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September, 2010:

Le Sfide della Missione – The Most Pressing Mission Challenges

Non c’è niente di più deprimente per un missionario che vive e opera agli estremi confini della chiesa che leggere articoli e libri sulla missione della Chiesa. Esperti e teologi ci spiegano come dovremmo essere e quali azioni dovremmo intraprendere per affrontare le grandi e nuove sfide della missione. Poi , di fatto, si resta soli. Col tempo ogni missionario impara a discernere quali sono le cose che è capace di fare, in cui ha qualche talento da spendere, e, con l’aiuto di Dio, cerca di fare qualcosa al servizio del Vangelo. I fallimenti sono inevitabilmente più numerosi che non i successi. Poi, naturalmente, ti rimproverano di esserti isolato. Ti nasce il dubbio di aver sbagliato tutto, di aver tradito la tua vocazione e il carisma del tuo istituto. Di essere missionario solo per un’etichetta che ti hanno cucito addosso.
Qualche anno fa mi ero iscritto per partecipare ad un ritiro spirituale diretto da un grande teologo e scrittore di temi missionari. Avevo letto alcuni suoi testi e li avevo trovati ricchi di ispirazioni. Il tema era stimolante, “Le sfide per la Missione, oggi”. Il corso si sarebbe dovuto tenere in Malawi, un paese Africano normalmente considerato un paradiso turistico. Ma non lo si tenne, perché il famoso teologo lo cancellò all’ultimo momento quando gli fu detto che in Malawi c’è il rischio malaria… Decisi di usare quella settimana per fare un altro viaggio, ma in Sudan, sui Monti Nuba, in Sudan, dove c’erano cristiani per i quali la celebrazione dell’Eucarestia e del sacramento della Riconciliazione erano un lusso che si potevano permettere solo ogni due o tre anni. Fu un’esperienza che mi vaccinò contro le belle parole, parlate o scritte. Imparai a credere di più alla sapienza delle persone semplici – agli stimoli e alle sfide che ci vengono da loro – piuttosto che alla sapienza dei dotti..
Naturalmente non smisi di riflettere su ciò che facevo e che faccio, e non smisi di leggere tutto ciò che gli altri scrivono sul tema, per lo meno i testi che riesco a trovare. Il tenersi vivi e attenti, vigilare, come ci dice Gesù nel Vangelo, non solo nell’attesa del ritorno del Signore, ma anche per approfondire la conoscenza della società e della cultura della gente in mezzo alla quale si vive, è parte integrale della vita di un missionario.
Dopo questa lunga premessa, è chiaro che le sfide che si parano davanti a me, missionario “di strada” – o, come direbbero a Nairobi, “jua kali” cioè che lavora sotto il “sole cocente” – sono frutto delle mie scelte e di una visione assolutamente personale. Non voglio usare, forse non sarei più capace di farlo correttamente, parole come “pneumatologia”, “modelli di chiesa” e “paradigmi missionari”. Posso parlare delle sfide alla mia vita di missionario solo ripensando agli incontri che ho avuto in questi ultimi tempi, agli sguardi che hanno cercato i miei occhi, ponendomi domande magari senza neppur aprire bocca.
Jeannine è nata in Ruanda. Ne è fuggita nei mesi immediatamente seguenti il genocidio del 94, aveva 19 anni, ed è arrivata a Nairobi insieme alla mamma dopo due anni di calvario fra Burundi, Tanzania e Uganda. Adesso è sposata con un connazionale, hanno tre figli, lui fa lo scultore di legno a Kivuli, il centro per ex bambini di strada dove vivo, lei fa i lavori di casa, e,da pochi mesi, cioè da quando i rifugiati ruandesi in Kenya possono legalmente risiedere in Kenya e quindi non si devono nascondere ogni volta che passa un poliziotto, quando ha tempo libero si mette fuori dalla porta della baracca che affittano a Kawangware per abbrustolire e vendere ai passanti pannocchie di mais. Ma questa non è la sua casa e la sua cultura. Vorrebbe rientrare ma non si sente sicura. Lo stesso vale per i molti sudanesi che sono venuti qui ai tempi della guerra civile nel loro paese, e non vogliono tornare perché temono che la pace non duri. I rifugiati a causa di guerre nel mio quartiere sono almeno uno su cinque.
