Non c’è niente di più deprimente per un missionario che vive e opera agli estremi confini della chiesa che leggere articoli e libri sulla missione della Chiesa. Esperti e teologi ci spiegano come dovremmo essere e quali azioni dovremmo intraprendere per affrontare le grandi e nuove sfide della missione. Poi , di fatto, si resta soli. Col tempo ogni missionario impara a discernere quali sono le cose che è capace di fare, in cui ha qualche talento da spendere, e, con l’aiuto di Dio, cerca di fare qualcosa al servizio del Vangelo. I fallimenti sono inevitabilmente più numerosi che non i successi. Poi, naturalmente, ti rimproverano di esserti isolato. Ti nasce il dubbio di aver sbagliato tutto, di aver tradito la tua vocazione e il carisma del tuo istituto. Di essere missionario solo per un’etichetta che ti hanno cucito addosso.
Qualche anno fa mi ero iscritto per partecipare ad un ritiro spirituale diretto da un grande teologo e scrittore di temi missionari. Avevo letto alcuni suoi testi e li avevo trovati ricchi di ispirazioni. Il tema era stimolante, “Le sfide per la Missione, oggi”. Il corso si sarebbe dovuto tenere in Malawi, un paese Africano normalmente considerato un paradiso turistico. Ma non lo si tenne, perché il famoso teologo lo cancellò all’ultimo momento quando gli fu detto che in Malawi c’è il rischio malaria… Decisi di usare quella settimana per fare un altro viaggio, ma in Sudan, sui Monti Nuba, in Sudan, dove c’erano cristiani per i quali la celebrazione dell’Eucarestia e del sacramento della Riconciliazione erano un lusso che si potevano permettere solo ogni due o tre anni. Fu un’esperienza che mi vaccinò contro le belle parole, parlate o scritte. Imparai a credere di più alla sapienza delle persone semplici – agli stimoli e alle sfide che ci vengono da loro – piuttosto che alla sapienza dei dotti..
Naturalmente non smisi di riflettere su ciò che facevo e che faccio, e non smisi di leggere tutto ciò che gli altri scrivono sul tema, per lo meno i testi che riesco a trovare. Il tenersi vivi e attenti, vigilare, come ci dice Gesù nel Vangelo, non solo nell’attesa del ritorno del Signore, ma anche per approfondire la conoscenza della società e della cultura della gente in mezzo alla quale si vive, è parte integrale della vita di un missionario.
Dopo questa lunga premessa, è chiaro che le sfide che si parano davanti a me, missionario “di strada” – o, come direbbero a Nairobi, “jua kali” cioè che lavora sotto il “sole cocente” – sono frutto delle mie scelte e di una visione assolutamente personale. Non voglio usare, forse non sarei più capace di farlo correttamente, parole come “pneumatologia”, “modelli di chiesa” e “paradigmi missionari”. Posso parlare delle sfide alla mia vita di missionario solo ripensando agli incontri che ho avuto in questi ultimi tempi, agli sguardi che hanno cercato i miei occhi, ponendomi domande magari senza neppur aprire bocca.
Jeannine è nata in Ruanda. Ne è fuggita nei mesi immediatamente seguenti il genocidio del 94, aveva 19 anni, ed è arrivata a Nairobi insieme alla mamma dopo due anni di calvario fra Burundi, Tanzania e Uganda. Adesso è sposata con un connazionale, hanno tre figli, lui fa lo scultore di legno a Kivuli, il centro per ex bambini di strada dove vivo, lei fa i lavori di casa, e,da pochi mesi, cioè da quando i rifugiati ruandesi in Kenya possono legalmente risiedere in Kenya e quindi non si devono nascondere ogni volta che passa un poliziotto, quando ha tempo libero si mette fuori dalla porta della baracca che affittano a Kawangware per abbrustolire e vendere ai passanti pannocchie di mais. Ma questa non è la sua casa e la sua cultura. Vorrebbe rientrare ma non si sente sicura. Lo stesso vale per i molti sudanesi che sono venuti qui ai tempi della guerra civile nel loro paese, e non vogliono tornare perché temono che la pace non duri. I rifugiati a causa di guerre nel mio quartiere sono almeno uno su cinque.
