori e peperoni, sacchi di pesce secco, di fagioli e di riso. caschi di banane, montagne di cavoli – un panorama che cambia a seconda dei prodotti della stagione – si incontra tutta la Lusaka che non conta agli occhi del mondo, gli uomini che portano al mercato il prodotto dei loro orti, i facchini, le donne che col piccolo commercio mantengono la famiglia, le casalinghe che tutte le mattine vengono qui a cercare i prodotti più economici. Qui si incontrano anche i bambini di strada, che si muovono svelti in piccoli gruppi, innocenti e scaltri, pronti a fare sia un servizio a pagamento sia a non lasciarsi sfuggire l’occasione di un piccolo furto.
Oggi mi viene incontro Lavu, il più anziano di una banda di adolescenti. Mi mostra Ouma. “Lo vedi? Ha otto anni, la mamma si è messa con un altro uomo che lo ha cacciato di casa. Da ieri è con noi. Ma perché la gente è tanto cattiva?”. Domanda che farebbe tremare i polsi ad un teologo. Ouma ha ancora i segni delle lacrime sul viso sporco, e segni di percosse su tutto il corpo. “Lavu – gli dico – non è vero che tutta la gente è cattiva. Fra la gente ci siete voi, e voi avete accolto Ouma. Non si può essere al mondo senza aver a che fare con ingiustizia a violenza, ma noi siamo qui per aiutarci, per vincere con l’amore, facendo ciò che è bene. L’amore vince il male, e voi lo state dimostrando. Io vi prometto che vi aiuterò ad aiutare Ouma, voglio imitarvi, perché voi state facendo quello che farebbe Gesù”.
Mi guardano sbalorditi, Sorridono felici. Mi promettono che se hanno troppa fame o si ammalano cercheranno aiuto a Mthunzi, dove già decine di ex ragazzi di strada hanno trovato rifugio, e in pochi secondi scompaiono di nuovo, inghiottiti dalla fiumana di gente che si muove intorno a noi. Ancora una volta mi hanno confermato che sono loro il cuore vero di questa città.