Denis invece è un keniano di 16 anni. La mamma è single, economicamente arrivata, di quella prima generazione keniana di donne emancipate che hanno voluto avere un figlio senza avere un marito. Denis frequenta una scuola privata di ottima reputazione, pagando una retta mensile che corrisponde al salario mensile medio di tanti lavoratori a Nairobi. E’ un privilegiato. Eppure domenica scorsa mi si è avvicinato fuori dalla chiesa dicendomi che voleva confessarsi. Ma come fai a confessarti se non sei cattolico? In realtà Denis voleva fare un colloquio per parlare delle paure e dei sogni del suo futuro, del suo confuso desiderio di approfondire il suo rapporto con Gesù e entrare nella chiesa cattolica, dalla sua incerta identità sessuale, della sua disperata necessità di qualcuno a cui chiedere consigli per orientarsi nella foresta della vita. Mi dice una frase rivelatrice: “I nostri anziani, al villaggio, diventavano adulti attraverso l’iniziazione. Io sono diventato adulto guardando la televisione. Non posso negarlo, mi piace, mi fa sentire in contatto col mondo. Ma non trovo risposte alle mie domande. Mia mamma? E’ un’estranea, anche se le voglio bene perché mi dà tutto”. I giovani in tutta l’Africa non hanno più guida. Le statistiche da decenni ci dicoo che in Africa il 50% della popolazione ha meno di 18 anni. Anche se in molti di loro c’è una forte domanda di spiritualità, la chiesa riesce a raggiungerne pochi, e spesso in modo superficiale, per mancanza di personale apostolico.
Kivuli è punto di ritrovo anche per un gruppo di giovani Luhya, numericamente la seconda etnia del Kenya, tutti adolescenti o poco più, tutti immigrati recentemente dalla stessa zona, tutti in cerca di una borsa di studio e di un lavoro per poter studiare la sera. Anche loro in cerca di un senso per la loro vita. Si ritrovano quasi ogni giorno, si scambiano storie di frustranti giornate sui marciapiedi di Nairobi e si divertono facendo un po di danza e di teatro. Hanno ancora grandi speranze ed un grande senso dell’umorismo sulla loro situazione. Ieri Kasuko, una bellisssima ragazza, imitava gli atteggiamenti lascivi di un potenziale datore di lavoro, mentre Kevin raccontava come avesse rischiato il linciaggio per aver inavvertitamente urtato un anziano passante che si è messo ad urlare “al ladro!”, temendo fosse un borsaiolo. Charles invece è troppo stanco per continuar a andare in giro a cercare un lavoro decentemente retribuito – non chiede molto, gli basterebbero 100 euro al mese – ed ha deciso di aiutare una zia dandole il turno per vendere frutta in un banchetto abusuvo, ai margini della strada. Il papà è una dei tanti sconfitti dalla città, ormai permanentemente ubriaco. Eppure questi ragazzi, nonostante le esperienze negative che hanno sotto gli occhi, continua ad inurbarsi in cerca dell’eldorado, anche perché in campagna, dove in teoria potrebbero avere un vita più dignitosa, il governo non provvede i servizi essenziali.
Mameo è un prode guerriero Samburu. O meglio, lo era. Adesso è venuto in città per accumulare qualche soldo prima di sposarsi, e fa la guardia privata nientemeno che a Kibera, lo slum più grande e più povero di Nairobi. Il primo lavoro, che fa tuttora, è stato per i residenti di un gruppo di baracche poverissime dove non si capisce che cosa si potrebbe rubare. Lo hanno assunto per fare la guardia durante il giorno, quando sono tutti fuori per lavoro, a parte un bambino di 4 anni, gravemente malato, che la mamma è costretta a lasciare in casa da solo. Lo pagano 40 centesimi di euro al giorno. Poi ha trovato lavoro anche come guardia notturna per una famiglia della classe media, in un quartiere residenziale a poca distanza. Quando dorme? Risponde serio serio, non c’è tempo per dormire, adesso devo raccogliere i soldi per poter sposare una buona ragazza. Sospeso fra nomadismo e vita urbana, Mameo è nomade anche religiosamente, ogni domenica va in una chiesa diversa, dove gli capita di passare. Par lui la chiesa non è importante, l’importante è pregare il Creatore.
Sabato il gruppo di donne volontarie che una volta alla settimana vanno a visitare e incoraggiare persone che hanno l’AIDS conclamato, o sono comunque gravemente malate, avevano solo storie tristi da scambiarsi. Due dei loro malati, su circa centoventi, erano morti nella settimana precedente. Altri si stanno lasciandosi morire, avendo perso la speranza di poter accedere ai farmaci antiretrovirali. Un bambino è morto di malaria, e la tubercolosi continua a rovinare vite. Ammalarsi anche di una malattia curabilissima nel mondo ricco, in Africa è una condanna a morte. Agnes scuote la testa, sconsolata, “La cosa migliore che possiamo fare è aiutare i malati a morire sereni, affidandosi a Dio”.