Denis invece è un keniano di 16 anni. La mamma è single, economicamente arrivata, di quella prima generazione keniana di donne emancipate che hanno voluto avere un figlio senza avere un marito. Denis frequenta una scuola privata di ottima reputazione, pagando una retta mensile che corrisponde al salario mensile medio di tanti lavoratori a Nairobi. E’ un privilegiato. Eppure domenica scorsa mi si è avvicinato fuori dalla chiesa dicendomi che voleva confessarsi. Ma come fai a confessarti se non sei cattolico? In realtà Denis voleva fare un colloquio per parlare delle paure e dei sogni del suo futuro, del suo confuso desiderio di approfondire il suo rapporto con Gesù e entrare nella chiesa cattolica, dalla sua incerta identità sessuale, della sua disperata necessità di qualcuno a cui chiedere consigli per orientarsi nella foresta della vita. Mi dice una frase rivelatrice: “I nostri anziani, al villaggio, diventavano adulti attraverso l’iniziazione. Io sono diventato adulto guardando la televisione. Non posso negarlo, mi piace, mi fa sentire in contatto col mondo. Ma non trovo risposte alle mie domande. Mia mamma? E’ un’estranea, anche se le voglio bene perché mi dà tutto”. I giovani in tutta l’Africa non hanno più guida. Le statistiche da decenni ci dicoo che in Africa il 50% della popolazione ha meno di 18 anni. Anche se in molti di loro c’è una forte domanda di spiritualità, la chiesa riesce a raggiungerne pochi, e spesso in modo superficiale, per mancanza di personale apostolico.
Kivuli è punto di ritrovo anche per un gruppo di giovani Luhya, numericamente la seconda etnia del Kenya, tutti adolescenti o poco più, tutti immigrati recentemente dalla stessa zona, tutti in cerca di una borsa di studio e di un lavoro per poter studiare la sera. Anche loro in cerca di un senso per la loro vita. Si ritrovano quasi ogni giorno, si scambiano storie di frustranti giornate sui marciapiedi di Nairobi e si divertono facendo un po di danza e di teatro. Hanno ancora grandi speranze ed un grande senso dell’umorismo sulla loro situazione. Ieri Kasuko, una bellisssima ragazza, imitava gli atteggiamenti lascivi di un potenziale datore di lavoro, mentre Kevin raccontava come avesse rischiato il linciaggio per aver inavvertitamente urtato un anziano passante che si è messo ad urlare “al ladro!”, temendo fosse un borsaiolo. Charles invece è troppo stanco per continuar a andare in giro a cercare un lavoro decentemente retribuito – non chiede molto, gli basterebbero 100 euro al mese – ed ha deciso di aiutare una zia dandole il turno per vendere frutta in un banchetto abusuvo, ai margini della strada. Il papà è una dei tanti sconfitti dalla città, ormai permanentemente ubriaco. Eppure questi ragazzi, nonostante le esperienze negative che hanno sotto gli occhi, continua ad inurbarsi in cerca dell’eldorado, anche perché in campagna, dove in teoria potrebbero avere un vita più dignitosa, il governo non provvede i servizi essenziali.
Mameo è un prode guerriero Samburu. O meglio, lo era. Adesso è venuto in città per accumulare qualche soldo prima di sposarsi, e fa la guardia privata nientemeno che a Kibera, lo slum più grande e più povero di Nairobi. Il primo lavoro, che fa tuttora, è stato per i residenti di un gruppo di baracche poverissime dove non si capisce che cosa si potrebbe rubare. Lo hanno assunto per fare la guardia durante il giorno, quando sono tutti fuori per lavoro, a parte un bambino di 4 anni, gravemente malato, che la mamma è costretta a lasciare in casa da solo. Lo pagano 40 centesimi di euro al giorno. Poi ha trovato lavoro anche come guardia notturna per una famiglia della classe media, in un quartiere residenziale a poca distanza. Quando dorme? Risponde serio serio, non c’è tempo per dormire, adesso devo raccogliere i soldi per poter sposare una buona ragazza. Sospeso fra nomadismo e vita urbana, Mameo è nomade anche religiosamente, ogni domenica va in una chiesa diversa, dove gli capita di passare. Par lui la chiesa non è importante, l’importante è pregare il Creatore.