A Kibera, vicino alla casetta che ospita il nostro progetto di prima accoglienza per bambini di strada, vive Musa, musulmano quarantenne. Non un fanatico, ma di fede granitica. Commercia in vestiti usati e nel tempo libero fa l’allenatore di un gruppo di giovani che praticano la lotta tradizionale. Un paio di mesi fa mi ha rivolto la parola per la prima volta, avvicinandomi con un discorso conciso e ovviamente preparato con molta cura: “Mister Kizito (così mi ha chiamato), sono due anni che osservo ciò che tu e gli altri di Koinonia fate per il recupero dei bambini e l’educazione dei nostri giovani. Mi piace ciò che fate. Perché non facciamo delle attività insieme?”. E’ nata cosi l’iniziativa di una competizione di lotta tradizionale. E’ facile collaborare con Musa, è un uomo giusto, senza inganno. Spero che insieme si possano fare anche cose più impegnative a livello di formazione umana.
Sono tutti questi volti che mi vengono in mente. Con loro sono parte del fiume della vita , che mi porta e mi fa sentire immerso nell’inesauribile e sempre mutante complessità della condizione umana. Sono persone povere, umili, che faticano a mantenere se stessi e la famiglia, ossessionati dal mettere insieme ogni giorno qualcosa per mangiare, per pagare l’affitto a fine mese. Sono persone che in molti modi sono in transizione, fra la tradizione e la modernità, in balia di forze sociali, economiche e culturali immensamente più forti di loro. Quando si parla con loro di Dio manifestano una fede genuina. Sono aperti al Vangelo anche se provengono da tradizione religiose diverse. Hanno una carica di speranza e positività che li aiuta a superare difficoltà inimmaginabili.
Io, proveniente da un mondo impregnato da un grande senso di superiorità culturale, rafforzata dalla supremazia tecnologica, con queste persone, non con altre, vorrei condividere il Vangelo di Gesù di Nazareth, anch lui un popolano povero, semplice e buono, un uomo che era capace di avvicinarsi a tutti, con comprensione, affetto, per farli rinascere portarli a Dio Padre. Gesù, che vuol bene alla gente, che accetta tutti e perdona tutto a tutti, che a tutti tende una mano invitandoli a crescere in umanità accettando l’amore del Padre.
Come essere missionario per tutte queste persone che incontro? Quali sono le sfide che mi pongono? Potrei elencare i problemi di giustizia e pace legati alla povertà e al mancato sviluppo, l’urbanizzazione, l’attrazione di una cultura moderna che è impregnata di materialismo, il dialogo con le fedi diverse, sopratutto l’islam. Queste sembrano essere, almeno per me in Africa, le sfide maggiori che ci vengono dall’esterno. C’è una serie di altre sfide che nascono dalle nostre insufficienze di chiesa e di missionari, e che potrebbero essere elencate come: tendenza a presentare la fede come fosse una serie di precetti piuttosto che come rapporto personale con Gesu risorto; la poca attitudine al cambiamento, e quindi l’incapactà di promuovere un’ inculturazione profonda, che non riguardi solo l’esteriorità come gli strumenti musicali o la gestualità durante le celebrazioni, ma le relazioni comunitarie e la formazione cristiana di un popolo di giovani; una presentazione della sessualità umana che ancora risale, nel migliore dei casi, ad una elaborazione fatta in Europa alla metà del secolo scorso, centrata sul cosa non si può fare piuttosto che sul come essere.
Ma la sfida vera sono sono le persone, il loro bisogno di senso e di relazioni. Non un problema, ma una ricchezza, la sola autentica ricchezza della chiesa. La metodologia missionaria è la metodologia di Gesù: andare diritto al cuore delle persone e costruire relazioni e comunità. Se sono cristiano posso guardare agli altri solo come a fratelli o sorelle da capire e da amare. Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo protestante così vicino alla gente da morire in campo di concentramento nazista, ha sintetizzato in una frase l’atteggiamento con cui bisogna bisogna porsi di fronte altri: “Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Chi non sa ascoltare il fratello ben presto non saprà neppure più ascoltare Dio.”
Allora, certamente, la sfida più grande è la mia conversione.