Sabato il gruppo di donne volontarie che una volta alla settimana vanno a visitare e incoraggiare persone che hanno l’AIDS conclamato, o sono comunque gravemente malate, avevano solo storie tristi da scambiarsi. Due dei loro malati, su circa centoventi, erano morti nella settimana precedente. Altri si stanno lasciandosi morire, avendo perso la speranza di poter accedere ai farmaci antiretrovirali. Un bambino è morto di malaria, e la tubercolosi continua a rovinare vite. Ammalarsi anche di una malattia curabilissima nel mondo ricco, in Africa è una condanna a morte. Agnes scuote la testa, sconsolata, “La cosa migliore che possiamo fare è aiutare i malati a morire sereni, affidandosi a Dio”.
A Kibera, vicino alla casetta che ospita il nostro progetto di prima accoglienza per bambini di strada, vive Musa, musulmano quarantenne. Non un fanatico, ma di fede granitica. Commercia in vestiti usati e nel tempo libero fa l’allenatore di un gruppo di giovani che praticano la lotta tradizionale. Un paio di mesi fa mi ha rivolto la parola per la prima volta, avvicinandomi con un discorso conciso e ovviamente preparato con molta cura: “Mister Kizito (così mi ha chiamato), sono due anni che osservo ciò che tu e gli altri di Koinonia fate per il recupero dei bambini e l’educazione dei nostri giovani. Mi piace ciò che fate. Perché non facciamo delle attività insieme?”. E’ nata cosi l’iniziativa di una competizione di lotta tradizionale. E’ facile collaborare con Musa, è un uomo giusto, senza inganno. Spero che insieme si possano fare anche cose più impegnative a livello di formazione umana.
Sono tutti questi volti che mi vengono in mente. Con loro sono parte del fiume della vita , che mi porta e mi fa sentire immerso nell’inesauribile e sempre mutante complessità della condizione umana. Sono persone povere, umili, che faticano a mantenere se stessi e la famiglia, ossessionati dal mettere insieme ogni giorno qualcosa per mangiare, per pagare l’affitto a fine mese. Sono persone che in molti modi sono in transizione, fra la tradizione e la modernità, in balia di forze sociali, economiche e culturali immensamente più forti di loro. Quando si parla con loro di Dio manifestano una fede genuina. Sono aperti al Vangelo anche se provengono da tradizione religiose diverse. Hanno una carica di speranza e positività che li aiuta a superare difficoltà inimmaginabili.
Io, proveniente da un mondo impregnato da un grande senso di superiorità culturale, rafforzata dalla supremazia tecnologica, con queste persone, non con altre, vorrei condividere il Vangelo di Gesù di Nazareth, anch lui un popolano povero, semplice e buono, un uomo che era capace di avvicinarsi a tutti, con comprensione, affetto, per farli rinascere portarli a Dio Padre. Gesù, che vuol bene alla gente, che accetta tutti e perdona tutto a tutti, che a tutti tende una mano invitandoli a crescere in umanità accettando l’amore del Padre.
Come essere missionario per tutte queste persone che incontro? Quali sono le sfide che mi pongono? Potrei elencare i problemi di giustizia e pace legati alla povertà e al mancato sviluppo, l’urbanizzazione, l’attrazione di una cultura moderna che è impregnata di materialismo, il dialogo con le fedi diverse, sopratutto l’islam. Queste sembrano essere, almeno per me in Africa, le sfide maggiori che ci vengono dall’esterno. C’è una serie di altre sfide che nascono dalle nostre insufficienze di chiesa e di missionari, e che potrebbero essere elencate come: tendenza a presentare la fede come fosse una serie di precetti piuttosto che come rapporto personale con Gesu risorto; la poca attitudine al cambiamento, e quindi l’incapactà di promuovere un’ inculturazione profonda, che non riguardi solo l’esteriorità come gli strumenti musicali o la gestualità durante le celebrazioni, ma le relazioni comunitarie e la formazione cristiana di un popolo di giovani; una presentazione della sessualità umana che ancora risale, nel migliore dei casi, ad una elaborazione fatta in Europa alla metà del secolo scorso, centrata sul cosa non si può fare piuttosto che sul come essere.
Ma la sfida vera sono sono le persone, il loro bisogno di senso e di relazioni. Non un problema, ma una ricchezza, la sola autentica ricchezza della chiesa. La metodologia missionaria è la metodologia di Gesù: andare diritto al cuore delle persone e costruire relazioni e comunità. Se sono cristiano posso guardare agli altri solo come a fratelli o sorelle da capire e da amare. Dietrich Bonhoeffer, il grande teologo protestante così vicino alla gente da morire in campo di concentramento nazista, ha sintetizzato in una frase l’atteggiamento con cui bisogna bisogna porsi di fronte altri: “Il primo servizio che si deve al prossimo è quello di ascoltarlo. Chi non sa ascoltare il fratello ben presto non saprà neppure più ascoltare Dio.”
Allora, certamente, la sfida più grande è la mia conversione.
There’s nothing more depressing for a missionary who lives and works at the extreme periphery of the Church than reading articles and books on the Church’s mission. Experts and theologians tell us how we should be, and what actions we should take to address the new and major challenges of mission life. Then, in fact, missionaries remain basically isolated.
Over time, every missionary learns to discern the things he can do, those for which has some talent, and then with God’s help, he tries to do something at the service of the Gospel. The failures are inevitably more numerous than the successes. Then of course, you are told you have acted in isolation. You start doubting whether you have done everything wrong, or whether you have betrayed your vocation and the charism of your institution. Or whether you are only a missionary because of the label that has been sewn onto you.
Some years ago I enrolled to attend a spiritual retreat led by a great theologian and writer on missionary themes. I had read his texts and found them inspiring. The topic under discussion, “Challenges for the Mission today,” was of great interest to me. The course was to be held in Malawi, an African country normally considered a tourist paradise. But it was not held because the famous theologian cancelled it at the last minute, apparently because he was told that in Malawi he would be at risk of contracting malaria.
I decided to use that week to make another trip to the Nuba Mountains region of Sudan, where there were Christians for whom it was a luxury to celebrate the Eucharist and the Sacrament of Reconciliation. It was something they could only afford to celebrate once every two or three years. The experience vaccinated me against fine words, spoken or written. I learned to believe more in the wisdom of simple people – and to the stimuli and calls we receive from them – rather than in the wisdom of the learned intellectuals.
Of course I did not stop thinking about what I did and still do. I continued reading all the materials that are written on the topic of mission life, at least in the texts that I can find. The duty to keep alive, alert and vigilant, as Jesus tells us in the Gospel, is valid not just for the sake of waiting the return of the Lord, but also because it is an integral part of the life of the missionaries, in order to deepen their knowledge of the society and culture of the people among whom they live.
After this long introduction, one written by a missionary of the streets – or as they say in Nairobi, a “jua kali” missionary (Swahili for “one who operates under the hot sun”) – it is clear that the following list is the result of a highly personal vision. I do not want to use words like “pneumatology,” “models of church” and “missionary paradigms”. In fact I would not be able to use such big words correctly. I speak of the challenges to my life as a missionary only thinking of the people I had met in recent times, of the questioning eyes that have searched my eyes, and of the questions they have sometimes asked without even opening their mouth.