Sudan: Grandi Manovre – Great Manoeuvres

Per anni è stata la “guerra dimenticata” per antonomasia. Ogni volta che un giornalista “riscopriva” che in un angolo d’Africa chiamato Sudan – un angolo per modo di dire, visto che il solo Sud Sudan è vasto ben oltre tre volte l’Italia – c’era ancora in corso una guerriglia cominciata nel 1982, l’inevitabile cliché diventava parte del titolo. Poi, da quando il 9 gennaio 2005, dopo due anni di negoziati, a Nairobi è stato firmato un complicatissimo trattato di pace – che gli addetti ai lavori chiamano Comprehensive Peace Agreement (CPA) – è diventata la “pace dimenticata”. In attesa che si riaccenda la guerra?
Scetticismo a parte, è impressionante che ci siano stati tanti sforzi per far terminare la guerra e poi si sia fatto molto poco per consolidare la pace. Stati Uniti ed alleati europei non hanno esitato e evocare, durante i negoziati, sia al Nord che al Sud, da un lato, il bastone di sanzioni internazionali, tagli alla cooperazione e isolamento politico e, dall’altro, la succulenta carota dello sviluppo economico, esportazioni di petrolio senza limiti, abbondanti aiuti umanitari. Oggi però sembrano tutti disinteressati a quanto sta avvenendo.
Ho visitato il Sud Sudan poco tempo fa. Le aspettative e le emozioni in preparazione del referendum previsto dal CPA entro gennaio 2011 hanno creato un’atmosfera di euforia che offusca i pericoli reali. La popolazione è chiamata a scegliere tra una forma di federazione col Nord e l’indipendenza. Non ho mai conosciuto un sudsudanese che non volesse la completa autonomia dal Nord. Nemmeno John Garang, che pure affermava la sua voglia di unità solo per ragioni di politica internazionale.
Che quindi il prossimo gennaio il Sud Sudan voti quasi unanimemente per l’indipendenza è scontato. Le divisioni storiche, culturali, sociali, religiose fra il Nord e il Sud sono troppo profonde per essere sanate in cinque anni. E questo era facile da prevedere. Ma si dovevano prevedere e prevenire anche le condizioni che potrebbero portare al ritorno della guerra, o alla frammentazione del Sud Sudan in un non-Stato, che rischia di assomigliare molto da vicino all’attuale Somalia.
È evidente, infatti, che il Nord non ha nessuna intenzione di lasciar che il Sud si separi, portandosi via tutto il petrolio che contiene, e farà di tutto per dividerlo e indebolirlo.
In settembre, il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, in un discorso a un comitato del Congresso americano, ha solo brevemente accennato al Sudan. Rispondendo a una domanda specifica, ha aggiunto che i rapporti fra Nord e Sud Sudan, nel contesto del referendum che si sta preparando, sono «una bomba a orologeria pronta a scoppiare». Bella scoperta!
La lista dei ritardi e delle inadempienze del CPA è lunga. Non solo si è fatto poco per rendere l’unità del Paese appetibile ai sudisti, come prevede il CPA, ma si è stati a guardare – o si è fatto finta di non vedere – che le due parti si stavano riarmando. Si sono lasciati proliferare gli abusi dei diritti umani e la corruzione. Si sono accettate senza batter ciglio le elezioni come quelle dello scorso aprile, ben lungi dall’essere libere e democratiche. Si è lasciato che nel Sud si consolidassero le tendenze accentratici e dittatoriali dell’Splm. Il Sud Sudan – o comunque si chiamerà il nuovo Stato che nascerà dall’inevitabile scissione – sta ripetendo tutti i peggiori errori delle indipendenze fallite. Come il Congo, la Nigeria, la Repubblica Centrafricana, per nominarne solo alcune: Paesi che dopo anni di indipendenza formale sono ancora tutti da inventare come Stati dignitosamente indipendenti.