Jeannine was born in Rwanda. She fled the country in the months immediately following the infamous 1994 genocide. At the age of 19 she arrived in Nairobi with her mother after two years of wandering between Burundi, Tanzania and Uganda. Now she is married to a fellow Rwandan refugee and they have three children. Her husband is a wood carver operating from Kivuli, the center for former street children where I live in Nairobi, while she does the housework. In the past few months since Rwandan refugees were allowed the right to reside legally in Kenya, and thus no longer have to hide every time a policeman passes, she spends her free time outside the door of the cabin that they rent in the Kawangware slum, roasting and selling corn cobs to passers-by. But this is not her home and her culture. She would like to go back to Kigali but does not feel safe. The same case applies to many Sudanese nationals who came to Nairobi over the many years of civil war in their country, and do not want to return because they fear that the fragile peace will not last. There are at least one in five refugees from the Sudan war in my neighborhood.
On the other hand, Denis is a Kenyan boy of 16. His mother is a single, economically independent lady from that generation of emancipated women who chose to have a child without wanting a husband. Denis attends a highly reputed private school where the monthly tuition amounts to the average monthly salary of many Nairobi workers.
Needless to say, Denis is a privileged boy. Yet last Sunday he approached me outside the church and said he wanted to confess, although he is not a Catholic. Actually he wanted to have some time to talk randomly about his fears and dreams concerning his future, his confused desire to deepen his relationship with Jesus and join the Catholic Church, his uncertain sexual identity, and his desperate need to find someone who will give him advice and help him navigate the forest of life. He uttered a revealing phrase: “Our elders in the village became adults through initiation. I have grown up watching television. I can not deny it, I like it, makes me feel in touch with the world. But I do not find answers to my questions. My mom? She is a stranger, although I love her because she gives me everything I need. ”
Young people across Africa are no longer any kind of guidance. The statistics tells us that in Africa 50% of the population is under 18 years. Although many of them have a strong demand for spirituality, the church can not reach but a few of them, and often quite superficially, for lack of apostolic committed personnel. The future is passing by and we just watch it to go.
Kivuli is a meeting point for a group of young Luhya, numerically the second Kenyan ethnic group, all of them teenagers or so, all recent arrivals from the same part of the country, all looking for a scholarship and a job, all wanting to work during the day and to study in the evening. Even they, like the privileged Denis, are in search of meaning in their lives. They meet frequently, exchanging stories of frustrating days on the pavements of Nairobi and have fun doing a little bit of ethnic dances and theatre. Still all of them have high hopes and a great sense of humor about their situation.
Yesterday Kasuko, a beautiful girl, was imitating the lascivious approach tryed on her by a potential employer, while Kevin told how he risked being lynched for having inadvertently hit an elderly passer-by who started yelling “Stop the thief!”, fearing that Kevin was a pickpocket. Charles got too tired of going in search of a decently paying job. He is not even asking for much – he would be happy with a salary of $100 per month. Instead he has decided to help an aunt, taking turns to sell fruit at a stall along the main road in Kawangware. His father, one of the many losers in this urbanization game, is permanently drunk on cheap and dangerous alcohol. Yet these young people, despite the negative experiences they face, have not given up the search for El Dorado, because in their countrysides, where in theory they could have a more dignified life, the government does not provide essential services.
Mameo is a brave Samburu warrior. Or rather, he was. Now he has come to Nairobi to earn some money before getting married. He is a security guard in Kibera, the largest and poorest slum in Nairobi. The first job he got, which he is still doing, is to guard residents of a group of huts who are so poor that you cannot understand what anyone would wish to steal from them. They hired him to keep watch during the day, when all of them are either out at work or looking for work, except for a four year old child who is so seriously ill that his mother is forced to leave him alone at home.
These poor residents pay Mameo $0.40 a day. Later he has found a job as night watchman for a middle-class family in a richer residential neighborhood nearby. When does he sleep? He answers this question very seriously: “There us no time to sleep, now I need money to organize for a marriage with a good girl”. Suspended between nomadic and urban life, Mameo is also a religious nomad, every Sunday goes to a different church, wherever he happens to pass by. He thinks the church is not important, the important thing is to pray to the Creator.