Per il Sudan l’inadempienza più grave, nonché quella che potrebbe avere le conseguenze più drammatiche – è connessa alle rivendicazioni sugli enormi campi di petrolio che giacciono sul confine fra Nord e Sud. Confine che avrebbe dovuto essere definito entro sei mesi dalla firma del CPA e che non è ancora stato demarcato. Alcuni lunghi tratti non sono ancora tracciati per ragioni etniche, altri sono stati contestati. Ormai il tempo stringe. Superare l’impasse non è più solo un compito da tecnocrati: deve intervenire la volontà politica di Khartoum e di Juba.
Invece la tensione sale ogni giorno. Alle tanto bellicose quanto inopportune dichiarazioni dei rappresentati del Sud, il Nord reagisce ostacolando metodicamente il dialogo e il lavoro di preparazione del referendum. Più si avvicina il mede di gennaio, più aumenta la possibilità che si torni a un conflitto armato. Non c’è volontà di superare insieme gli ostacoli, piuttosto ciascuna delle due parti fa ogni possibile mossa perché, nel caso si ritorni al conflitto armato, la responsabilità appaia essere dell’altra parte.
La minoranza di islamisti intransigenti e fanatici che controlla il Nord sembra contare sulla sua capacità di lasciar passare le tempeste, riassorbire il dissenso, alimentare le divisioni nel campo avversario. Vedi il silenzio mediatico che sono riusciti a far calare sul Darfur, nonché l’inefficacia del mandato di cattura spiccato da parte della Corte Penale Internazionale contro il Presidente Omar al-Bashir.
Forse il Sud pensa che, nel peggiore dei casi, sia possibile una veloce guerra di secessione, immaginando si essere appoggiati dalla comunità internazionale. I leader sudisti, infatti, non si considerano più dei “ribelli”, ma rappresentanti democraticamente eletti dalla popolazione, in elezioni che sono state per lo meno formalmente riconosciute come libere.
Anche lo scontro per il controllo delle riserve petrolifere, con tutti i mezzi e mezzucci possibili, é inevitabile.
A meno che non ci sia qualche accordo o qualche piano conosciuto solo nei corridoi della diplomazia internazionale, e delle companie che commerciano in armi. Non è possibile, infatti, che Hillary Clinton e la cosiddetta “comunità internazionale” non si accorgano di cosa sta succedendo, non abbiano previsto tutti gli scenari possibili e non abbiano dei piani di intervento. Davvero Obama e la Clinton stanno solo ad aspettare che la bomba ad orologeria scoppi prima di intervenire? Il Sudan non è solo terreno di scontro economico. È un banco di prova importantissimo per i rapporti fra Stati Uniti e mondo arabo. Agli inizi degli anni Novanta, Khartoum era la base operativa di Osama bin Laden e senz’altro molti nordisti sarebbero pronti a dare ospitalità ad Al-Qaeda. In questo scenario, un nuovo conflitto armato in Sudan sarebbe un fattore di destabilizzazione gravissimo, in un Corno d’Africa che è già una polveriera.
L’indipendenza del Sudan, sia del Nord che del Sud, è ancora un lungo e difficile processo, ad alto rischio di diventare sanguinoso. E’ un treno in corsa, e se anche al momento alcuni dei manovratori paiono distratti, saranno loro che al momento opportuno cercheranno di intervenire per determinarne la direzione.

Famiglia Cristiana Online

Sto faticosamente tentando di scrivere un blog che riassuma come personalmente vedo l’evoluzione del “processo di pace” del Sudan. Spero di finire entro la settimana.

Intanto vi segnalo una serie di interessanti servizi di Luciano Scalettari, su Kenya e Uganda, che trovate sul sito di Famiglia Cristiana. Non è necessario essere abbonati. Il primo servizio è a:

http://www.famigliacristiana.it/Informazione/i-grandi-servizi/articolo/l-africa-che-spera-1—i-palazzi-di-kibera.aspx

Felice di Fare il Moderatore

Continuano ad arrivare commenti all’articolo di Odede sul turismo negli slums. Dopo quelli interessantissimi di Clara e di Seba, Fabrizio mi ha mandato un’altra riflessione. Eccola qi sotto. Lasciatemi solo aggiungere che son tutte riflessioni che al dà delle opinioni rivelano che gli autori si sono avvicinati agli africani con grande preparazione, attenzione e rispetto.

A quanto già scritto vorrei aggiungere che anche molti amici africani che visitano l’Italia scontano i nostri stessi problemi: sono colpiti dai luoghi, dalle infrastrutture. Vedono il treno che passa tra le montagne, quello che va sotto i palazzi, i monumenti, le piazze, ma soprattutto la ricchezza, l’assenza di soldi – no cash – perché tutto il denaro è in una carta, ma non vedono le persone, non si accorgono che ci sono anche qui problemi e sofferenze. L’occidente appare come una collezione di oggetti dove le persone sono solo sullo sfondo. Tutto ciò fa sentire gli africani ancora più poveri e più sofferenti perché non hanno tutto quello che qui possono vedere, ma non toccare. Dimenticano ciò che hanno, sia in termini di relazioni umane, sia riguardo tutti gli aspetti positivi (età, salute, persone vicine…) anzi per loro in Africa è tutto negativo in contrapposizione alla totale positività dell’occidente. Mi ricordo che Njonjo dopo aver visitato una stalla in Trentino mi disse: “qui le mucche vivono in una casa migliore di quella in cui vivo io”. Così molti altri con lo stesso refrein, solo Stephen colse con una frase la complessità delle situazioni quando vide sul lungo lago di Lecco, nel giro di pochi minuti , due persone parlare da sole “Noi Nuba siamo poveri anzi direi poverissimi, siamo più poveri dei poveri dell’Africa, ma tra noi non c’è nessuno così povero da non avere un amico con cui parlare”. Sono viaggi pieni di pensieri e pensieri pieni di viaggi dove è la coscienza del vedere a fare la differenza.

Mi pare di poter dire, a questo punto, che quello che si nota in un viaggio sono le differenze, non l’essenza, le “proprietà” del luogo. Si vede l’immediato, ciò che istantaneamente ci appare ed è per questo che lo fotografiamo. Chi lo ha capito ne ha fatto business, due euro per una foto con colombi a Venezia, due Birr per una foto ad Addis. In fondo si vede specularmente, i ricchi in Africa vedono solo la povertà mentre gli africani in Europa vedono solo la ricchezza. Questo è così vero sia per noi che per gli africani che appena ci incontriamo e per lunghi giorni non distinguiamo i volti degli uni e degli altri ci vediamo solo attraverso il colore. Non riusciamo a capire che quello è Peter, l’altro e Mwangi, uno e Giovanni e l’altro è Fabrizio perché sono tutti uguali, tutti neri per noi, tutti bianchi e con il naso grosso per loro. Mettere a fuoco i volti oltre il paesaggio è l’essenza del viaggio, le relazioni resteranno il luogo passerà.

Pensieri pieni di viaggi, viaggi pieni di pensieri.

Fabrizio

Qualche Aggiornamento – Some Updates

Philip Emase che ha lavorato con noi per quasi tre anni come responsabile della Comunicazione ci ha appena lasciato per andare a lavorare a Accra, in Ghana, per una importante ONG panafricana. Stava completando il periodo di formazione per diventare membro di Koinonia, e la distanza non gli impedirà di continuare.

Il suo posto è stato preso da Eric Sande, anche lui con noi da quasi tre anni. Eric sta riattivando o iniziando nuovi siti in internet, dove potete trovare informazioni sulle attività di Koinonia. Oltre a Koinonia Kenya, che resta per noi il riferimento, dove troverete sempre più spesso links a brevi video, le novità più importanti sono:

NewsFromAfrica viene aggiornato almeno tre volte la settimana, con articoli importanti. E’ anche in partnership con Afronline, che il mese scorso ha ripreso oltre una decina di articoli da NewsFromAfrica. Eric sta anche preparando un nuovo logo.

E’ stato riattivato il sito de The Invisible Cities, la struttura che lavora con noi nella produzione di video.

Per sostituire Africa Peace Point (APP), nata per lavorare con Koinonia in progetti di pace e poi andata per conto suo, abbiamo avviato un nuovo settore di Koinonia, chiamato Koinonia Action for Peace (KAP). KAP, con un contributo trovato degli amici del Centro Helder Camara di Milano, ha iniziato un programma di sei mesi di educazione ai diritti dei bambini. Troverete tutte le informazioni su questo programma nel sito di KAP che dovrebbe essere pronto per gli inizi della prossima settimana.

Eric sta anche aggiornando il sito del Shalom Institute of Social Studies (SISS). E’ una iniziativa che avrò altre occasioni di presentare. Al momento offre un certificato in Youth Studies, gestito in collaborazione con il Tangaza College. Il certificato dovrebbe continuare con un diploma ed infine, dopo tre anni di studio, una laurea. Perchè il sito di SISS sia aggiornato (al momento è solo una presentazion generica) bisogna dar almeno 10 giorni di tempo a Eric.

I links a questi siti sono presenti nella colonna qui a sinistra, anche quelli che mentre scrivo non sono ancora operativi.

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