On Saturday a group of women volunteers who go once every week to visit and encourage people suffering from AIDS, or are otherwise gravely ill, had only sad stories to share. Two of their patients, out of a total of about one 120, had died the previous week. Others are left to die, having lost hope of accessing antiretroviral drugs. One child died of malaria. Tuberculosis continues to ruin lives. Diseases that are easily cured in the neighbouring rich suburbs of Nairobi by swallowing a few pills, are a death sentence here among the poor. Agnes shook her head sadly, “The best thing we can do is help patients die peaceful, trusting in God.”
In Kibera, near the house that hosts our emergency shelter for street children, lives Musa, a Muslim of about forty. He is not a religious fanatic, but is a man of granitic faith. Musa trades in second hand clothes and during his leisure time he coaches a group of young people engaged in traditional wrestling. A couple of months ago he determinedly approached me for the first time, with a concise speech obviously prepared with great care.
“Mr. Kizito (that is what he called me), for the past two years I have watched what you and your Koinonia members are doing to help our children and to assist with the education of our young people. Why don’t we do the work together?”
And out of this conversation an initiative was born, in the form of a competition of African traditional wrestling. It is easy to work with Musa because he is a just man without deceit. I hope that together we can make things even more challenging in terms of human formation.
All these are faces that come to my mind when I think of mission. With them I am part of a river of life that carries me and makes me feel immersed in the inexhaustible and ever-shifting complexities of the human condition. The majority of them are poor, humble people struggling to support themselves and their families, obsessed with putting together something to eat everyday, and to be able to pay their rent at the end of the month. They are people who are in many ways in a transition between tradition and modernity, at the mercy of social, economic and cultural forces that are immensely stronger than them. When you talk to them about God they manifest a genuine faith. They are open to the Gospel, even if they come from different religious traditions. They are full of hope and positivity that helps them to overcome unimaginable difficulties.
I, from a world permeated by a strong sense of cultural superiority, reinforced by technological supremacy, want to share the gospel of Jesus of Nazareth, with them. Jesus was a poor, simple and good a man who was able to get close to all with understanding and affection, renewing their faith and bringing them closer to God the Father. Jesus loves the people, accepts all and forgives all our sins. He extended a hand to everyone, inviting them to grow in humanity by accepting the Father’s love, and at a sociological and cultural level, He was part of their culture and their dreams.
How can I be a missionary for all these people that I meet? What challenges do I face? I could make a long list: problems of justice and peace related to poverty and lack of development; urbanization; the attraction of a modern culture that is imbued with materialism; dialogue with other faiths, especially Islam. These seem to be, at least for me in Africa, the greatest challenges out there.
There are a number of other challenges that arise from deficiencies in our church and missionary training, and that may be listed as follows: a tendency to present the faith as if it were a series of precepts rather than a personal relationship with the Risen Jesus; resistance to change, and therefore inability to promote a deep enculturation, not only on external rites such as musical instruments or gestures during the celebrations, but the community relations and the Christian formation of the young people; a presentation of human sexuality that still goes back, at best, to the middle of the last century in Europe, focused on what you cannot do rather than on how you should be.
But the real challenge is in the people. Their need for meaning and relationships. Their need for God. People who are not a problem but an asset, the only true wealth of the church. The missionary methodology is the methodology of Jesus: go straight to the hearts of the people and build relationships and communities. If I am a Christian I can only look at others as brothers and sisters who need love and understanding.
Dietrich Bonhoeffer, the great Protestant theologian who was so close to his flock that he died in a Nazi concentration camp, summed up the attitude on which we must put ourselves on front of others in one sentence: “The first service is due to your neighbour is to listen to him. He who does not listen to his brother will soon not know how to listen to God any more.”
Then, probably, the most pressing mission challenge is my conversion.